ESERCIZI SPIRITUALI - GALEAZZA 2022
Sabato 3 settembre, ore 15
1.
Prendete e mangiatene tutti. Nessuno
è escluso
Nel
percorso che stiamo realizzando che ci ha condotto ad approfondire nel limite
del possibile, alcune parole che troviamo tra quelle pronunciate da Gesù nell’ultima
cena, con l’obiettivo di vivere sempre meglio nella vita ciò che celebriamo
nella liturgia, c’è anche l’espressione: tutti. Che cosa ha voluto dire Gesù
quando ha utilizzato questa espressione? Che cosa aveva in mente? Prima di
approfondire dal punto di vista biblico il tema, vorrei condividere quell’esperienza
che mmi ha aperto gli occhi della fede su questa frase e, allo stesso tempo, a
intraprendere un cammino di approfondimento e di conversione.
Ho
cominciato a riflettere sulla forza impressionante di queste parole nel periodo
in cui ho iniziato ad accompagnare i cristiani LGBTQ+. Era il 2017. Il contatto
con questa umanità maltrattata non solo dal mondo, ma purtroppo, anche dalla
Chiesa, ha provocato in me tantissime domande. Come ministro della chiesa ero
obbligato a rifiutare l’assoluzione a persone omosessuali che dicevano di amare
un partner dello stesso sesso. La Chiesa, come sappiamo, nei suoi documenti
ufficiali sul tema omosessualità[1], che comunque non hanno
ancora una valenza dogmatica, indica il celibato a persone che manifestano
tendenze sessuali. Alla luce di questo percorso, ho riflettuto anche sul senso
di queste parole. Ho trascorso undici anni in seminario per discernere il dono
del celibato, per lo meno questo è uno dei significati che venivano attribuiti
al percorso vocazionale. Celibato, dunque, come vocazione, come un dono
liberamente accolto. Per le persone omosessuali, invece, si tratta non di un
dono da accogliere liberamente, ma di un’imposizione dell’istituzione nei loro
confronti. Più che un dono liberamente scelto, sembra essere un vero e proprio
castigo inflitto per essere nati diversi dalla maggioranza e, quindi, esclusi
dalla mensa eucaristica. La stessa idea di esclusione dal banchetto eucaristico
la vivono ancora oggi le persone separate, i divorziati, coloro che convivono
perché, secondo gli insegnamenti della Chiesa, vivono nella condizione di
peccato grave. Il contatto con questi mondi di persone escluse dalla mensa,
hanno provocato in me una rilettura spirituale ed esistenziale dei testi
biblici e delle scelte della chiesa. Percepisco sempre di più con l’andare
degli anni di vita ministeriale, una distanza tra la cattedra dalla quale
vengono scritti ed emanati i documenti ufficiali della Chiesa, e la vita
quotidiana, fatta di slanci pieni di speranza e di cadute, che a volte
rischiano di schiacciare la persona che le vive. La lettura di alcuni documenti
della Chiesa genera, a volte, sconforto, perché sembrano scritti da un altro
pianeta, da un altro contesto che non tiene conto della vita reale, Per quanto
mi riguarda, è stato proprio l’ascolto della realtà, del vissuto di alcune
persone che mi hanno permesso d’iniziare un percorso di smantellamento delle
teorie ecclesiali sulla vita e coglierne la lontananza dal Vangelo. Ascolto
della realtà che permette di iniziare un percorso di decostruzione di mentalità
che con il tempo vengono plasmate quasi a proteggersi dalla durezza della vita,
per paura di farsi male. È proprio come dice Papa Francesco nell’Evangeli
Gaudium, quando afferma che la realtà precede l’idea, l’ascolto della vita
così come si manifesta, che non è mai lineare, anche perché tiene conto di
tante variabili, impossibili da programmare, variabili che a volte vengono dal
contesto e, altre volte, dalla coscienza della persona. C’è una vita che sgorga
in abbondanza e sgorga non come la pianifichiamo noi, ma nei modi più impensati,
perché passa attraverso situazioni impensate che, spesso, generano timore,
spavento. Forse questa varietà, che arreca novità impreviste è uno degli
aspetti più belli ed emozionanti dell’esistenza, che non può essere programmata
in antecedenza, per fortuna! Imparare ad ascoltare nel presente della vita la
realtà nella molteplicità di come si manifesta, permette di bloccare la
tentazione di anticiparla con le nostre idee, i nostri sistemi preconfezionati
che, se da un lato generano sicurezza, dall’altro non ci permettono di gustare
la bellezza e la forza della vita. Forse è questo un o degli insegnamenti più
veri e profondi di Gesù. Accogliendo le persone nella loro realtà presente, le
ha spesso salvate dalla morte causata non da malattie, ma dalle idee religiose
spacciate per parola di Dio, quando invece si trattava di tradizioni umane
(cfr. Mc 7, 8s). è in questa prospettiva che è possibile leggere il brano di Gv
8,1-11, l’incontro di Gesù con la donna adultera, condannata a morte dagli uomini
del tempio. Gesù non risponde alle provocazioni immediate, ma sta in silenzio e
scrive per terra: ascolta l’evento. In seguito, con l’affermazione: chi è
senza peccato scagli per primo la pietra contro di lei, Gesù permette ad
ogni persona presente di guardarsi dentro, di compiere un cammino all’interno
della propria coscienza, e scoprire che la propria condizione esistenziale
personale era la stessa di quella donna adultera era la stessa di ognuno di
loro. E se ne andarono uno per uno. L’ascolto della realtà è uno dei
doni più grandi della vita spirituale, perché ci permette di smascherare le
falese dottrine, di decostruire le idee strutturate dalla cultura dei forti, di
chi detiene il potere contro i piccoli e gli ultimi.
E così, mentre celebravo l’eucarestia, la mia
mente ha cominciato a soffermarsi, come mai in precedenza, sulle parole della
preghiera eucaristica, quando propone le parole che Gesù ha pronunciato nel
conteso dell’ultima cena. Prendete, e mangiatene tutti: questo è il mio
Corpo offerto in sacrificio per voi. Prendete, e bevetene tutti: questo è il
calice del mio Sangue, per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per
tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me. Sono queste
le parole che noi preti ripetiamo in ogni messa. Mai come in quel periodo ha
rimbombato dentro di me la parola: tutti. Ho, così, iniziato a pensare alle
situazioni in cui Gesù si è trovato, soprattutto, in quelle circostanze in cui
era sollecitato dagli ascoltatori a giudicare negativamente, a rifiutare
qualcuno.
Gesù ha incarnato nelle sue scelte e nel suo
modo di fare le profezie dei grandi profeti dell’Antico Testamento, che
annunciavano il desiderio di Dio di accogliere tutti, di salvare tutti. Il
libro del profeta Isaia, per esempio, si chiude con queste parole: “Io verrò
a radunare tutti i popoli e tutte le lingue, essi verranno e vedranno la mia
gloria” (Is 66,18). Nel “tutti” pronunciato nell’ultima cena da Gesù si può
dire che sia racchiuso il grido dei profeti, la loro intuizione, che tutti i
popoli sono chiamati alla salvezza, nessun escluso. Gesù realizza le profezie
messianiche, che contengono un messaggio di speranza per tutti. Anche il
profeta Ezechiele ha parole di portata universale quando afferma: “le farò
uscire [le pecore] dai popoli e le radunerò da tutte le regioni… Io stesso
condurrò al pascolo le mie pecore e le farò riposare” (Ez 34,13s).
Desiderio del Padre di salvare tutti, per questo il suo nome è la misericordia
e quando pensa alle pecore che si sono smarrite prova compassione: “il mio
cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione” (Os
11,8b). C’è un desiderio d’amore infinito
nel cuore di Dio, che i profeti trasmettono con queste parole cariche di
misericordia, che rendono il cammino del popolo pieno di speranza. Possiamo
citare, sempre in questa prospettiva Is 2,1-4, che solitamente
ascoltiamo nel tempo di avvento. “Alla fine dei giorni il monte del tempio
del Signore sarà saldo sulla cima dei monti, ad esso affluiranno tutte le genti”.
Tra i segni che vengono manifestati nelle profezie messianiche con un accento
universalista c’è la pace, che si manifesta nella convivenza degli opposti. “Il
lupo dimorerà insieme all’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto;
il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li
guiderà. La mucca e l’orsa pascoleranno insieme; i loro piccoli si sdraieranno
insieme” (Is 11,6-7). Nel tutti, c’è anche la speranza di tutta l’umanità,
dei poveri, degli esclusi, di tutto coloro che in un modo o nell’altro si
trovano in situazioni tragiche, di abbandono, situazioni per le quali
percepiscono un giudizio negativo sul loro vissuto.
Per
tre volte nel vangelo di Matteo Gesù ricorda ai Farisei: «Non sono i sani
che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol
dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a
chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mt 9, 12). C’è un tema che ricorre nel
pensiero profetico ed è la polemica contro la falsa religione, la religione del
tempio fatta di precetti e di prescrizioni, che con l’andar del tempo rende la
persona dura, incapace di guardare alle situazioni concrete della vita,
pretendendo di giudicare tutto con la legge. Ebbene, Gesù accoglie nella sua
visione del mondo questo messaggio, manifestandolo nelle varie situazioni in
cui viene solle citato ad esprimere giudizi duri, come quello contro l’adultera
(Gv 8,1s), l’atteggiamento misericordioso del Padre, il desiderio di salvare
tutti e tutte. Se è vero, come ci ricorda il Vangelo di Matteo che neppure uno
Iota passerà senza che tutto sia compiuto (Mt 5,18), è altrettanto vero che il
compito della legge è la misericordia del Padre che il Figlio è venuto a
manifestare. Anche l’apostolo Pietro comprende, attraverso le esperienze della
prima comunità e il contatto con il mondo pagano, che “Dio non fa preferenze
di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo
appartenga, è a lui accetto” (At 10,34-35). Ogni volta, dunque, che ci
accostiamo all’altare nel giorno del Signore per mangiare il suo corpo,
pensiamo che stiamo assimilando la misericordia del Padre che, prima di tutto,
è stato misericordioso con noi. Mangiare il copro di Cristo, assimilare la sua
misericordia, conduce ad essere misericordiosi, operatori di misericordia, ad
impegnarci con le nostre scelte e le relazioni che costruiamo ogni giorno a
fare in mod che siano espressione della misericordia del Padre e non della
durezza della legge. È bello pensare che alla domenica, attorno all’altare,
abbiamo la possibilità di realizzare il sogno di Dio manifestato dal Figlio, di
fare in modo, cioè, che la comunità cristiana sia davvero uno spazio aperto a
tutti e a tutte, senza discriminazioni di alcun tipo, in modo tale che tutti e
tutte si sentano accolti. Quando questo avviene davvero il Signore Gesù diviene
visibile, diviene corpo e, in questo modo, permette a tutti coloro in cerca di
un senso ella vita di vederlo concretamente realizzato e desiderare di
appartenere a quel corpo, di ascoltare e interiorizzare la Parola della vita
vera.
Questo
tipo di riflessione mi ha condotto a pormi alcune domande sul significato di
alcune situazioni liturgiche in cui sono coinvolto e che dovrei incentivare. Mi
riferisco alla confessione legata alla partecipazione della messa. C’è una
tradizione della Chiesa che inizia nel XIII secolo che collega la possibilità
di cibarsi dell’eucarestia alla messa solamente facendo precedere la
confessione. Questo precetto rende difficoltoso quel tutti che si trova tra le
parole dell’ultima cena e che la liturgia eucaristica ripropone. Non solo. A
mio avviso questo legame tra confessione e comunione eucaristica produce la perdita
di vista e l’indebolimento dell’azione salvifica del Signore presente
nell’eucarestia. Mi spiego meglio. Se è Gesù il salvatore del mondo, se è Lui e
solo Lui che perdona i peccati, perché anticipare l’incontro con Lui con una
confessione, quando è proprio l’incontro con Lui che genera il perdono? Sembra
che questo precetto della Chiesa oscuri il senso profondo del Vangelo. È stato
Gesù, infatti a dire: “non sono venuto per i giusti, ma per i peccatori” ().
Partecipando al banchetto eucaristico ci presentiamo come persone fragili,
peccatrici, bisognose di quella misericordia che solo il Signore ci può donare.
Per questo ci avviciniamo al banchetto eucaristico, perché siamo peccatori,
bisognosi di quella misericordia che incontriamo nel cibo eucaristico. Ancora
una volta: perché ci è stato inculcato che c’è bisogno di una confessione prima
di ricevere il copro di Cristo? Non è una grande contraddizione? Non si tratta,
forse di un travisamento che confonde i fedeli? Sono solo riflessioni che
provengono da un presbitero che si pone delle domande.
La
chiesa che si alimenta del Signore del suo desiderio di amare e accogliere
tutti non può che essere inclusiva, accogliente, soprattutto nei confronti di
quelle persone che nel mondo vivono situazioni di marginalizzazione ed
esclusione. Siamo sul piano sociale della comunità, che è parte integrante del
cammino di fede, perché sgorga dal copro di Cristo, dallo stile accogliente del
Signore. È lo Spirito che agisce dentro di noi e in noi affinché siano formati
nella nostra umanità i tratti dell’umanità di Cristo. È questo uno degli aspetti
he dovrebbero essere verificati nei consigli pastorali, che dovrebbero
funzionare per verificare periodicamente la vita della comunità e, in modo
particolare, la sua adesione al Vangelo di Gesù.
[1] Cfr.
CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Lettera ai vescovi della Chiesa
cattolica per la cura pastorale delle persone omosessuali, Vaticano: 1986;
CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA, Vaticano: 1992, n. 2357-2359;
CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Ratio fundamentalis insitutionis Sacerdotalis, Vaticano:
2016; CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dichiarazione circa
alcune questioni di etica sessuale. Documenti e studi, Vaticano: Libreria
Editrice Vaticano: 2006.
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