venerdì 30 settembre 2022

DOMENICA XXI TEMPO COMUNE A

 



TU SEI PIETRO

Mt 16,13-20

Paolo Cugini

 

Dice il teologo Armando Matteo che al mondo postmoderno non interessa più il discorso religioso e che quindi gli uomini e le donne di oggi possono anche vivere senza Dio. C sono pagine della Bibbia che avvalorano questa analisi, perché sembrano troppo lontane dalla nostra realtà, troppo distanti dai nostri problemi. E’ necessario un attento lavoro di ascolto, di riflessione per cogliere il valore che una pagina di Vangelo può avere per noi. Queste considerazioni valgono anche per il brano di oggi.

 

E’ interessante accompagnare il modo che Gesù di accompagnare i suoi discepoli, cioè di esercitare la sua paternità spirituale. E’ tutto fuorché impositivo, apprensivo. Accompagna i suoi discepoli per farsi conoscere. Mangia con loro, vive con loro. I discepoli hanno la possibilità di ascoltare la sua Parola, di vedere i suoi gesti, di fare domande e ascoltare. Gesù è con loro, li accompagna senza mai forzare un’indicazione, perché è in attesa della rivelazione del Padre. Non è Lui che decide chi sarà il capo dei discepoli, ma il padre. Per questo lascia il tempo affinché tutti lo ascoltino, lo conoscano, per far maturare in loro l’amore verso il Padre, per fare in modo che lo Spirito trovi spazio. “Beato sei tu Simone, Figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli”. L’insegnamento che ne possiamo ricavare è quello d non avere fretta di dire ai nostri figli che cosa devono fare, di dirgli cosa dovranno fare nella vita adulta. Ciò richiede da una parte la possibilità che essi ci vedano all’opera, e che quindi ci sia nella nostra azione un senso, perché è questo che assorbono, il senso che stiamo dando alla nostra vita. Dall’altra, ci viene richiesta la pazienza che solamente una persona di fede può avere, una persona che cerca tutti i giorni il significato della propria storia nel Vangelo di Gesù. Come infatti Gesù sprofondava nella preghiera quotidiana, nella ricerca personale della volontà del Padre, così la vita adulta nella fede si manifesta nella ricerca quotidiana della volontà del Padre su di noi. Maturiamo, così la pazienza di colui che sa aspettare la manifestazione del Signore. Gesù pone la domanda cruciale nel mezzo del cammino verso Gerusalemme, domanda che stimola nei discepoli una verifica del loro cammino, un entrare in loro stessi. Con la domanda Gesù permette ad ogni discepolo di capire il senso della loro sequela, di prendere posizione in un modo o nell’altro su Gesù, anche perché, come potranno verificare nel proseguo del cammino, le esigenze della sequela sono molto dure ed esigenti.

C’è poi nella pagina del Vangelo di oggi il modello di ogni vocazione, di ogni incontro con Dio, che si manifesta in tre momenti. Il primo è la ricerca di Dio. Gesù non dirige la domanda sulla propria identità a delle persone anonime, ma a coloro che hanno deciso di abbandonare tutto per seguirlo. Ciò significa che il discepolo è per natura una persona in ricerca di un senso della vita. Questo dato oggi non è per niente scontato. La vita consumista proposta nella civiltà globalizzata, sempre aver riempito con la materia in abbondanza anche gli interstizi dell’anima. L’effetto di questa proposta, che è un vero e proprio stile di vita globale, si vede e come nelle nuove generazioni. Stimolare la ricerca di senso, il bisogno di trovare un senso nella vita è forse la grande sfida della Chiesa oggi e non solo. E’ difficile, infatti, parlare di Dio e di Gesù a persone che non stanno cercando nulla, ma si stanno semplicemente riempendo il tempo di attività, spesso e volentieri slegate tra di loro, o che soddisfano delle attitudini. La manifestazione di Dio nella nostra vita, che è il secondo aspetto della dinamica vocazionale, avviene se c’è spazio nella nostra vita per questo incontro, se stiamo cercando qualcosa, se stiamo dedicando tempo a noi stessi, nella riflessione, nelle risposte ai grandi problemi della vita. Il terzo aspetto è la rivelazione della nostra vocazione: “Tu sei Pietro”. E’ un dono grandissimo capire il seno della nostra vita: forse è questa la più grande felicità che possiamo vivere.  E’ di questo che dobbiamo ringraziare il Signore.

Il problema maggiore per chi proviene da questo percorso spirituale consiste nell’abitare la propria vocazione. Le tre dimensioni sopra sottolineate non riguardano, infatti, semplicemente gli inizi, la rivelazione iniziale, ma ci accompagnano durante tutto il cammino. Dio non ci chiama per affidarci una vocazione per poi abbandonarci a noi stessi. Lui  è sempre presente: e noi ci siamo?

SALMO 80

 



Paolo Cugini

Fino a quando? La persona che scrive descrive la situazione di miseria in cui si trova.

A questa situazione viene contrapposto il ricordo del passato, di quando le cose andavano bene (9-12)

La supplica al signore è per chiedere a Dio che riporti il popolo nella situazione di felicità in cui si trovava.

La situazione decritta dal salmista è una situazione di disastro che ha sconvolto le sicurezze e le ricchezze del popolo d’Israele.  Il riferimento sembra essere il Regno del Nord.

Ci sono alcune immagini che dominano il salmo.

Pastore. E’ un’immagine che ricorre spesso nei salmi (95 e 23).

Vite. L’immagine di una vite che si dilata quasi senza limite ha riempito di gioia e di speranza l’orante della nostra preghiera (cf. Is 5, 27). Il rapporto tra il vignaiolo e la vigna è di amore. Il vignaiolo non solo cura la vigna, ma la ama, desidera pace.

Le immagini di pastore e vigna richiamano due momenti importantissimi della storia d’Israele:

-          Il pastore richiama il cammino nel deserto, quando il Signore ha accompagnato il suo popolo.

-          La vigna richiama invece l’insediamento nella terra promessa, che viene piantata e diventa grande.

 

Il salmista con queste immagini ci vuole ricordare che stiamo parlando di cose reali, che Israele ha sperimentato e continua a sperimentare.

COMMENTO

2-3: l’invocazione serve a stabilire il contatto con Dio. Chiamando il Signore di pastore sto indicando una prossimità, un rapporto d’amore e non d’estraneità. Le immagini della supplica parlano anche di un re e quindi ha un potere grande sulla storia, al quale niente può resistere. Possiamo davvero invocarlo perché il Signore è in grado di rispondere e intervenire nella nostra situazione.

Risveglia la tua potenza: cfr. sal 44,24-25, sal 78, 65 (immagine curiosa)

Fa splendere il tuo volto: è sorgente di vita e di vittoria (cfr. Nm 6,25)

4-8: sono versetti che esprimono una grande fede, dell’uomo che va  a Dio anche nelle situazioni gravi, di peccato che ha provocato l’ira di Dio. Non a caso si rivolge a Dio con il tu.

Tu ci nutri con pane di lacrime… I nostri nemici ridono di noi. Esperienza di sofferenza e dolore (cfr. LM 3,15-16).

9-12. A questo punto il salmista torna indietro a fare la storia del proprio passato, che è una storia meravigliosa. Quello che Dio ha compiuto nel passato lo può fare anche ora, Per questo il ricordo del passato, di quel passato positivo che Israele ha sperimentato, entra nella supplica.

13-14: ritorno al presente con una domanda: perché hai abbattuto la sua cinta? La colpa non viene data ai nemici, ma a Dio. Perché? Perché il salmista sa che il Signore è il Dio della storia e quindi qualcosa avvenga, non è che sia colpa sua, ma sta dentro al suo dominio, in qualche modo deve rientrare dentro ad un disegno. E allora e il Signore è davvero presente in tutto quello che avviene, anche nello nostre disgrazie, il Signore è capace di capovolgere la nostra sorte in qualunque situazione ci troviamo; non ci sono mai delle situazioni in cui le potenze del mondo dominano tanto che Dio non può più agire, che Dio non è più capace di operare e di salvare. Quando riusciamo ad entrare in questa logica, il nostro cammino di fede diventa una speranza salda e robusta.

13-16: Il Salmista ricorda a Dio he la vigna è roba sua, l’ha piantata Lui e quindi non può distruggerla (cfr. Ger 45, 4-5).

Dio degli eserciti volgiti: ritorna sui tuoi passi.

Vedi e visita questa vigna: l’immagine della vigna è stata capace di esprimere tutta l’esperienza del popolo d‘Israele.

17-18: primo aspetto-  annientamento dei nemici, dell’ingiustizia e dell’oppressione

Secondo aspetto: il re, figlio dell’uomo, è stato reo forte da Dio (cfr. Gs 1,6): il Signore ha reso forte Giosuè perché fosse in grado di agire.

Noi chiediamo che l’azione del Signore sia confermata. 

giovedì 29 settembre 2022

INTRODUZIONE AL VANGELO DI GIOVANNI

 




 

Secondo Dt 18, 15.18-19 Dio avrebbe promesso al suo popolo un profeta simile a Mosè. Questa promessa si è realizzata in Gesù di Nazareth. Questa convinzione percorre tutto il Vangelo di Giovanni e ne regge i temi principali.

Gesù nutre il popolo di Dio come aveva fatto Mosè nel deserto. Gv mette sulle labbra di Gesù delle parole che nell’AT riguardano Mosè (12,48-50; 8,28-29; Siccome nella prospettiva della nuova Alleanza Gesù prende il posto di Mosè, i giudei dovranno scegliere tra l’antico e il nuovo Mosè. Come Mosè che riferiva al Popolo ciò che Dio gli diceva, così è Gesù: non fa che trasmettere al popolo le parole che Dio gli ha affidato per loro (3,34; 17,8).

Il messaggio centrale di Gesù è questo: che ci amiamo gli uni gli altri come Gesù stesso ci ha amati (13,34-35). È il comandamento che riassume le dieci parole di Mosè perché Dio è amore (1 Gv 4,7-16). Il cristianesimo è essenzialmente una religione d’amore.

Come Dio aveva dato l’ordine al popolo a riguardo di Mosè: ascoltatelo (Dt 18,15), così è anche per Gesù, perché chi ascolta la Parola di Gesù ha la vita eterna (5,24).

Al tema Gesù nuovo Mosè è strettamente legato quello di Gesù re messianico.

Per esprimere le sue idee cristologiche, l’evangelista spesso usa la simbologia dei numeri. 7: simbolo di totalità, ma anche davidico, mentre 6 richiama l’idea dell’imperfezione. Esempio: il figlio del funzionario regio di Cafarnao viene guarito all’ora settima (4,52-53). Invece, la debolezza del Cristo-uomo si manifesta all’ora sesta (19,14).

Il quarto Vangelo afferma a più riprese la divinità di Cristo, ma gli dà raramente il titolo di Dio (1,1; 20,28).

La teologia dei segni qualifica l’intero libro.

Chi è l’autore? Per tradizione la chiesa dice che è Giovanni. È lui l’iniziatore del processo redazionale. Giovanni era pescatore in Galilea (21,2.7).

Quando fu composto? La più antica testimonianza risale al 125 d.C. Probabilmente è stato scritto a Efeso o ad Antiochia, al più tardi negli ultimi anni del I sec d.C.

All’evangelista interessa mettere in luce il senso di una storia che è ad un tempo divina e umana.

I miracoli raccontati sono segni che rivelano la gloria di Cristo e simboleggiano i doni che egli porta al mondo (purificazione nuova, pane, vino, luce, vita). Indipendentemente dai miracoli, l’autore ha il dono di cogliere il significato spirituale dei fatti e di scoprirvi misteri divini (cfr. 2, 19-21; 9,7; 11,51; 13,30, ecc.). Egli vede i fatti materiali e storici nella loro dimensione spirituale: Gesù è la luce che viene al mondo; il suo combattimento è quello della luce contro le tenebre; la sua morte è il giudizio del mondo; tutta la sua vita è il compimento delle grandi figure messianiche dell’AT; egli è l’agnello di Dio (1,29, il tempio nuovo (2,21), il serpente salvatore innalzato nel deserto (3,14), il pane di vita che sostituisce la manna (6,35), il buon pastore (10,11) la vite vera (15,1) ecc.

In Giovanni non bisogna opporre simbolismo e storia. Il simbolismo è quello dei fatti stessi , scaturisce dalla storia, vi si radica, ne esprime il senso e ha valore, per il testimone privilegiato del verbo fatto carne. 

mercoledì 28 settembre 2022

DA SERVI A FIGLI





XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C

Lc 17, 5-10

 

Paolo Cugini

 

Nel cammino che Gesù compie verso Gerusalemme, oltre ad annunciare il regno dei cieli con parole e opere, si percepisce l’intento di aiutare i suoi discepoli e le sue discepole a compiere un passaggio, un cambiamento di paradigma: passare dalla relazione religiosa con Dio ad una relazione di fede, di fiducia. Il passaggio è fondamentale, perché segna in profondità la vita e lo sviluppo umano di una persona.

In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sradicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.

Dalla richiesta dei discepoli si comprende bene che sono ancora all’interno di un sistema religioso. La fede, infatti, non è una questione che Dio può donare, non è un problema di quantità. È l’amore che il Padre dona e la qualità di questo dono l’ha manifestata Gesù. La fede è la risposta personale a questo dono del Padre, quindi non si può chiedere a Di, ma solo dirigere ls nostra vita verso di Lui. Ecco perché Gesù risponde in quel modo, perché dalla loro domanda si comprende bene che non hanno ancora colto l’identità del Signore, il senso profondo della sua proposta.

Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”?

Il problema che Gesù pone con questa parabola è molto serio, perché pone in gioco il modo di vivere il rapporto con Dio. Veniamo da secoli in cui la Chiesa ci ha inculcato i doveri, l’obbedienza ai precetti, identificando il rapporto con Dio con la religione. In questo modo, all’interno di questo legame l’uomo e la donna vivono come servi e non come persone libere. Quanta persone vivono male anche la vita umana perché hanno assimilato un insegnamento errato su Dio! Quante persone sono state indottrinate, catechizzate apprendendo a stare davanti a Dio con timore e sviluppando meccanismi di riverenza, con atteggiamenti che tengono il divino a distanza. Questo modo di concepire il rapporto con Dio lo si vede ancora oggi in coloro che vivono il senso del sacro con atteggiamenti esterni che indicano distanza. Questa è la religione che, trasportata poi sul piano esistenziale, fa vivere le persone male, perché quello che viene inteso come disobbedienza ai precetti, alle dottrine apprese, viene vissuto come senso di colpa, che genera malessere e il bisogno di rimediare. Non a caso, è stato proprio nel medioevo che si è sviluppato il sistema della confessione devozionale, per aiutare le persone religiose a stare in pace con i loro sensi di colpa. Gesù, invece, ci ha mostrato il volto paterno di Dio, che non vuole dei servi attorno a sé, ma dei figli. Mentre il servo vive da schiavo, il figlio vive in modo libero. Le persone religiose hanno il terrore della libertà, anche se ne avrebbero voglia, ma sono troppo legate nel reticolo di leggi e decreti in cui vivono il rapporto con Dio. La libertà è l’essenza dell’immagine di Dio che ci è stata donata ed è ciò che qualifica la nostra vita come umana.

Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare.

La novità di Gesù è che non chiede di essere servito, ma è Lui che si mette a servizio di noi. È ciò che succede nell’ultima cena quando si alza e si mette a servire i discepoli, lavando loro i piedi. Chi non accoglie il dono d’amore e risponde con un atteggiamento di libertà verso il Signore, rimane nella condizione di servo. Questo è il cammino che siamo chiamati a compiere. Un cammino difficile, perché dobbiamo liberarci dalla schiavitù delle dottrine e della religione dei precetti. Difficile, ma possibile. Gesù non impone, ma offre: spetta a noi compiere questo cammino di liberazione, che è allo stesso tempo un cammino di umanizzazione. 

giovedì 22 settembre 2022

UN GIORNO IL POVERO MORI E ANCHE IL RICCO MORI

 




XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C

Lc 16,19-31

 

Paolo Cugini

 

Chi ha accompagnato le liturgie di queste domeniche si sarà reso conto dell’insistenza di Gesù sul tema della ricchezza e del possesso dei beni. Proprio domenica scorsa Gesù aveva chiuso il Vangelo con un perentorio: o Dio o la ricchezza. C’è, dunque, una contrapposizione radicale che non permette ambiguità. Alcune risposte a questa esigenza evangelica le abbiamo già trovate, ma possiamo continuare a domandarci: perché la ricchezza costituisce un ostacolo così insormontabile per partecipare del Regno dei cieli?

 

C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.

Questi pochi versetti sono uno spaccato non solo della società del tempo di Gesù, ma anche della nostra. Una società divisa in due, tra i pochi che hanno molto e vivono nel lusso e i molti che non solo non hanno nulla, ma conducono una vita indegna, senza alcuna possibilità di realizzazione umana. C’è un mondo che mangia a crepapelle e tutto un altro che non ha come sfamarsi. C’è una disuguaglianza sociale che è stridente, che non riflette la volontà di Dio, ma è frutto dell’egoismo umano. C’è un secondo aspetto importante in questa descrizione ed è l’insensibilità dl ricco. La parabola che Gesù racconta vuole mettere in evidenza uno degli effetti nefasti della ricchezza umana: rende le persone insensibili nei confronti dei propri simili che soffrono, che sono in difficoltà. La ricchezza chiude il cuore dell’uomo e della donna che possiede beni, conduce ad un atteggiamento d’insofferenza nei confronti di chi si avvicina per chiedere aiuto. La ricchezza rende la persona che la possiede, disumana: è questo, uno dei dati che vuole condurci la parabola.

 Già a questo primo livello la narrazione presenta una novità, che potremmo definire teologica. Mentre del ricco non viene nominato il nome, del povero, invece, si. Come mai? Che cosa significa questa differenza? Gesù mostra che agli occhi del Padre le persone disumane e insensibili non hanno nome, vale a dire, non hanno un’identità precisa, non sono nulla. Il nome definisce una persona, ne rivela lo stile presenta, ma anche la direzione. Ebbene, la persona ricca, per il fatto che accetta questo cammino e si lasciai impoverire nella sua umanità, perde allo stesso tempo, la sua identità che si realizza nell’umanità, nell’attenzione ai propri simili, soprattutto nel momento del bisogno. Chi ha un po' di dimestichezza con i poveri, sa molto bene come si aiutino tra di loro, soprattutto nei momenti di necessità e di bisogno. Ebbene, il ricco, non avendo questo atteggiamento misericordioso nei confronti dei suoi simili più deboli, manifesta la distruzione che la ricchezza ha prodotto nella sua vita: è diventato disumano, nulla, il suo nome non risulta essere più presente nel libro della vita.

Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui.

C’è una relazione strettissima tra la vita di questo mondo e quella del mondo futuro. L’eternità della vita inizia su questa terra e non è un problema di merito, ma di accoglienza del dono. Il ricco che può comprarsi tutto, la vita eterna non può comprarsela. Il suo benessere individuale che ottiene con i beni accumulati e che esclude il bene dei suoi simili, non è reale, non produce un più di vita, una vita in abbondanza da condividere con tutti, ma è vita morta, chiusa in se stessa, che non ha futuro. La parabola dice che alla morte il ricco viene sepolto: punto e a capo. La vita del ricco, produce una vita che non potrà avere un futuro, perché è una negazione di quella dignità umana, che è intrinseca nell’immagine che Dio ha posto in ogni persona. Ebbene, l’uomo e la donna sono ad immagine di Dio, quando amano, condividono ciò che hanno, esattamente come ha fatto il Padre con noi, che ci ha creati per amore.

Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi.

Quell’abisso tra ricchi e poveri che si è instaurata sulla terra, rimane anche nella vita oltre la morte, però ribaltata. Vita e morte sono principi che si sviluppano durante la nostra esistenza e che portano i loro frutti anche dopo la morte, esattamente conforme alle nostre scelte. Gesù è un principio di vita eterna che il Padre ha immesso dentro la storia, così potente che è capace di trasformare qualsiasi situazione di morte in vita. Per questo ascoltiamo la sua parola che è come una semente di eternità come dice Pietro: siete stati rigenerati non da seme corruttibile, ma incorruttibile, cioè mediante la parola vivente e permanente di Dio (1 Pt, 1,23). La Parola che assimiliamo, lo Spirito Santo che riceviamo è capace di trasformare il nostro egoismo radicale, in donazione gratuita ai fratelli e alle sorelle.

Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti.

La possibilità che noi abbiamo di vivere una vita autentica, che rispecchi il progetto del Padre quando ci ha creati, conformi quindi a quella dignità che ci deriva dall’immagine di Dio che trasuda nella nostra coscienza, è data dall’assimilazione della parola di vita nuova. Può sembrare poca cosa, ma in quelle deboli parole, è racchiuso il mistero del mondo e, quindi, anche il nostro.

 

 

 

sabato 17 settembre 2022

Non potete servire Dio e la ricchezza

 



XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C

Lc 16,1-13

Paolo Cugini

 

La spiritualità che sgorga dalle pagine del Vangelo, non si ferma nell’interiorità dell’anima, ma trasforma tutta la realtà. Chi rinasce dall’alto e si lascia plasmare dallo Spirito del Signore, cambia il modo di porsi nel mondo, cambia la qualità delle relazioni e il modo di considerare la materia. La priorità della vita cristiana, che è Gesù, diventa il fulcro della vita al punto da non lasciare nulla inalterato. È il fermento nella massa, il piccolo seme di mostarda che si trasforma in un albero grandissimo. La vita cristiana è, dunque, un cammino di trasformazione, che coinvolge tutto. Non a caso, Paolo nelle sue lettere parla di ricapitolare in Cristo tutte le cose (Ef1, 10), compresa, dunque la materia. Questa introduzione sul significato della vita spirituale nella vita cristiana, dovrebbe aiutare a cogliere la profondità del messaggio di Gesù nel Vangelo di oggi.

Il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.

La parabola che Gesù racconta ha come tema il buon uso del denaro. Anche qui, per chi è abituato ad identificare la vista spirituale con le preghiere devozionali, può rimanere interdetto. Che cosa c’entra, infatti, l’uso del denaro con la spiritualità? Leggendo la parabola, il suo commento in parallelo ad altri testi del Nuovo Testamento, si può comprendere che, per Gesù, l’uso del denaro è un problema centrale nella vita del cristiano. Nel seguito delle sue parole, Gesù offre delle motivazioni e degli argomenti che ci aiutano a riflettere. L’amministratore è disonesto, ma è lodato dal padrone: come mai? Perché utilizza i beni del padrone con un inganno, per garantirsi qualcosa quando sarà senza lavoro, perché è stato licenziato.

Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne.

Chi sono gli amici che dobbiamo procurarci con la ricchezza disonesta? Sono chiaramente i poveri: lo specifica nel passaggio successivo. Saranno i poveri, infatti, ad accoglierci nelle dimore eterne. Questo dato è coerente con quello che troviamo alla fine del Vangelo di Matteo, in cui Gesù s’identifica con i poveri, gli affamati, gli assetati, gli stranieri, i carcerati. L’unico valore che Gesù dà alla ricchezza è quella che viene condivisa, mentre l’accumulo dei beni è condannato, perché accumulando, togliamo dal mercato dei beni, che potrebbero essere utili a coloro che non ne hanno. È chiaro che il discorso va spiegato ed attualizzato. Ricco non è il padre e la madre di famiglia, che mette da parte qualche soldo per i figli, per pagare le spese della scuola, dell’università, dei corsi che vuole far fare ai figli. Questo non è accumulo, ma paternità e maternità responsabile. Ricco, nella prospettiva che stiamo ascoltando in queste domeniche nel Vangelo, è colui che pur avendo molto, quello che raccoglie ancora, non lo distribuisce a chi non ne ha, ma lo tiene per sé, lo accumula, manifestando una visione meschina della vita.

Altra domanda: perché Gesù parla di ricchezza disonesta, senza motivare l’affermazione? Anzi, leggendo il testo, ogni forma di ricchezza, nell’ottica del vangelo, è disonesta: come mai? La ricchezza è disonesta perché è sempre frutto di un’ingiustizia, di un’appropriazione indebita. Se ci sono dei poveri è perché c’è qualcuno che si appropria di ciò che non è suo. Per questo, se qualcuno ha di più e ce l’ha come frutto del proprio ingegno, del proprio lavoro, è chiamato a distribuirlo con chi non ha nulla, con i poveri. Sono loro che ci accoglieranno nel regno dei cieli e, di conseguenza, durante la vita è bene imparare a trattarli bene, a farci conoscere da loro.

Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

Gesù pone la ricchezza come antagonista a Dio, come un idolo. I ricchi, in questa prospettiva, sono degli idolatri, perché hanno fato dell’accumulo del denaro un loro dio. Servire il Dio che si è manifestato in Gesù Cristo, significa distribuire le ricchezze con i poveri. Quando i ricchi non distribuiscono le loro ricchezze significa che sono diventati schiavi del denaro e, in questo modo, si sono allontanati da Dio. La spiritualità che il Vangelo propone. deve arrivare ad incidere il modo in cui utilizziamo i soldi. Il nostro pensiero dev'essere sempre per coloro che vivono con poco, che hanno fame, sete, che sono stranieri: Gesù è in loro.

giovedì 8 settembre 2022

OGNI VOLTA CHE MANGIATE... ANNUNCIATE

 



ESERCIZI SPIRITUALI GALEAZZA 2022

 

LA DIMENSIONE MISSIONARIA DELL'EUCARESTIA


Paolo Cugini

Riprendiamo il discorso da dove l’abbiamo lasciato: l’eucarestia genera la missione. Se, infatti, ci cibiamo del Signore per lasciarci trasformare da Lui, affinché in noi si formano i tratti della sua umanità, del suo stile di vita, del suo inconfondibile modo di stare al mondo, allora c’è un tratto che lo contraddistingue, che dice di Lui, ed è il suo essere sulla strada in mezzo alla gente. Nella sua vita pubblica Gesù esce dalla sinagoga e si mete sulla strada che da Nazareth porta a Gerusalemme, ed è proprio sulla strada che annuncia il regno di Dio. In un percorso di spiritualità evangelica, com’è quello che stiamo compiendo, comprendere questo atteggiamento di Gesù è fondamentale. Diceva Vladimir Losskij, il grande teologo Russo morto prematuramente a cinquantacinque anni che, mentre lo specifico della spiritualità ortodossa consiste nel contemplare il mistero, al contrario, la spiritualità cattolica conduce i fedeli ad imitarlo[1], Non a caso, uno dei saggi fondamentali della spiritualità cattolica è il famoso libro: l’imitazione di Cristo[2]. Ancora una volta: Gesù ha annunciato il mistero del Regno di Dio, non dalla cattedra di una scuola, ma nemmeno solamente dal pulpito di una sinagoga, ma soprattutto camminando sulla strada o lungo il mare di Galilea, entrando nelle case della gente. Prima di procede e proporre considerazioni su questo aspetto della vita di Gesù che, probabilmente è uno dei meno compresi e più disattesi dai suoi seguaci, è bene riportare qualche episodio, per non correre il rischio di elaborare una mistica che indica una spiritualità non aderente al Vangelo, ma ad idee personali, senza alcun riferimento al testo sacro.

Gli spazi di Gesù

L’evangelista Luca organizza il materiale che ha a disposizione sui detti e fatti di Gesù in un viaggio che lui compie dalla Galilea alla Giudea, passando per la Samaria: da Nazareth a Gerusalemme. In questo cammino entra nelle sinagoghe (4,44), passa nel lago di Gennèsaret (5,1), in una città (5,12), nella città di Naim(7,11), nella città di Gerico (19,1), nei villaggi della Giudea e della Galilea (5,17), nella casa di Levi (5,29s), di Simone (7,36), di un o dei capi dei farisei (14, 1s), in un campo di grano (6,1), su un monte a pregare (6,11), sale su una barca (8,29), va in un luogo solitari a pregare (9,18), entra in un villaggio di Samaritani (9,52), entra in un villaggio (10,38), insegna in città e villaggi (13,22), in cammino verso Gerusalemme (17, 11), mentre cammina per la strada si raduna attorno al Signore una grande folla (11,29; 12,1s; 12,54; 15,1s; ), entra nel tempio di Gerusalemme (19,45). C’è un movimento che caratterizza l’azione di Gesù, che lo conduce costantemente dove vive la gente, sulla strada, nelle piazze, nelle case, nei luoghi di lavoro come la pesca, nei villaggi e nelle città. Gesù pieno dell’amore del Padre, non trattiene questo dono immenso, ma lo riversa nel mondo, in un movimento continuo di uscita. Non lo chiude in una sinagoga, o nel tempio, ma lo porta a tutte le donne e a tutti gli uomini che incontra nel cammino. La vita pubblica di Gesù è un movimento alla ricerca dell’uomo e della donna, li cerca negli spazi esistenziali, in qualsiasi luogo in cui è possibile incontrare un uomo o una donna in grado da ascoltare il suo annuncio. Ciò significa che nessun luogo è precluso per annunciare il Vangelo e, allo stesso tempo, non esiste un luogo specifico, esclusivo per l’annuncio del Vangelo. Viene da chiedersi: che ne è stato di questo insegnamento? Perché ci siamo chiusi nelle chiese? Come mai facciamo così fatica ad uscire? Bisogna dire con sincerità che di uscire non ci pensiamo nemmeno. Abbiamo così tanto imparato a costruire spazi specifici per l’annuncio e per la catechesi, che non ci passa minimamente per la testa di imitare Gesù. Quando Papa Francesco nel suo primo documento Evangeli Gaudium ha parlato della chiesa in uscita, invitando le comunità cristiane a smettere di riprodurre il passato, per imparare ad essere creativi, a prendere l’iniziativa e ad uscire dalle nostre sicurezze, la reazione è stata di stupore, ha trovato le comunità impreparate. Eppure il Vangelo nasce proprio così sulla strada. Non solo, ma in ogni eucarestia che celebriamo, il corpo di Cristo che mangiamo per sua natura dovrebbe diventare annuncio.

La motivazione

Che cos’è che spinge Gesù in questo movimento costante verso la gente? Perché Gesù non si ferma, non aspetta nella sinagoga, ma si mette in cammino con gli uomini e le donne alla loro ricerca? Senza dubbio la motivazione. Gesù aveva nel cuore qualcosa di grande che gli premeva, che considerava di grande importanza, che non poteva trattenere per sé. Probabilmente il contenuto di questo messaggio lo aveva colto nei lunghi anni di silenzio che hanno caratterizzato la sua adolescenza e la sua gioventù.  Quando penso al giovane Gesù, me lo immagino attento osservatore della realtà circostante, giovane che riflette attentamente su ciò che vede, che ascolta. Probabilmente ha condiviso queste sue riflessioni e intuizioni con sua madre, Maria, anche lei donna che abita e vive il silenzio, come ideale situazione interiore per fare in modo che le idee maturino e crescano sane. Il giovane Gesù che osserva quelle realtà che gli interessano maggiormente, come il comportamento degli uomini religiosi, i sacerdoti, i loro movimenti, le loro prescrizioni. Immagino la sofferenza interiore di Gesù nello scoprire la sofferenza e le umiliazioni che gli uomini del tempio infliggevano ai poveri, alle persone che si avvicinavano ai luoghi sacri scrupolosamente riservati a loro. Immagino le domande che brulicavano la mente svegli del Signore che si chiedeva se era proprio questa umiliazione dei poveri da parte dei sacerdoti che il Padre pretendeva. Oppure, si trattava esclusivamente di richieste umane^? Quante volte dev’essere andato da sua Madre con un carico di domande e di riflessioni da lasciare il cuore della madre impressionata e, senza dubbio preoccupata, perché la madre intuiva dove avrebbero portato il suo caro figlio tutto questo carico di dubbi, perplessità sulla legge degli uomini. E poi c’era tutto quel sangue, quegli animali uccisi: ma era proprio questo che il Padre voleva? Non era strano? Non contraddiceva il messaggio pieno di misericordia e di pace annunciato dai grandi profeti?  Si è trattato, dunque di un lungo processo silenzioso, che ha condotto Gesù a sentire il desiderio impellente di dirigersi verso il popolo d’Israele per rivelare loro un messaggio fondamentale, un messaggio che non poteva solo portare con le parole, ma anche con gesti e con la sua stessa vita. Che cos’era, allora, questo grande annuncio che ha condotto Gesù per le strade della Palestina, in un continuo movimento di uscita?

Gesù, il liberatore dalla falsa religione

Gesù desiderava liberare gli uomini e le donne dalla falsa religione inventata dagli uomini. È questo un aspetto centrale del Vangelo, della buona novella, che spesso passa in sordina e che, per certi aspetti, suscita ancora scandalo. Gesù, il Figlio di Dio, l’inviato del Padre, ci è venuti avvisare che l’elemento più nocivo che inquina il rapporto con il Padre è proprio la religione, quel tipo di religione strutturata dagli uomini del tempio che, invece di avvicinare le persone a Dio, le allontana; invece di liberare le persone, le lega, le intrappola. Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». E diceva loro: «Siete veramente abili nel rifiutare il comandamento di Dio per osservare la vostra tradizione (Mc 7, 8-9). È questa la grande accusa di Gesù agli uomini religiosi del tempo; allo stesso tempo, è questa verità rivelante che Gesù desiderava comunicare a tutti gli uomini e le donne della Palestina. È come se Gesù volesse allertare di stare lontano dalla religione del Tempio, di stare alla larga dagli uomini della religione, perché sono persone negative, nel senso che sono persone schiave dei precetti al punto da voler imprigionare nel reticolo dei comandamenti e della tradizione degli uomini tutto il popolo di Israele. È proprio questo che Gesù constata e che, allo stesso tempo, provoca la sua urgenza del messaggio del Regno: un popolo schiavizzato dalla religione. Paradossalmente, la religione invece di essere cammino verso Dio, con il tempo è divenuta cammino verso il male. C’è stata, per così dire, un travisamento, una modificazione che, lentamente si è trasformata in un grande inganno. Gli uomini del Tempio hanno inventato una serie di leggi che sembrano fatte apposta per disobbedire ai comandi di Dio, per attutitine la sua forza. Detta così capisco che suona male, che sembra un ragionamento assurdo, ma esprime ciò che Gesù ha voluto dire nei versetti citati poco sopra. Gesù, comunque, su questo delicato punto, propone anche alcuni esempi che cercano di dimostrare in che modo i comandamenti inventati dagli uomini e spacciato come Parola di Dio sono, in realtà, nella direzione opposta di quel Dio che si vuole servire.

Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre, e: Chi maledice il padre o la madre sia messo a morte. Voi invece dite: “Se uno dichiara al padre o alla madre: Ciò con cui dovrei aiutarti è korbàn, cioè offerta a Dio”, non gli consentite di fare più nulla per il padre o la madre. Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte (Mc 7, 10-13).

Mosè disse… Voi invece dite: è questo l’inganno! Ci sono tutta una serie di leggi che gli uomini del Tempio, i sacerdoti addetti al culto, assieme alla classe religiosa che comprende scribi, farisei, sadducei che nel tempo hanno operato un’operazione veramente subdola e meschina: hanno sostituito la Parola di Dio con le loro tradizioni, per render tutto il popolo a loro sottomesso. Per questo Gesù non si da pace (è un modo di dire), ha fretta di spiegare a tutto il popolo d’Israele il grande inganno, la grande e colossale impostura. L’azione evangelizzatrice di Gesù è dunque, in questa prospettiva, un’azione di smascheramento e, allo stesso tempo di liberazione. In quanto smaschera gli uomini del tempio e mostra i loro sotterfugi, libera il popolo da quelle tradizioni inventate dagli uomini che, invece di avvicinarli a Dio, non hanno fatto altro che allontanarlo da Lui. L’urgenza della missione di Gesù la si comprende osservando questa duplice operazione di smascheramento e di liberazione. È liberando l’umanità dalla falsa religione degli uomini che è possibile accogliere come dono la fede nella Parola di Gesù.

Annunciamo l’amore del Signore

Ogni volta che mangiamo il corpo del Signore noi annunciamo la sua morte, perché l’eucaristia è anzitutto profezia, anticipazione che il maestro offre per i suoi discepoli, dei tragici eventi che stanno per realizzarsi, come compimento di una vita di amore. Annunciare la morte del Signore non significa annunciare il sacrificio, come una certa teologia ha voluto interpretare il mistero della morte di Gesù, ma annunciamo il suo amore, la sua scelta di amare i suoi sino alla fine (Gv 13,1s). Mangiamo, assimiliamo, ruminiamo, lo stile di colui che non si è tirato indietro, che non ha aspettato un ritorno, di essere contraccambiato. No, niente di quell’amore mondano che cerca il contraccambio, segno di povertà affettiva, bisogno ossessivo di affermarsi sull’altro: Gesù ha amato e basta. È questo amore infinito, vero, autentico, che noi assimiliamo ogni volta che ci accostiamo all’altare. Amore di Gesù che diventa punto di riferimento di ogni amore, fonte a cui abbeverarci continuamente, perché l’amore del Signore è eterno.  È un amore eterno per il fatto che non si è arrestato, non ha cercato dei sotterfugi, non ha dato ascolto a timori umani, ma l’ha portato alle estreme conseguenze. La croce non è il simbolo di una sconfitta umana, il simbolo di un annichilamento, ma di un passaggio ad una vita autentica per tutti coloro che la accolgono. Gesù sulla croce ci consegna il suo corpo che ha amato sino alla fine. È di questo che ci cibiamo nell’eucarestia, ed è proprio di questo corpo che ha amato in modo incredibile che diventiamo testimoni, amando come Lui ci ha amato. Solamente persone libere dalla falsa religione, che è la religione fatta di precetti e di decreti, è in grado di fare spazio all’amore del Signore donato sulla croce per vivere di Lui e come Lui.

 



[1] LOSSKIJ, V. La teologia mistica della chiesa di oriente. La vision e di Dio. Bologna: EDB, 2013.

[2] KEMPIS, T. L’imitazione di Cristo. Cinisello Balsamo: San Paolo EDIZIONI, 2015.

martedì 6 settembre 2022

IN CERCA DI QUELLA PERDUTA

 



XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO/C

Lc 15,1-10

 

Paolo Cugini

 

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano.

Per comprendere la proposta di Gesù, la novità del suo pensiero, il vino nuovo che è venuto a portare, è fondamentale il tipo di atteggiamento che si ha nei suoi confronti. Il Vangelo di oggi apre proprio sottolineando questo aspetto, ci mette infatti dianzi a due modi diversi, anzi opposti, di relazionarsi con Lui. Da una parte, i peccatori che si avvicinano a Gesù per ascoltarlo; dall’altra i farisei, che non gli lasciano nemmeno aprire la bocca e, infatti, mormorano. I farisei sono il simbolo negativo di porsi dianzi a Gesù, perché sono così pieni della loro religione, che non hanno nulla da imparare, nemmeno da Dio. Al contrario, i peccatori sono aperti alla comprensione di una parola che li possa aiutare ad uscire dai cammini negativi nei quali si sono infilati. Detta così, può sembrare un incentivo al peccato, perché sembra essere la situazione ideale per fare spazio al Signore. In realtà, la verità delle cose è che davanti al Signore tutti siamo peccatori e, i farisei, che si sentono a posto, sono in una situazione di peccato peggiore degli altri. Infatti, in loro Gesù non trova spazio, perché sono gonfi nel loro orgoglio, pieni di se stessi, sicuri della loro religione. Avere la percezione della propria debolezza, stimola la ricerca personale di un aiuto, di qualcuno che possa offrire la soluzione al problema. 

«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?

Come si manifesta la novità che il Signore è venuto a portare? Con delle sproporzioni spaventose; con delle relazioni impreviste e impensabili: la proporzione da uno a cento. Chi è abituato alla moderazione, al calcolo controllato, dianzi ai numeri di Gesù, alle proporzioni che Lui descrive, rimane sbigottito: è impossibile tenergli dietro se non si ha il cuore aperto, disponibile all’ascolto, alla voglia di capire, al desiderio di vivere una vita nuova, autentica. Soprattutto, però, per accompagnare la proposta di Gesù occorre svuotarsi dalla propria religione, dalle proprie sicurezze religiose per permettere a Gesù, il Salvatore del mondo di entrare nella nostra anima e farci male. Perché non può essere altrimenti, le proporzioni sono troppo assurde, impreviste, incalcolabili. È impossibile che esista qualcuno sulla terra preparato per accogliere una novità come quella appena pronunciata dalla parabola. Non è possibile diventare discepoli del Signore se non si è disposti a mettersi in discussione, a lasciarsi rovesciare come dei calzini. Tutto l’accento della presenza di Gesù in mezzo a noi è per coloro che si sono perduti, che non ce la fanno a trovare la strada e sono sempre per terra. Questo è sconvolgente e lascia tutti perplessi, tutti coloro che sono abituati a meritarsi i favori di Dio, facendosi in quattro per piacergli con sacrifici, offerte, fioretti. Gesù, invece ci dice che il Padre non guarda queste cose, perché nessuno può meritarsi la salvezza, ma la può solo accogliere. 

Il Figlio è alla ricerca continua della pecorella smarrita e, per questo non ha paura di rischiare le altre 99 pur di ritrovare quella perduta. Sono questi dati che impressionano, questa misericordia infinita che fa male a chi calcola la propria salvezza, questo rapporto tra le 99 pecore lasciate nell’ovile e quella ricerca per quell’unica che si è perduta. Proprio il contrario di noi, mi viene da dire, il contrario di noi pastori di un gregge che pettiniamo tutta la vita e che, anche se ci accorgiamo che manca qualche pecorella, rimaniamo nell’ovile a continuare a lisciare, a pettinare quelle che rimangono, facendo finta di nulla, oppure affermando che è tutta colpa loro se sono uscite e si sono perse. Il ragionamento non fa una grinza, senza dubbio ha una sua logica, la logica di tutti, ma non quella del pastore che è Gesù, che vive su un altro piano, sul piano del Padre, che non ci pensa neanche a lasciare le 99 per cercare quell’unica pecorella smarrita, la più strana, la più testarda, che se l’è cercata. Ma il Padre non ragiona con la logica, non fa della filosofia, ma ragiona con il cuore e non bada a spese, si spende tutto per quell’unica pecorella che si è persa, la più cattiva, potremmo dire, la più scarsa, quella che dice di una minoranza infinita. 

C'è in questa parabola, l'idea di un Dio che è Padre e che non vuole che nessuno si perda. Gesù ha espresso questa idea sia con le parole che con i fatti. Con le parole lo ha dichiarato nella così detta preghiera sacerdotale (Gv 17). Lo ha dimostrato con i fatti vivendo in mezzo a peccatori, cercando coloro che si sentivano perduti. Se trasportiamo questa parabola sul piano ecclesiale l'insegnamento che riceviamo è quello di smettere di curarci esclusivamente di coloro che sono sempre tra le mura della chiesa e di iniziare a preoccuparci di coloro che non vengono più. Una pastorale in uscita segno di una chiesa preoccupata di coloro che non conoscono la proposta di Gesù o l'hanno rifiutata. E' di questo che dovremmo parlare nei consigli pastorali. E' una chiesa in uscita che si pone nella situazioni di esclusione, che diviene segno del buon pastore. 

Accogliere la novità del Vangelo significa anche noi mettersi alla ricerca di chi è perduto, vincendo i nostri pregiudizi e provare a seguire il cuore più che la testa, perché sappiamo che quando ascoltiamo il cuore il cervello funziona molto meglio e l’anima si riempie di gioia. Infatti, è Gesù che conclude la parabola dicendo: vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte.

Che bello è sapere che abbiamo un Dio così! Un Dio che non ci calcola per le volte che abbiamo rispettato la dottrina, ma che non esita a venirci a cercare. Quando tutti ci davano per spacciati; quando anche gli amici, i parenti ormai ci davano per persi, Lui no, il pastore buono, il Signore molla tutto per venirci a stanare, e non si dà pace sino a quando non ci trova. E poi che cosa fa? Ci carica sulle spalle, ci accarezza con tenerezza, ci avvolge con il suo amore. 

domenica 4 settembre 2022

L'ABBIAMO RICONOSCIUTO

 




ESERCIZI SPIRITUALI - GALEAZZA 2022

Domenica 4 settembre, ore 9


 L’abbiamo riconosciuto mentre spezzava il pane

 C’è un testo che in questo cammino di riflessione biblica sull’eucarestia non possiamo lasciare fuori: Lc 24. È il brano che narra il cammino di due discepoli che da Gerusalemme si dirigono verso Emmaus. È un cammino significativo, perché dalla tristezza si passa alla gioia. Com’è possibile, ci possiamo chiedere, passare da una vita religiosa triste, ad un cammino di fede pieno di gioia? Passare da una vita di fede passiva, indifferente, ad un cammino che ci lascia positivi, pieno di forza e di voglia di fare?

Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Chi sono questi due discepoli? Uno di loro, ci dirà il testo più avanti, si chiama Clèopa mentre dell’altro non ci viene detto nulla. In ogni modo questi due discepoli trasmettono ciò che il gruppo dei discepoli ha vissuto in quelle ore tragiche che hanno segnato la passione e la morte del maestro. Il viaggio che loro compiono è nel giorno di domenica e l’annuncio della sua resurrezione era già stato dato da part di alcune donne, discepole del Signore. Ma tra chi non l’aveva ancora visto resta la confusione, l’incredulità. La morte di Gesù ha segnato la fine delle illusioni di una liberazione politica da parte del messia atteso. La morte di Gesù in croce segna la fine di quell’erronea identificazione di Gesù con il messia liberatore politico, il messia che avrebbe organizzato un esercito per distruggere i romani. Era questa la speranza che una parte del popolo d’Israele coltivava da secoli e l’azione di Gesù era stata interpretata in questo modo. Eppure Gesù durante la sua vita pubblica, sia nei suoi gesti che nelle sue parole aveva manifestato chiaramente il suo approccio non violento alla realtà. Gesù più che il messia guerriero incarna il messaggero di pace, l’avvento di un mondo non violento, un mondo di pace e di giustizia. In ogni modo, chi coltiva nel cuore aspettative, sono proprio queste a leggere la realtà, che rimane inascoltata e disattesa. Forse è proprio questo uno dei motivi per cui i due discepoli non riconoscono Gesù in quell’uomo che si affianca a loro nel cammino pieno di tristezza e di confusione. Il problema della fede diventa allora, un problema di riconoscimento della presenza di Gesù che cammina con noi e non lo vediamo. Come fare per riconoscerlo? Perché non riusciamo a vederlo?

Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno… C’è un cammino con la faccia triste, che spesso caratterizza anche il cammino della nostra vita, pine di tante cose svuotata di senso. I discepoli non riconoscono Gesù che si avvicina a loro perché sono troppo pieni della loro amarezza: non c’è posto per la novità. Gesù lo riconosciamo quando trova spazio nella nostra esistenza. Uno degli effetti benefici della vita spirituale è lo svuotamento interiore, che è richiesto dall’ascolto attento dalla Parola di Dio. È difficile capire la Parola quando abbiamo il cuore pieno di parole. C’è troppa amarezza, delusione, sentimento di fallimento nell’animo di quei due discepoli per fare spazio alla novità che si manifesta in Gesù risorto. Sono ancora troppo intenti a rimuginare i loro sogni di gloria, le loro proiezioni sbagliate sul personaggio di Gesù che hanno visto con i loro occhi appeso ad una croce. La croce, in questa prospettiva, è il simbolo della morte di tutte le idee sbagliate su Dio, di tutte le fantasie su Gesù. Interessante è che i due discepoli quando vedono quest’uomo accostarsi a loro, non gli chiedono nemmeno il nome, ma gli rovesciano addosso tutta la loro delusione sugli eventi che hanno caratterizzato la vita di quel Gesù che è lì accanto a loro. C’è un Gesù che è accanto a noi, ma non lo riconosciamo perché siamo troppo pieni di noi stessi, troppo concentrati sulle nostre fantasie, le nostre illusioni al punto che non c’è spazio per la realtà. Totalmente diverso è l’atteggiamento di Gesù che si mette al fianco di questi due discepoli totalmente disponibile ad ascoltarli, potremmo ire, totalmente svuotato di se stesso per fare spazio a loro. È questo un aspetto dell’amore, che non ricopre l’amato, l’amata del proprio ego, ma gli fa spazio affinché si manifesti, gli fa spazio affinché viva. Le domande che Gesù rivolge ai due discepoli sono tutte nella stessa direzione: farsi consegnare il problema, permettere loro di svuotare il sacco, permettere loro di condividere la narrazione, il problema che li rende così tristi. Quello che i discepoli raccontano a Gesù è una narrazione minuziosa e dettagliata degli eventi che hanno caratterizzato gli ultimi momenti della vita di Gesù, compreso il misterioso annuncio della resurrezione portato da quelle donne andata al sepolcro, che hanno trovato la tomba vuota e lo hanno incontrato risuscitato. Potemmo dire, allora, che i discepoli conoscono molto bene il Vangelo, ma per loro è una parola che non sta dicendo nulla. Attualizzando potremmo dire: c’è una conoscenza della Parola che non produce nessun cammino di fede, perché non scalda il cuore e non lo scalda perché quelle parole conosciute sono una semplice lettera morta in un cuore pieno di se stesso.

«Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. Per fare in modo che la Parola diventi significativa nella nostra vita occorre qualcuno che ce la spieghi, ce la interpreti. Troviamo questo stesso processo d’interpretazione della Parola nel capitolo 8 degli Atti degli Apostoli. Un funzionario della regina di Etiopia stava ritornando dal viaggio su un carro e leggeva un brano di Isaia. Lo Spirito Santo guida Filippo accanto a questo personaggio e gli chiede: “Capisci quello che leggi” (Atti 8, 30). Questa domanda assomiglia molto a quella che Gesù rivolge ai due discepoli diretti a Emmaus. Filippo spiega all’eunuco etiope il senso di quel brano di Isaia che sta leggendo senza capire, parlandogli di Gesù. Dopo la spiegazione il funzionario etiope chiede il battesimo. La Parola di Dio dice qualcosa alla vita degli uomini e delle donne se c’è qualcuno che la interpreta, se c’è Gesù o un suo discepolo che gliela spiega. È Gesù, infatti, la chiave d’interpretazione della Scrittura, perché tutto parla di Lui.

Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando Gesù passa nella nostra vita, se trova accoglienza, se trova il desiderio della sua Parola, rimane con noi. Nel cuore dei due discepoli lungo il cammino al fianco di Gesù è successo qualcosa. Lo diranno più avanti che mentre Gesù spiegava la Scrittura il loro cuore ardeva, perché aveva trovato spazio, interesse e quello che Gesù spiegava. Non è un dato scontato che la parola di Gesù trovi spazio nel cuore di chi ascolta. Infatti, quante volte i farisei hanno ascoltato la Parola di Gesù e non l’hanno mai accolta, ma disprezzata. Anche il giovane ricco, dinanzi alle richieste esigenti della proposta di Gesù se n’è andato via triste. Questi due discepoli no, al contrario, insistono affinché Gesù rimanere con loro: la sua Parola ha fatto breccia nei loro cuori. Per questo quando Gesù spezza il pane lo riconoscono: era già dentro!

Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. È il vangelo spiegato dal Signore e accolto nel cuore che ci permette di riconoscerlo. A quel punto non abbiamo più bisogno della sua presenza fisica, perché è già entrato nel nostro cuore, ha trovato spazio nella nostra anima, ha fatto svanire le nostre illusioni e ha riempito la nostra vita con la sua realtà. La domanda allora, a questo punto del discorso, non può essere che questa: chi ci può spiegare la Scrittura affinché possiamo riconoscere il Signore nell’eucarestia, nel gesto dello spezzare il pane? La risposta a questa domanda non può essere univoca, ma presenta varie sfaccettature, In primo luogo, Cristo che spiega la parola ai fedeli che la desiderano conoscere è presenta nella Chiesa, nel suo magistero, nei suoi documenti. Lì troviamo un alimento sicuro. A volte però, questi testi ci sembrano un po' difficili e con un linguaggio molto lontano dalla nostra realtà. Per questo il secondo livello della presenza del Signore nella storia che ci aiuta a comprendere la sua Parola è nella comunità. Uno dei compiti principali, se non il principale, di una comunità parrocchiale è proprio questo: aiutare i fedeli a comprendere la Parola di Dio. Questo dato ne esige un altro, vale a dire, riproporre nel nostro vissuto di comunità l’atteggiamento di Gesù, che non ha aspettato i discepoli in chiesa nella sinagoga, ma li è andati a scovare, si è messo sulla strada e ha camminato con loro, ascoltandoli con pazienza. Qui bisogna stare attenti a non identificare l’azione di Gesù con quella del prete: è la comunità dei credenti che è chiamata a mettersi in cammino sulle strade, per mettersi al passo con le persone incontrate e ascoltarle. Per fare questo nella comunità ci dovrebbero essere persone che non solo conoscono la Parola, ma sono innamorate del Signore, perché lo hanno incontrato e lo riconoscono. Solo così, sono in grado di affiancare le persone incontrate sul cammino per mettersi al loro passo ed ascoltarle per poterle aiutare a comprendere la presenza del Signore, ad annunciare loro il Vangelo. C’è un ulteriore livello della presenza del Signore che si manifesta nel cammino della nostra vita e ci spiega la Parola senza troppi giri di parole: i poveri. C’è una presenza misteriosa, potremmo dire sacramentale, di Gesù nei poveri che si rivela in alcune circostanze della vita. Che Gesù sia presente nei poveri, negli stranieri, negli esclusi della società, è Lui stesso a dirlo: “ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi" (Mt 25, 35-36). L’incontro con i poveri provoca quel cammino di spogliazione e di svuotamento di sé che è quello che Gesù ha provocato nei due discepoli diretti a Emmaus. Gesù diventa significativo nella nostra vita solamente se trova spazio, se lo lasciamo penetrare dentro di noi. Frequentare i poveri è frequentare il Signore; mettersi in cammino con i poveri che incontriamo nella vita – e possiamo stare sicuri che ci vengono a cercare-, dedicare loro il nostro tempo prezioso può avere un effetto benefico più per noi che per loro.

«Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

La verità del nostro incontro con Gesù e che davvero ha trovato spazio in noi è che non possiamo più tacere: diventiamo suoi annunciatori. A questo punto il cerchio si chiude. Il Vangelo spiegato dal Signore ci svela il senso dell’eucarestia, che ci proietta immediatamente fuori, per metterci in cammino con le persone che incontriamo per aiutarle a fare spazio al Signore nelle loro vite. L’eucarestia genera la missione, l’annuncio.

 

sabato 3 settembre 2022

MANGIATENE TUTTI

 



ESERCIZI SPIRITUALI - GALEAZZA 2022


Sabato 3 settembre, ore 15


1. Prendete e mangiatene tutti. Nessuno è escluso

Nel percorso che stiamo realizzando che ci ha condotto ad approfondire nel limite del possibile, alcune parole che troviamo tra quelle pronunciate da Gesù nell’ultima cena, con l’obiettivo di vivere sempre meglio nella vita ciò che celebriamo nella liturgia, c’è anche l’espressione: tutti. Che cosa ha voluto dire Gesù quando ha utilizzato questa espressione? Che cosa aveva in mente? Prima di approfondire dal punto di vista biblico il tema, vorrei condividere quell’esperienza che mmi ha aperto gli occhi della fede su questa frase e, allo stesso tempo, a intraprendere un cammino di approfondimento e di conversione.

Ho cominciato a riflettere sulla forza impressionante di queste parole nel periodo in cui ho iniziato ad accompagnare i cristiani LGBTQ+. Era il 2017. Il contatto con questa umanità maltrattata non solo dal mondo, ma purtroppo, anche dalla Chiesa, ha provocato in me tantissime domande. Come ministro della chiesa ero obbligato a rifiutare l’assoluzione a persone omosessuali che dicevano di amare un partner dello stesso sesso. La Chiesa, come sappiamo, nei suoi documenti ufficiali sul tema omosessualità[1], che comunque non hanno ancora una valenza dogmatica, indica il celibato a persone che manifestano tendenze sessuali. Alla luce di questo percorso, ho riflettuto anche sul senso di queste parole. Ho trascorso undici anni in seminario per discernere il dono del celibato, per lo meno questo è uno dei significati che venivano attribuiti al percorso vocazionale. Celibato, dunque, come vocazione, come un dono liberamente accolto. Per le persone omosessuali, invece, si tratta non di un dono da accogliere liberamente, ma di un’imposizione dell’istituzione nei loro confronti. Più che un dono liberamente scelto, sembra essere un vero e proprio castigo inflitto per essere nati diversi dalla maggioranza e, quindi, esclusi dalla mensa eucaristica. La stessa idea di esclusione dal banchetto eucaristico la vivono ancora oggi le persone separate, i divorziati, coloro che convivono perché, secondo gli insegnamenti della Chiesa, vivono nella condizione di peccato grave. Il contatto con questi mondi di persone escluse dalla mensa, hanno provocato in me una rilettura spirituale ed esistenziale dei testi biblici e delle scelte della chiesa. Percepisco sempre di più con l’andare degli anni di vita ministeriale, una distanza tra la cattedra dalla quale vengono scritti ed emanati i documenti ufficiali della Chiesa, e la vita quotidiana, fatta di slanci pieni di speranza e di cadute, che a volte rischiano di schiacciare la persona che le vive. La lettura di alcuni documenti della Chiesa genera, a volte, sconforto, perché sembrano scritti da un altro pianeta, da un altro contesto che non tiene conto della vita reale, Per quanto mi riguarda, è stato proprio l’ascolto della realtà, del vissuto di alcune persone che mi hanno permesso d’iniziare un percorso di smantellamento delle teorie ecclesiali sulla vita e coglierne la lontananza dal Vangelo. Ascolto della realtà che permette di iniziare un percorso di decostruzione di mentalità che con il tempo vengono plasmate quasi a proteggersi dalla durezza della vita, per paura di farsi male. È proprio come dice Papa Francesco nell’Evangeli Gaudium, quando afferma che la realtà precede l’idea, l’ascolto della vita così come si manifesta, che non è mai lineare, anche perché tiene conto di tante variabili, impossibili da programmare, variabili che a volte vengono dal contesto e, altre volte, dalla coscienza della persona. C’è una vita che sgorga in abbondanza e sgorga non come la pianifichiamo noi, ma nei modi più impensati, perché passa attraverso situazioni impensate che, spesso, generano timore, spavento. Forse questa varietà, che arreca novità impreviste è uno degli aspetti più belli ed emozionanti dell’esistenza, che non può essere programmata in antecedenza, per fortuna! Imparare ad ascoltare nel presente della vita la realtà nella molteplicità di come si manifesta, permette di bloccare la tentazione di anticiparla con le nostre idee, i nostri sistemi preconfezionati che, se da un lato generano sicurezza, dall’altro non ci permettono di gustare la bellezza e la forza della vita. Forse è questo un o degli insegnamenti più veri e profondi di Gesù. Accogliendo le persone nella loro realtà presente, le ha spesso salvate dalla morte causata non da malattie, ma dalle idee religiose spacciate per parola di Dio, quando invece si trattava di tradizioni umane (cfr. Mc 7, 8s). è in questa prospettiva che è possibile leggere il brano di Gv 8,1-11, l’incontro di Gesù con la donna adultera, condannata a morte dagli uomini del tempio. Gesù non risponde alle provocazioni immediate, ma sta in silenzio e scrive per terra: ascolta l’evento. In seguito, con l’affermazione: chi è senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei, Gesù permette ad ogni persona presente di guardarsi dentro, di compiere un cammino all’interno della propria coscienza, e scoprire che la propria condizione esistenziale personale era la stessa di quella donna adultera era la stessa di ognuno di loro. E se ne andarono uno per uno. L’ascolto della realtà è uno dei doni più grandi della vita spirituale, perché ci permette di smascherare le falese dottrine, di decostruire le idee strutturate dalla cultura dei forti, di chi detiene il potere contro i piccoli e gli ultimi.

 E così, mentre celebravo l’eucarestia, la mia mente ha cominciato a soffermarsi, come mai in precedenza, sulle parole della preghiera eucaristica, quando propone le parole che Gesù ha pronunciato nel conteso dell’ultima cena. Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi. Prendete, e bevetene tutti: questo è il calice del mio Sangue, per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me. Sono queste le parole che noi preti ripetiamo in ogni messa. Mai come in quel periodo ha rimbombato dentro di me la parola: tutti. Ho, così, iniziato a pensare alle situazioni in cui Gesù si è trovato, soprattutto, in quelle circostanze in cui era sollecitato dagli ascoltatori a giudicare negativamente, a rifiutare qualcuno.

 Gesù ha incarnato nelle sue scelte e nel suo modo di fare le profezie dei grandi profeti dell’Antico Testamento, che annunciavano il desiderio di Dio di accogliere tutti, di salvare tutti. Il libro del profeta Isaia, per esempio, si chiude con queste parole: “Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue, essi verranno e vedranno la mia gloria” (Is 66,18). Nel “tutti” pronunciato nell’ultima cena da Gesù si può dire che sia racchiuso il grido dei profeti, la loro intuizione, che tutti i popoli sono chiamati alla salvezza, nessun escluso. Gesù realizza le profezie messianiche, che contengono un messaggio di speranza per tutti. Anche il profeta Ezechiele ha parole di portata universale quando afferma: “le farò uscire [le pecore] dai popoli e le radunerò da tutte le regioni… Io stesso condurrò al pascolo le mie pecore e le farò riposare” (Ez 34,13s). Desiderio del Padre di salvare tutti, per questo il suo nome è la misericordia e quando pensa alle pecore che si sono smarrite prova compassione: “il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione” (Os 11,8b).  C’è un desiderio d’amore infinito nel cuore di Dio, che i profeti trasmettono con queste parole cariche di misericordia, che rendono il cammino del popolo pieno di speranza. Possiamo citare, sempre in questa prospettiva Is 2,1-4, che solitamente ascoltiamo nel tempo di avvento. “Alla fine dei giorni il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti, ad esso affluiranno tutte le genti”. Tra i segni che vengono manifestati nelle profezie messianiche con un accento universalista c’è la pace, che si manifesta nella convivenza degli opposti. “Il lupo dimorerà insieme all’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà. La mucca e l’orsa pascoleranno insieme; i loro piccoli si sdraieranno insieme” (Is 11,6-7). Nel tutti, c’è anche la speranza di tutta l’umanità, dei poveri, degli esclusi, di tutto coloro che in un modo o nell’altro si trovano in situazioni tragiche, di abbandono, situazioni per le quali percepiscono un giudizio negativo sul loro vissuto.

Per tre volte nel vangelo di Matteo Gesù ricorda ai Farisei: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mt 9, 12). C’è un tema che ricorre nel pensiero profetico ed è la polemica contro la falsa religione, la religione del tempio fatta di precetti e di prescrizioni, che con l’andar del tempo rende la persona dura, incapace di guardare alle situazioni concrete della vita, pretendendo di giudicare tutto con la legge. Ebbene, Gesù accoglie nella sua visione del mondo questo messaggio, manifestandolo nelle varie situazioni in cui viene solle citato ad esprimere giudizi duri, come quello contro l’adultera (Gv 8,1s), l’atteggiamento misericordioso del Padre, il desiderio di salvare tutti e tutte. Se è vero, come ci ricorda il Vangelo di Matteo che neppure uno Iota passerà senza che tutto sia compiuto (Mt 5,18), è altrettanto vero che il compito della legge è la misericordia del Padre che il Figlio è venuto a manifestare. Anche l’apostolo Pietro comprende, attraverso le esperienze della prima comunità e il contatto con il mondo pagano, che “Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto” (At 10,34-35). Ogni volta, dunque, che ci accostiamo all’altare nel giorno del Signore per mangiare il suo corpo, pensiamo che stiamo assimilando la misericordia del Padre che, prima di tutto, è stato misericordioso con noi. Mangiare il copro di Cristo, assimilare la sua misericordia, conduce ad essere misericordiosi, operatori di misericordia, ad impegnarci con le nostre scelte e le relazioni che costruiamo ogni giorno a fare in mod che siano espressione della misericordia del Padre e non della durezza della legge. È bello pensare che alla domenica, attorno all’altare, abbiamo la possibilità di realizzare il sogno di Dio manifestato dal Figlio, di fare in modo, cioè, che la comunità cristiana sia davvero uno spazio aperto a tutti e a tutte, senza discriminazioni di alcun tipo, in modo tale che tutti e tutte si sentano accolti. Quando questo avviene davvero il Signore Gesù diviene visibile, diviene corpo e, in questo modo, permette a tutti coloro in cerca di un senso ella vita di vederlo concretamente realizzato e desiderare di appartenere a quel corpo, di ascoltare e interiorizzare la Parola della vita vera.

Questo tipo di riflessione mi ha condotto a pormi alcune domande sul significato di alcune situazioni liturgiche in cui sono coinvolto e che dovrei incentivare. Mi riferisco alla confessione legata alla partecipazione della messa. C’è una tradizione della Chiesa che inizia nel XIII secolo che collega la possibilità di cibarsi dell’eucarestia alla messa solamente facendo precedere la confessione. Questo precetto rende difficoltoso quel tutti che si trova tra le parole dell’ultima cena e che la liturgia eucaristica ripropone. Non solo. A mio avviso questo legame tra confessione e comunione eucaristica produce la perdita di vista e l’indebolimento dell’azione salvifica del Signore presente nell’eucarestia. Mi spiego meglio. Se è Gesù il salvatore del mondo, se è Lui e solo Lui che perdona i peccati, perché anticipare l’incontro con Lui con una confessione, quando è proprio l’incontro con Lui che genera il perdono? Sembra che questo precetto della Chiesa oscuri il senso profondo del Vangelo. È stato Gesù, infatti a dire: “non sono venuto per i giusti, ma per i peccatori” (). Partecipando al banchetto eucaristico ci presentiamo come persone fragili, peccatrici, bisognose di quella misericordia che solo il Signore ci può donare. Per questo ci avviciniamo al banchetto eucaristico, perché siamo peccatori, bisognosi di quella misericordia che incontriamo nel cibo eucaristico. Ancora una volta: perché ci è stato inculcato che c’è bisogno di una confessione prima di ricevere il copro di Cristo? Non è una grande contraddizione? Non si tratta, forse di un travisamento che confonde i fedeli? Sono solo riflessioni che provengono da un presbitero che si pone delle domande.

La chiesa che si alimenta del Signore del suo desiderio di amare e accogliere tutti non può che essere inclusiva, accogliente, soprattutto nei confronti di quelle persone che nel mondo vivono situazioni di marginalizzazione ed esclusione. Siamo sul piano sociale della comunità, che è parte integrante del cammino di fede, perché sgorga dal copro di Cristo, dallo stile accogliente del Signore. È lo Spirito che agisce dentro di noi e in noi affinché siano formati nella nostra umanità i tratti dell’umanità di Cristo. È questo uno degli aspetti he dovrebbero essere verificati nei consigli pastorali, che dovrebbero funzionare per verificare periodicamente la vita della comunità e, in modo particolare, la sua adesione al Vangelo di Gesù.



[1] Cfr. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica per la cura pastorale delle persone omosessuali, Vaticano: 1986; CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, Vaticano: 1992, n. 2357-2359; CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Ratio fundamentalis insitutionis Sacerdotalis, Vaticano: 2016; CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione circa alcune questioni di etica sessuale. Documenti e studi, Vaticano: Libreria Editrice Vaticano: 2006.