Paolo Cugini
C’è una forza dentro alla storia che
nessuno può togliere. C’è un desiderio di vita e di giustizia che Dio ha
impresso dentro la storia attraverso l’azione dei suoi profeti, che la
superficialità umana, cioè l’atteggiamento che l’uomo e la donna hanno abitualmente,
non può scalfire minimamente. Forse a volte si ha l’impressione che la realtà
fisica, quella che appare a livello materiale, sia tutto fuorché giusta, tutto
fuorché pacifica, tutto fuorché segnata dall’amore. Eppure, per coloro che sono
rinati dallo Spirito, per coloro che accogliendo la Parola sono rinati
dall’alto, la percezione della giustizia di Dio dentro la storia degli uomini e
delle donne è un dato assodato. “Così il
Signore Dio farà germogliare la giustizia e la lode davanti a tutte le genti”
(Is 61,11). E’ di questa sicurezza che abbiamo bisogno, sicurezza che, allo
stesso tempo, è una certezza. Chi può avere il dono di tali parole? Chi mai può
essere il portatore di parole così sicure e ferme se non colui che le ha
sperimentate su di sé? E chi può sperimentarle senza divenire, ad un certo
punto della vita, una persona così libera da non fare dipendere più la propria
esistenza dalle cause esterne?
“Mi
ha mandato a proclamare la libertà degli schiavi” (Is 61, 2). A che cosa
serve l’avvento: a questo, ad uscire dalla schiavitù, ad uscire da una vita
bloccata e, di conseguenza frustrata. E’ questo che deve fare la Chiesa, il
resto non serve, il resto è contorno non necessario. Più diveniamo minoranza,
insignificanti dal punto di vista sociale, più saremo costretti a tornare
all’essenziale. Allora il tempo di avvento ci ricorda che l’essenza di un
cammino di fede, il senso della venuta di Gesù sulla terra e l’obiettivo del
discepolato è divenire persone libere.
Ci possiamo chiedere, allora: liberi
da che cosa? In primo luogo dalla tentazione di cercare la gloria degli uomini
e delle donne e di fondare la nostra identità sul giudizio degli altri. L’esempio
in positivo di questo cammino è Giovanni Battista, che la liturgia ce lo mostra
nel Vangelo. Giovanni Battista, nel dialogo con i leviti e i sacerdoti,
dimostra una chiarezza sulla propria identità impressionante. “Tu chi sei? Egli confessò e non negò. Confessò:
io non sono il Cristo” (Gv 1, 20). Lui sa di non essere il messia, perché sa
benissimo il senso della propria esistenza, sa qual è il suo posto nella
storia. Questa è a mio avviso la prima grande libertà che siamo chiamati a
maturare non solo durante l’Avvento, ma durante tutta la vita: la libertà dal
confronto con gli altri, libertà dalla tirannia di cercare negli altri delle
conferme sulla nostra identità. Questa libertà la si matura lentamente, in uno
sforzo continuo di riflessione e di cammino interiore. Giovanni Battista in
questo è un grande esempio, avendo maturato il senso del proprio posto nel
mondo, nel silenzio del deserto, in ascolto di una Parola che diventa realtà e
cammino di rivelazione per coloro che la vivono.
In secondo luogo, nel tempo di
Avvento siamo chiamati a liberarci dal male. Ce lo ricorda Paolo nella seconda
lettura: “Vagliate ogni cosa e tenete ciò
che è buono. Astenetevi da ogni specie di male” (1 Ts 5,17). Nel contesto
in cui viviamo non è facile maturare ogni giorno questa libertà. Diceva la
filosofa francese Simone Weil a questo proposito: “Amare Dio è non attaccare il cuore alle cose vane”. Non si tratta
di un semplice esercizio in negativo, perché se fosse così, non ce la potremmo
mai fare. Vince il male chi pone lo sguardo fisso sul bene e non lo molla un
istante. “Fissate lo sguardo su Gesù,
autore e perfezionatore della nostra fede” (Eb 12). Durante il tempo di
Avvento esercitiamoci allora, a cercare il bene in tutto ciò che è attorno a
noi, prima di tutto fra le persone che amiamo. Cerchiamo con tutto noi stessi
il bello che è attorno a noi e dentro di noi. Solo così potremo arrivare alla
notte di Natale e scorgere la Luce in mezzo alle tenebre della notte.
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