venerdì 2 settembre 2022

QUESTO E' IL MIO CORPO

 




ESERCIZI SPIRITUALI - GALEAZZA 2022

Venerdì 2 settembre, ore 9

Che cosa significa la consegna che Gesù ha fatto ai suoi discepoli prima di morire, quando ha detto: questo è il mio corpo? Che cosa intendeva dire? A che cosa pensava?

Prima di tutto, è importante sottolineare che Gesù non consegna ai suoi discepoli l’anima, ma il corpo e il sangue. È una scelta chiara di Gesù, l’ha pensata attentamente, non è stata una svista, un equivoco. Fa scalpore, soprattutto, nel contesto culturale dell’epoca, dominato dalla filosofia di stampo platonico, che alimentava una visione antropologica di tipo dualista[1]. Platone sosteneva che il corpo è la prigione dell’anima e il cammino del filosofo consiste in un percorso di liberazione dell’anima. Per questo Socrate non si ribella alla condanna a morte che gli era stata inflitta, per dare un esempio ai suoi discepoli, l’esempio di una vita che cercava con la riflessione e lo studio di liberare l’anima dal peso insopportabile del corpo. C’è chi dice che al tempo di Gesù l’influenza della filosofia platonica non era ancora avvertito nella Palestina. Molti studiosi, tra i quali Giovanni Reale, considerato uno dei maggiori studiosi di filosofia antica, sostiene il contrario. Già dal V. sec. a.C., infatti, in Alessandria di Egitto si era insediata una colonia di ebrei che, col tempo, avevano assimilato la cultura greca. La traduzione detta dei settanta, dall’ebraico al greco del III sec. a.C. dice già di un processo di contaminazione in atto tra le due culture. Tradurre, è infatti, interpretare. Gli stessi scritti prodotti in quest’epoca, come il libro della Sapienza e del Siracide, risentono in modo significativo dell’influenza della cultura greca. Questa sottolineatura rende ancora più eclatante e rivoluzionaria la proposta di Gesù. In un clima culturale che evidenziava fortemente la dimensione invisibile della persona, la sua anima, Gesù, al contrario, sottolinea la visibilità, la corporeità. Ancora una volta, sin nelle parole finali dell’ultima cena, Gesù manifesta la grande novità del cristianesimo, vale a dire che in Lui, nella persona e nel corpo di Gesù, Dio si è fatto visibile e il suo corpo rivela i tratti del Padre. Il principio dell’incarnazione del verbo accompagna tutta l’esistenza di Gesù dall’inizio alla fine.

Nel linguaggio biblico, dunque, corpo indica la persona in quanto vive la sua vita in un corpo, che è la condizione morale dell’uomo e della donna. Corpo indica, quindi, tutta la vita. Dicendo: questo è il mio corpo, Gesù non ci ha donato delle fibre, delle ossa, ma ci ha donato tuttala sua vita, con le gioie e i dolori, le fatiche e le speranze, le lotte e le umiliazioni: tutto se stesso. Ci ha donato anche il suo sangue, che è senza dubbio un simbolo di vita, ma che nella prospettiva aperta dalla riflessione che stiamo svolgendo, è anche il simbolo della sua morte. Non va dimenticato, infatti, che le parole che Gesù ha pronunciato nell’ultima cena, costituiscono non solamente un dono per i suoi amici e amiche, ma anche e, forse soprattutto, una profezia, la profezia della sua morte. L’eucarestia diviene, dunque, il simbolo della vita di Gesù, che Egli stesso consegna ai suoi, perché questa sua vita, che è un corpo spezzato e un sangue versato per tutti e tutte, diventi il punto di partenza della vita nuova in Cristo, il punto di partenza della comunità dei discepoli e delle discepole del Signore.

Che cosa significa, allora questa sottolineatura? Che cosa ha voluto dirci Gesù quando ha detto agli apostoli, apostole: questo è il mio corpo, prendete e mangiatene tutti? In primo luogo significa che la scelta del Padre di manifestare la sua divinità nell’umanità di Gesù è permanente: non è stata una parentesi. Anche l’umanità che ancora non conosce Gesù, potrà incontrare Dio attraverso il suo corpo, che d’ora innanzi dovrà essere ben visibile nella Chiesa, nella comunità dei fratelli e delle sorelle. Il contatto con il corpo di Gesù ha prodotto la guarigione di tante persone. Facciamo qualche esempio. Gesù guarisce la suocera di Pietro toccandole la mano (Lc 8,15).  L’emorroissa è curata per aver toccato il lembo del mantello di Gesù (Lc 9, 18s). Due ciechi sono guariti perché Gesù toccò loro gli occhi (Lc 9, 29). Ci sono altri esempi, ma possono bastare questi per capire che l’incontro con Dio passa attraverso l’incontro con il suo corpo. È avvenuto così durante la vita di Gesù e continua oggi nella Chiesa attraverso l’azione dello Spirito Santo. È Paolo che intuisce questa novità, vale a dire che il corpo di Cristo d’ora innanzi è la Chiesa. Lo fa in diversi contesti: poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, diamo un corpo solo (1 Cor 10,17). Noi siamo battezzati in un solo spirito per formare un solo corpo (2 Cor 12,12). Nella riflessione di Paolo la visibilità del corpo di Cristo sta nella comunione dei fratelli e delle sorelle della comunità, chiamati nello Spirito Santo, ad essere uno pur essendo molti. Questa è la grandissima novità del cristianesimo. L’unità nella comunità che si riconosce in Gesù non esige l’annullamento delle diversità ma, per così dire, le esalta, nel senso che le richiede. Paolo stesso nel brano già menzionato, afferma che: “vi sono diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito. Vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore” (1 Cor 12, 4s). La verità della presenza del Signore nella comunità si vede proprio nel corpo, nel modo in cui i fratelli e le sorelle vivono, nella diversità di compiti e ministeri che non crea problemi, non diviene motivo d’invidia o di gelosia, ma, al contrario, aumenta la stima reciproca.

C’è un altro modo che il corpo di Cristo si rende visibile nel mondo, ed il corpo dei poveri, degli esclusi, degli emarginati. Questo mistero lo ha rivelato Gesù stesso prima di morire, quando ha detto: ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, 36nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi” (Mt 25, 35-36). Si tratta di riconoscere Gesù nel corpo dei poveri: come si fa? Frequentandoli, pensando che proprio in quel povero che incontro per la strada c’è il Signore. È il percorso che, ad esempio, ha fatto Francesco di Assisi, che è passato da un atteggiamento di repulsione nei confronti del lebbroso, ad un atteggiamento di accoglienza, arrivando al punto di abbracciarlo. Non a caso Tommaso, uno dei Dodici, che non era presente quando Gesù appare loro dopo la resurrezione, riconosce Gesù quando vede i segni dei chiodi nelle mani e nel costato (cfr. Gv 29, 19s). Riconoscere Gesù nel corpo trafitto dei poveri, nel corpo umiliato delle persone escluse dalla società: è questo il grande mistero e, allo stesso tempo, il cammino che siamo chiamati a compiere. Questo aspetto del copro di Cristo presente nei poveri, riguarda anche la Chiesa. Nella comunità, che vuole essere in sintonia e in continuità con il copro di Cristo, si devono vedere i segni della sua passione e morte, i segni dei chiodi. La novità che Gesù ha portato nel mondo ha provocato così tante tensioni, soprattutto nel mondo religioso del tempo, che hanno condotto Gesù verso le ore tremende della sua passione e morte. Una comunità cristiana che accoglie lo Spirito del Signore porta necessariamente i segni della tensione che provoca nel mondo. Senza dubbio, se la comunità si identifica con i riti, con una religiosità slegata dalla vita, si troverà molto a suo agio nel mondo: non lo disturba. Al contrario, la comunità che vive ciò che celebra nell’eucarestia, sarà segno di contraddizione, provocando tensioni e, a volte, persecuzioni. Una comunità che porta i segni dell’incomprensione del mondo, delle critiche del mondo nei suoi confronti, rende visibile il corpo di Cristo. Una comunità non solo che aiuta i poveri, ma che sceglie il cammino della povertà evangelica nelle scelte che compie, rende visibile il corpo di Cristo affinché il mondo creda.

Il corpo indica la persona, la sua identità. Non solo. Indica anche la modalità relazionale. È, infatti, con il corpo che entriamo in relazioni con gli altri. Con il corpo tocchiamo gli altri e ci lasciamo toccare. Il corpo rivela chi siamo, che cosa abbiamo dentro. Nella prospettiva cristiana la persona è allo stesso tempo corpo e anima: non c’è dualismo o svilimento di uno rispetto all’altro. A noi cristiani parlare di corpo ci dà un po' fastidio perché veniamo da quella cultura di stampo platonico, dui cui è imbevuta e plasmata la cultura occidentale, che considera il corpo qualcosa d’inferiore rispetto alla superiorità dell’anima. Era Platone, infatti, che sosteneva che il corpo è la prigione dell’anima e che solo con la morte ce ne liberiamo. Proprio a partire da questa visione negativo si sviluppò una spiritualità che andava nella duplice direzione della fuga dal mondo e della mortificazione del corpo.

La visione che Gesù ha del corpo è molto diversa, è una visione positiva. Durante la sua vita pubblica non agisce come un eremita, schivo o lontano dai contatti. Tutt’altro. Si lascia abbracciare, baciare i piedi, toccare le vesti. Lui stesso in diversi miracoli tocca le persone. Ancora. Lo vediamo spesso in relazione con tante persone attorno ad una mensa, o pressato dalla folla che chiede un miracolo. Il suo corpo e il suo sangue sono ben visibili anche e soprattutto nell’ora della sua passione e morte. Un corpo massacrato, crocefisso, insanguinato: visibile a tutti. Ed è proprio questo corpo che Gesù presenta alle sue discepole e ai suoi discepoli dopo la resurrezione. A Tommaso che rimase incredulo dinanzi alla testimonianza dei suoi amici e amiche, Gesù mostra le mani e il costato e lo invita a toccare, a non essere più incredulo, ma credente. Ciò significa che la fede in Gesù passa attraverso l’esperienza del suo corpo, il toccarlo, vederlo, incontrarlo. Anche noi oggi, vogliamo toccare il Signore per poter credere in Lui, per poter fare in modo che la sua Parola diventi davvero lampada per il nostro cammino. Questa possibilità diventa reale quando il corpo del Signore è visibile nella comunità, perché grazie all’assimilazione del corpo di Cristo, lei stessa diventa corpo, nel senso che lei stessa assume le modalità dell’umanità di Gesù, la sua gratuità, la sua attenzione agli ultimi, l’accoglienza infinita per i disprezzati del mondo, i lebbrosi, gli emarginati. Il copro di Cristo, visibile nella comunità, diventa spazio per tutti e tutte, Possibilità reale di trovare rifugio, riparo, conforto.

C’è un’altra riflessione che possiamo fare a questo punto del discorso. In sintesi si potrebbe dire: Gesù ha comunicato la divinità di Dio, attraverso la mediazione del suo corpo. Tutta la divinità di Dio si trova nel corpo di Gesù e tutto quello che con il corpo Gesù ha espresso.  Consegnandoci il suo corpo e il suo sangue, Gesù ci ha consegnato anche lo spazio in cui sono maturate le sue scelte. Cosa c’è in quel piccolo pezzo di pane divenuto corpo di Cristo? C’è tutto Gesù, le sue scelte, il suo modo di essere, di vivere, il suo modo di pensare che veniva comunicato proprio attraverso il suo corpo. In quel frammento che è l’ostia consacrata, c’è lo Spirito del signore che ci aiuta a vivere come Lui, a creare relazioni nuove non più basate sull’istinto di sopravvivenza, che provoca invidie e tensioni, ma sul dono gratuito di sé, che genera amore, disponibilità al servizio.

Per approfondire questo discorso possiamo prendere i versetti del capitolo 6 del Vangelo di Giovanni. In questo capitolo Giovanni pone una riflessione sul tema dell’eucarestia e il linguaggio in apparenza duro ed esplicito, esige un’interpretazione.

Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo». Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui (Gv 6, 48-56). Prima o poi un cristiano deve fare i conti con queste parole, con questo discorso durissimo e radicalissimo. Che cosa ha voluto dire Gesù? Siamo all’interno del Vangelo di Giovanni ed è quindi, all’interno del progetto Giovanneo che vanno trovati i criteri d’interpretazione. Giovanni costruisce il suo Vangelo come un libro di segni, scegliendo dei miracoli operati da Gesù, per poi utilizzarli, per così dire, per realizzare della catechesi. L’evento in questione, che ha provocato la riflessione che abbiamo ascoltato, è la così detta moltiplicazione dei pani. Da questo evento, riportato da tutti gli evangelisti, Giovanni prende le mosse per una catechesi sul significato del corpo di Cristo con un discorso che ha provocato l’allontanamento di molti discepoli. Del resto, ad una lettura, superficiale, non poteva essere che così. Gesù sembra, infatti, invitare al cannibalismo, a cibarsi del suo corpo e di bere il suo sangue. Sono le parole testuali che troviamo nel Vangelo. Che cosa voleva dire Gesù con queste parole? Che cosa significano queste parole? Gesù si definisce il pane disceso dal cielo e questo pane è la sua carne: cioè? Gesù aumenta la dose, dinanzi alle domande allibite dei giudei dicendo che solamente mangiando la sua carne e bevendo il suo sangue avranno il loro la vita. Il discoro, dunque di Gesù, diviene sempre più incomprensibile e complesso. La carne – in greco sarx- indica la realtà umana, che è caratterizzata dalla debolezza, dai condizionamenti; una carne che necessita di essere alimentata continuamente. Ebbene, la carne di Gesù è come la nostra, ma per come si è manifestata nel mondo, si percepisce che ha qualcosa di diverso, resiste nel tempo, ed è in grado di dare senso alla vita di coloro che si mettono in cammino. Cercate il cibo che dura per la vita eterna. Se ci fermiamo al pane possiamo godere di un dono, ma è provvisorio. Il pane ci sfama per qualche ora e poi dobbiamo mangiarne dell’altro. Ciò di cui l’uomo ha bisogno è un cibo che duri per la vita eterna e che risponda al desiderio di vita dell’uomo, della donna. Il figlio dell’uomo è in grado di donare un pane che dura per la vita eterna. È capace di fare questo perché il Padre ha messo il suo sigillo. Non ci si può fermare alla soddisfazione della fame. Gesù è Lui il pane della vita che può dare la vita eterna. “Io sono il pane della vita”. Quel pane che Gesù dona e trasmette la vita all’uomo è Lui, il suo amore, la sua amicizia. Lui è il pane della vita. Si tratta allora, di andare a Gesù, percorrere un cammino che è il cammino della fede. La carne del Signore, il suo corpo indicano il suo modo di stare al mondo, il suo modo di amare, che il suo corpo ha manifestato. L’invito a mangiarlo, significa l’invito ad assimilarlo, a fare in modo che entri in circolo, in coloro che l’assimilano con fede, il Suo Spirito, il suo modo di essere. Quando questo avviene con fede, la vita eterna inizia. Nel Vangelo di Giovanni ci sono due piani distinti: c’è il già del presente della vita di fede e il non ancora, che si realizzerà alla fine dei tempi. Ebbene, quando Gesù dice Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno, è ben visibile i due livelli temporali. Mangiare il copro di Cristo, nel significato esposto sopra, permette nel presente della storia l’inizio della vita eterna e, nel futuro, la resurrezione della carne. La vita eterna la vita che si è manifestata in Gesù, il suo modo di essere, i tratti della sua umanità, descritti da san Paolo quando dice: Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé (Gal 5,22). Mangiare il copro di Cristo, assimilare la sua Parola, vero alimento per noi, permette allo Spirito Santo di trasformare la nostra umanità affinché in noi, progressivamente, si formino gli stessi sentimenti, i tratti della sua umanità. Questa trasformazione, che è il senso della vita cristiana, non avviene da un giorno all’altra, ma s’inserisce nella struttura antropologica della persona umana, che ha una dimensione temporale quotidiana, settimanale. Questo discorso spiega il senso della preghiera quotidiana, Dell’invocazione dello Spirito santo, dell’approssimarsi al banchetto eucaristico per cibarci del Signore.

 

 



[1] Cfr. REALE G., Alla ricerca della sapienza greca. Milano: La nave di Teso, 2019. 

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