venerdì 29 settembre 2023

OMELIA DOMENICA 1 OTTOBRE 2023

 



XXVI DOMENICA TEMPO COMUNE

Ez 18,25-28; Sal 24; Fil 2,1-11; Mt 21,28-32

 

 

Paolo Cugini

 

Continua anche nel Vangelo di oggi la polemica con i farisei e i capi del popolo che arriverà al suo apice nel capitolo 23. Ciò significa che siamo vicini. Sono i contenuti di questa polemica ad essere importanti per il nostro cammino di fede, perché rivelano la proposta specifica di Gesù. Il contrasto con i capi religiosi d’Israele deriva dal fatto che non riescono ad accettare la proposta di Gesù, troppo lontana dalla loro prospettiva religiosa. Proprio questo è il dato strano: coloro che avrebbero dovuto comprendere e accogliere il Figlio di Dio, sono proprio coloro che non lo capiscono. Cogliere il contenuto di questa incomprensione significa capire dove vuole condurci Gesù con la sua proposta. Proviamo, allora, ad ascoltare la parabola di oggi per continuare il nostro cammino di fede.

Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. L’inizio è simile a quello della parabola del figliol prodigo. La parabola mostra due atteggiamenti diversi dinanzi alla richiesta dello stesso padre. C’è, dunque, un primo punto di partenza che è la relazione di paternità e il modo di intenderla e viverla. Il cammino di fede comincia all’interno di una relazione con il Mistero. Il problema è capire come abitiamo questa relazione, in che modo ci stiamo dentro. In questa prospettiva, i due fratelli non sono molto diversi, rappresentano ancora il modello religioso, una relazione legalista con il padre, che provoca timore e possibilità di trasgressione. Ben diversa è la relazione figliale mostrata da Gesù, segnata da un amore profondo cercato continuamente e rivelato in ogni scelta e in ogni atteggiamento.

Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». Non è un’appartenenza che decide il senso del nostro cammino. Dipende da come abitiamo questa appartenenza. La riflessione che Gesù propone commentando la parabola è un invito ad uscire da ogni tipo di relazione formale con Dio, soprattutto, da tutte quelle forme di religione che curano l’apparenza, ma non entrano in profondità per modificare l’umanità della persona. Sono le nostre scelte, i nostri pensieri che rivelano come stiamo dinanzi al Signore. È proprio questa l’idea espressa dal profeta Ezechiele ascoltato nella prima lettura: E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso (Ez 18,27). Siamo responsabili delle nostre azioni. Non solo. Nel cammino di fede non regge la teoria dell’accumulo, perché rientra nello schema della dottrina del merito criticata da Gesù nel vangelo della scorsa domenica. Non esiste una banca dati in cielo che registra il bene che abbiamo fatto in modo tale che, se compiamo alcune azioni malvagie, il bene accumulato le copre. Il cammino di fede non segue questo tipo di mentalità mondana. Senza dubbio, il cammino di sequela dietro al Signore non è lineare, non è un progresso costante verso la luce. Passiamo attraverso momenti di grande entusiasmo, di grandi scoperte spirituali e di bellissimi momenti personali e comunitari. Coloro che hanno un po' di cammino cristiano alle spalle sanno che si passano anche momenti difficili, di confusione e di disorientamento, al punto che si ha la sensazione di essere ritornati indietro, di essere regrediti. Nel cammino di fede ci sta dentro tutto, perché la nostra umanità è debole e stiamo seguendo Gesù esattamente perché desideriamo che la forza del suo Spirito rafforzi la nostra umanità e ci aiuti a vivere in pieno le scelte fatte. Per questo, nel cammino di fede il male che facciamo dev’essere messo umilmente nelle mani del Signore per accogliere il suo perdono e, in questo modo, continuare il cammino.

E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. La spiegazione che Gesù offre per questa affermazione forte sta nel fatto che, mentre i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo non hanno creduto alle parole e all’azione di Giovanni Battista, i pubblicani e le prostitute invece vi hanno creduto. Il problema è capire come mai c’è stata questa differenza di atteggiamento nei confronti del Battista. C’è orgoglio e presunzione nell’atteggiamento dei sacerdoti, che impedisce loro di fare spazio alla novità, di mettersi in discussione per creare lo spazio di un confronto libero e autentico. Il loro atteggiamento di chiusura non permette di cogliere la novità che il Signore sta manifestando. Al contrario, nei pubblicani e nelle prostitute la proposta di Gesù trova spazio, perché la loro condizione è tale che non hanno nessuno forma di orgoglio da contrapporre. Ciò significa che solamente un cuore umile è in grado di fare spazio alla novità della proposta del Signore annunciata dal Vangelo e iniziare un cammino di conversione e di cambiamento di vita e di mentalità.

Questo cammino di svuotamento e di umiliazione lo ha compiuto lo stesso Gesù. Ce lo ricorda san Paolo nella seconda lettura di oggi: non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo (Fil 2, 6-7). Gesù è venuto a comunicarci la novità del Padre non sedendo su una cattedra, ma ponendosi al nostro livello e, per questo, si è svuotato di tutto. È un cuore umile che è in grado di amare tutti e tutte, senza alcuna distinzione e discriminazione. È l’umiltà che è segno di quello svuotamento che è, allo stesso tempo, un invito per l’interlocutore ad entrare, a comunicare, perché c’è spazio. È questo che diceva sant’Agostino commentando il prologo di Giovanni: dove c’è umiltà c’è carità

VEDRETE IL CIELO APERTO

 



Paolo Cugini

In verità, in verità io vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo (Gv 1, 51). È il versetto di oggi, su cui devo meditare. L’umanità di Gesù porta i tratti visibile della sua divinità: è questo uno dei significati del versetto. C’è qualcosa di diverso, di qualitativamente diverso nel modo di agire di Gesù, di entrare in relazione con gli altri, ma anche nel modo di pensare e di vedere le cose. Questa diversità è visibile e lo dice lo stesso Gesù: vedrete. Era visibile in Gesù la bontà, la delicatezza nei tratti, la dolcezza, l’attenzione alle persone che incontrava, in modo particolare nei confronti di coloro che la società disprezzava come lebbrosi e prostitute. Tratti umani che dicevano di qualcosa d’altro, che rimandavano a una dimensione altra. Gesti che rompevano schemi con naturalezza, che indicavano un cammino. Come il fatto riportato in Luca che nella sua comunità itinerante non c’erano solo uomini, i 12, ma anche varie donne. Gesto che rompe e denuncia la cultura patriarcale e misogina del tempo, che è anche il nostro tempo. Umanità diversa, che rivela come dovrebbe vivere e pensare un figlio e una figlia di Dio.

Sappiamo che in Lui ogni persona ha la possibilità di realizzare il cammino della nuova umanità. Ce lo ricorda san Paolo quando dice: E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore (2 Cor 3, 18). Veniamo trasformati in colui che contempliamo: è questa l’azione dello Spirito Santo, un’azione trasformatrice. Lo Spirito del Signore riproduce in noi i tratti dell’umanità di Gesù. In questo modo, anche in noi dovrebbe divenire visibile quell’umanità diversa che dice di qualcosa che proviene d’altrove e diviene cammino per tutti e tutte.

Lasciarsi plasmare dal Signore è il senso di un cammino di fede che apre la possibilità di questo stesso cammino per tutti coloro che desiderano conoscere il Signore e ricevere il suo Spirito per essere persone diverse, più umane.

 

giovedì 21 settembre 2023

MISERICORDIA IO VOGLIO

 




 

Paolo Cugini

 

Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli (Mt 9,10). Questa è la Chiesa! Una comunità che diventa spazio per tutti, tenda da campo verso la quale chiunque si sente attratto per entrare e, entrando, si sente accolto, si sente a casa propria. Questo spazio di umanità aperto a tutti e a tutte diventa scandalo non tanto nel mondo, ma per la religione e i suoi capi, abituati a filtrare chi entra dalla porta. Infatti: Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?».

 Siamo così abituati a pensare la religione come un gruppo chiuso di persone che si sentono migliori degli altri che, quando vediamo come dovrebbe essere, ci stupiamo. Non siamo abituati a pensare il sogno di Dio che è un’umanità di uomini e donne diversi ma insieme, un’umanità fatta soprattutto con le persone rifiutate dalla società, i poveri, i miserabili. Siamo così avvolti dal criterio del merito, l’abbiamo così interiorizzata che ci fa specie vedere la possibilità di chi non può meritarsi la salvezza sedersi al presunto banchetto dei salvati.

La risposta di Gesù è pronta: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori». Questa è la Chiesa! Una comunità che si occupa degli ammalati, di coloro che non ce la fanno ad accompagnare i ritmi frenetici che la meritocrazia pone nel mondo. Una chiesa che accoglie tutti coloro che sono ammalati a causa della discriminazione che subiscono. Una Chiesa segno della misericordia di Dio. Per questo i riti vengono celebrati, affinché si formi in noi il modo di vedere di Dio, i tratti della sua umanità. La chiesa come popolo di Dio di uomini e donne ricolmi di misericordia che riversano nei rivoli del mondo per permettere a tutti e tutte di sperimentare l’amore del Signore.

 

mercoledì 20 settembre 2023

VI ABBIAMO SUONATO IL FLAUTO

 





Paolo Cugini

 

A chi posso paragonare la gente di questa generazione? A chi è simile? È simile a bambini che, seduti in piazza, gridano gli uni agli altri così: “Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!” (Lc 7, 31s). C’è un Dio che fa di tutto per aiutarci a cogliere la sua presenza. Si è persino incarnato, ha preso le sembianze umane per avvicinarsi a noi, parlare con noi. Eppure, non è stato riconosciuto dai suoi contemporanei. Ha fatto di tutto e continua a fare di tutto per fare in modo che lo riconosciamo, per dare un senso nuovo alla nostra esistenza, per imparare a vivere come figli e figlie e non come schiavi.

Lo dice anche, in modo diverso, ma il senso è quello, l’autore della prima lettera a Timoteo, che è la prima lettura di oggi: “Non vi è alcun dubbio che grande è il mistero della vera religiosità: egli fu manifestato in carne umana e riconosciuto giusto nello Spirito, fu visto dagli angeli e annunciato fra le genti, fu creduto nel mondo ed elevato nella gloria (1 Tim 3, 15s).

C’è un mistero che si è manifestato e non solo si è reso visibile, ma anche intellegibile, comprensibile. Per questo motivo non abbiamo più motivo di accedere al sacro perché colui che era distante ed era considerato inavvicinabile si è fatto prossimo a noi al punto da poterlo toccare, ascoltare.

Nonostante tutto, però c’è qualcuno che l’ha riconosciuto: Ma la Sapienza è stata riconosciuta giusta da tutti i suoi figli. Accettare il cammino per divenire figli e così riconoscerlo: è questo il nostro compito.

 

lunedì 18 settembre 2023

TRA MERITO E FEDE

 



 

 

Paolo Cugini

 

 Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità (1 Tim 2,4). Incarnare questa volontà di Dio, trasformarla in progetto personale e comunitario. Sognare comunità cristiane che si organizzano per divenire spazio umano per tutti e tutte, senza esclusione di nessuno, senza mettere dei paletti o delle norme per farne parte. “Che tutti gli uomini siano salvi” significa che il desiderio di Dio che si è manifestato nella vita pubblica di Gesù è che nessuno sia escluso. Fa tanta paura questa volontà di Dio perché esprime la sua bontà, la sua gratuità che si scontra con la logica della religione del merito, che produce comunità fatta esclusivamente per coloro che si sentono i migliori, coloro che hanno le carte in regola per meritarsi la salvezza.

Ascoltare queste parole dell’autore della prima lettera a Timoteo, che riprende le parole di Gesù e, soprattutto, il su stile accogliente e includente, aiuta ad orientare lo spirito nella direzione di quella nuova umanità sognata da Dio e manifestata da suo Figlio: Gesù il Cristo.

Egli merita che tu gli conceda quello che chiede… Gesù lo ammirò e, volgendosi alla folla che lo seguiva, disse: «Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!» (Lc 7,1s). C’è un duplice sguardo nella storia narrata dall’evangelista Luca, un duplice e contrastante modo di vedere le cose, di ponderarle. C’è, in primo luogo, il modo di vedere religioso che guarda il merito, seguendo la logica di colui che guarda il rapporto con Dio non a partire da Dio, ma dalle proprie capacità, da quello che può e riesce a fare per conquistarsi la salvezza. Dall’altra parte c’è lo sguardo di Gesù, che non guarda i meriti, lo sforzo esterno, ma diretto al cuore, alla coscienza della persona e ne coglie l’intenzione, la fede. Sguardi diversi che producono cammini diversi. Il primo, quello del merito, provoca il cammino dell’autosufficienza che sfocia nell’arroganza di colui che pensa di meritarsi qualcosa da Dio.

 L’altro cammino, quello generato dall’accoglienza umile del dono di Dio, provoca il cammino della donazione gratuita di sé, ben visibile nella vita di Gesù. È su questo cammino che siamo invitati ogni giorno ad entrare, per uscire dalla logica dell’autosufficienza, della fare le cose per sé, per entrare nella logica del dono che ci conduce a vivere per il Signore e per i fratelli e le sorelle.

 

domenica 17 settembre 2023

OMELIA DOMENICA 24 SETTEMBRE 2023

 



XXV DOMENICA A TEMPO ORDINARIO

Is 55,6-9; Sal 144; Fil 1,20c-27a; Mt 20,1-16a

 

Paolo Cugini

 

Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri (Is 55, 8). È questo versetto del profeta Isaia la chiave di lettura del Vangelo di oggi. C’è una differenza di mentalità, di modo di pensare, di vedere le cose tra noi e la proposta di Gesù nel Vangelo, che è incommensurabile. Sono modi di vedere opposti e da qui si comprende molto bene perché il suo messaggio ha incontrato resistenza tra le persone religiose del tempo e incontra ancora oggi. Ciò significa che il pensiero di Gesù non è espressione di alcuna religione, ma solamente di qualcos’altro che va cercato. Del resto, è ciò che ci dice ancora il profeta Isaia nella prima lettura di oggi: Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino (Is 55,6). Il Signore non si fa trovare nei riti e nelle dottrine religiose, ma nel Vangelo, nella parola e nell’azione di Gesù. C’è una differenza nei contenuti, nella modalità di pensare e agire a vari livelli. Oggi, il contenuto che Gesù mette sotto accusa con la parabola è la dottrina del merito, che si trova agli antipodi con il criterio del dono gratuito visibile nella vita di Gesù. Proviamo, allora, a riflettere sul contenuto della parabola per cercare di comprendere il messaggio del Vangelo.

Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Quelli di Gesù non sono discorsi teorici, ma hanno come riferimento un obiettivo preciso: spiegare ai suoi discepoli e discepole che cosa significa essere parte di un’umanità che ha come criteri di comportamento non le logiche del mondo, ma quelle che vengono da altrove. È il Regno dei cieli che Gesù tenta di spiegare con le sue parabole, un regno in cui è visibile la presenza di Dio in mezzo a coloro che lo accolgono. In questo regno dei cieli, c’è un movimento costante in uscita. Il padrone esce di casa per chiamare lavoratori a giornata per la sua vigna a tutte le ore. Non rimane, quindi, chiuso in casa aspettando che qualcuno venga a bussare alla porta, ma esce. Se la Chiesa, la comunità cristiana desidera essere una manifestazione del regno dei cieli proposto da Gesù, deve imparare ad uscire, ad andare incontro all’umanità, a chiamare qualsiasi persona senza alcun tipo di distinzione. È la chiesa in uscita che chiama tutti e che accoglie tutti. Papa Francesco, da quando è arrivato a Roma, non fa altro che sottolineare questo aspetto fondamentale che è una caratteristica della comunità cristiana: un pezzo di umanità aperto, che esce a tutte le ore e accoglie chiunque viene.

Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Il padrone esce per chiamare a lavorare nella vigna e offre qualcosa. È un dato molto simile alla parabola dei talenti. Questo denaro che cosa potrebbe rappresentare nella vita di fede? Il denaro rappresenta la paga quotidiana del tempo, che permetteva alla persona di vivere. Che cos’è che ci permette di vivere dal punto di vista della fede? L’acqua del battesimo, il pane e il vino eucaristico, l’olio del crisma, la parola di Dio. È un dono che non può essere accumulato e che acquisisce valore solamente quando viviamo ciò che riceviamo. È proprio questo che san Paolo ci ricorda nella seconda lettura di oggi: Fratelli, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché́ se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore (Rom 14, 7). Il dono che ci viene fatto non è per rimanere chiuso nelle nostre mani, ma deve poter produrre uno stile di vita caratterizzato dal dono gratuito, una vita per gli altri, per il Signore.

Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. Questo è il centro della parabola e qui troviamo il contenuto che Gesù cerca di destrutturare per entrare nella logica del Regno. C’è una logica del merito, di natura squisitamente mondana, che è entrata a fa parte della logica della religione. Questa logica ci insegna che, per ottenere una cosa, dobbiamo meritarcela e, per meritarcela dobbiamo compiere una serie di gesti e di prove. In questa prospettiva del merito, Dio non è altro che un venditore di cose e chi le può ottenere sono i migliori, i meglio dotati, coloro che, in un modo o nell’altro, riescono a compiere tutto ciò che permette loro di raggiungere l’obiettivo. Già spiegata in questo modo si comprende molto bene come questa logica si trovi all’antipodo del Vangelo. Eppure, è stata così tanto inculcata nelle nostre menti che riteniamo giusto e religioso una simile logica. In fin dei conti, la religione dell’obbedienza dei precetti, delle regole, dei riti e dei sacrifici si trova proprio in questa direzione, che non è quella insegnata da Gesù.

“Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. È questa la logica di Dio Padre, così come Gesù lo ha manifestato all’umanità. Un Dio che non risponde alla logica del merito, ma a quella del dono gratuito e disinteressato. Un dono gratuito che tutti possono accogliere indipendentemente dal loro stato sociale e dei loro presunti talenti, perché è Dio il protagonista della nostra salvezza e non noi. Infatti, mentre il Dio inventato dagli uomini, quello che risponde al criterio del merito, scarta i più deboli e premia i così detti migliori, il Dio che Gesù ha manifestato a noi permette a chiunque di entrare nel Regno dei cieli e questo perché, come dice la parabola, Dio è buono. C’è bontà nella proposta di Gesù, una bontà donata gratuitamente che esige solamente l’accoglienza, il farle spazio. In questo cammino i piccoli, gli esclusi, i poveri e tutti coloro che soffrono in questo mondo del merito un tipo di discriminazione, sono avvantaggiati perché il mondo li ha svuotati della loro dignità e Gesù, con la sua proposta, è venuto a restituirgliela.

Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi. Non è a caso questa conclusione, ma il frutto di ciò che la parabola ha voluto esprimere. Mettiamoci in fila, allora, nella fila degli ultimi. Usciamo dalle fila di coloro che vogliono essere grandi in questo mondo, ma che poi perdono la propria anima. Finché siamo in tempo, spogliamoci della religione del merito per farci rivestire della bontà di Dio Padre. Amen.

venerdì 15 settembre 2023

OMELIA DOMENICA 17 SETMBRE 2023

 




XXIV DOMENICA DEL TEMPO COMUNE

Sir 27,30-28,9; Sal 102; Rm 14,7-9; Mt 18,21-35


Paolo Cugini

 

Continua la lettura del capitolo 18 del Vangelo di Matteo che stiamo ascoltando in questo anno liturgico. Si tratta del capitolo che ha come tema la Chiesa. Dal punto di vista generale il dato interessante è che, quando Gesù parla di Chiesa, non ha in mente la gerarchia, l’istituzione, ma la relazione dei fratelli e delle sorelle all’interno della comunità. Del resto, sappiamo bene quanta attenzione metteva Gesù nel dialogo quotidiano con i discepoli e le discepole al punto che, dopo ogni parabola, dedicava loro tempo per spiegarne i passaggi affinché potessero comprenderla. È in questa prospettiva, dunque, che va letta la pagina del Vangelo di oggi, perché il contenuto rivela un aspetto che per Gesù è fondamentale che sia presente nella comunità, vale a dire il perdono. Approfondiamo il discorso.

Il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi.  La parabola che Gesù racconta serve per spiegare il mistero della misericordia. Sono due episodi che si sovrappongono e provocano un contrato stridente. Due episodi con un contenuto e con una dinamica simile, ma con la conclusione opposta. Mentre nel primo caso l’uomo che supplica il padrone ottiene il perdono, nel secondo caso no. Conclusioni diverse ma legate tra loro. Infatti, nella parabola è contenuta la spiegazione della domanda di Pietro che si trova all’inizio del brano: Pietro si avvicinò a Gesù̀ e gli disse: «Signore, se mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò̀ perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù̀ gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. In gioco non c’è solo il problema del perdono, che di per sé non è semplice, ma anche la ripetitività del gesto: settanta volte sette, cioè sempre.

“Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. È questo versetto il centro di tutta la parabola: dobbiamo perdonare i fratelli e le sorelle perché noi stessi siamo stati perdonati. La nostra vita di fede nasce da una scelta di misericordia di Dio per l’umanità. La stessa creazione è un atto di amore che manifesta il senso della vita come uscita da se stessi verso gli altri. Perdonare significa, in questa prospettiva, collaborare al progetto di creazione di Dio che desidera la vita per tutti e tutte. Tutte le volte che non perdoniamo il fratello e la sorella non permettiamo la possibilità di un nuovo inizio provocando cammini di disperazione. Al contrario, il perdono permette alla persona coinvolta di rialzarsi per riprendere il cammino. Misericordia è vita: è questo il grande messaggio della liturgia di oggi.

Se è vero, inoltre, che siamo chiamati a perdonare perché per primi siamo stati perdonati, la mancanza di perdono nei confronti dei fratelli e delle sorelle mette in discussione l’autenticità del nostro cammino di fede. Chi non perdona è lontano dal Vangelo perché non sta permettendo allo Spirito Santo di entrare e di operare. Infatti, uno degli aspetti più significativi dello Spirito Santo è che, in tutto coloro che l’accolgono con fede, riproduce in noi gli stessi tratti dell’umanità di Gesù. In altre parole, lo Spirito Santo ci cristifica, come dice san Paolo quando, nella lettera ai Galati afferma: “figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché Cristo non sia formato in voi! (Gal 4,19). Ebbene, tra i tratti dell’umanità di Gesù che lo Spirito forma in noi c’è senza dubbio il perdono, la misericordia. Ecco perché possiamo tranquillamente affermare che chi non perdona il fratello e la sorella della comunità è molto lontano da Cristo.

Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore le porta dentro. Chi si vendica subirà̀ la vendetta del Signore, il quale tiene sempre presenti i suoi peccati. (Sir 27,33s). Il tema del perdono lo troviamo in una forma avanzata, vale a dire molto simile alle argomentazioni del Vangelo, anche in alcuni brani dell’Antico Testamento. Sappiamo con il tema della vendetta e della logica dell’occhio per occhio e dente per dente, sia stato uno dei perni della legge mosaica, Lentamente, comunque, anche attraverso la predicazione profetica, la riflessione biblica giunge a percepire l’importanza del perdono come manifestazione della misericordia di Dio. I versetti del libro del Siracide, che tra l’altro è molto recente e quasi contemporaneo a Gesù, dimostrano questo cammino spirituale. Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati. C’è la percezione che il perdono dei peccati incida nella vita spirituale: come mai? Per le ragioni che dicevamo sopra e cioè che ogni volta che perdoniamo collaboriamo al progetto creativo di Dio e non interrompiamo il desiderio di vita che esce da Dio, desiderio che rimane interdetto quando la persona s’indurisce nelle proprie posizioni e non perdona. La vera spiritualità, dunque, quella che nasce dall’incontro con Gesù, conduce al perdono e alla misericordia e, quando questa è messa in circolo, rigenera la comunità.

Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità̀, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà̀ e misericordia (Sal 102). Facciamo nostre le parole del Salmo che ci ricorda l’azione del Signore nella nostra vita, che ci perdona e ci salva dalla fossa affinché abbiamo vita in abbondanza.

mercoledì 6 settembre 2023

OMELIA DOMENICA 10 SETTEMBRE 2023

 




XXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Ez 33,7-9; Sal 94; Rm 13,8-10; Mt 18,15-20

 

Paolo Cugini

 

La cultura post-moderna nella quale siamo immersi, incentiva ogni forma di individualismo come stile di vita proteso alla soddisfazione dei propri bisogni. Questo modo di pensare ha contaminato anche la religione. La devozione moderna, sganciata dai contenuti biblici, ha fomentato un modo di avvicinarsi al sacro tutto incentrato sul rapporto individuale con Dio, mettendo a disposizione una serie di artifici devozionali per meritarsi la salvezza. La comunità, in questa prospettiva, è un accessorio secondario, senza dubbio non importante per il raggiungimento della salvezza che è una questione di merito individuale. Il capitolo 18 del Vangelo di Matteo, che ci verrà proposto nelle prossime domeniche, ci allerta che, in realtà, in quella realtà che Gesù ci ha manifestato, la comunità di fratelli e sorelle è il luogo esistenziale in cui siamo chiamati a vivere l’adesione al suo Vangelo. È, infatti, nella comunità che sperimentiamo la sua presenza e, di conseguenza, le relazioni umane con i membri della comunità hanno un valore molto importante nella vita dei discepoli e delle discepole del Signore.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va' e ammoniscilo fra te e lui solo…

Nella comunità dovrebbe risplendere la comunione trinitaria: è questa la grande sfida. Per questo motivo, il Vangelo di oggi ci invita a sentire la responsabilità nei confronti di ogni fratello e sorella e, in modo particolare, quando qualcuno ci offende. In questi casi, è importante notare che Gesù non dice che chi ha offeso deve andare a chiedere scusa, ma il contrario. Chi ha ricevuto l’offesa da un membro della comunità, deve attivare un percorso che ricucisca al più presto lo strappo causato dalla colpa. C’è un itinerario che Gesù indica, che va dalla relazione personale, al coinvolgimento di qualche membro della comunità, sino al coinvolgimento dell’intera comunità. Questa indicazione è molto importante perché indica non solo che ogni persona nella comunità ha pari dignità, ma anche che ogni fratello e sorella deve sentire la responsabilità nei confronti di ogni membro della comunità. Del resto, è proprio questo il significato della scelta della prima lettura. Il profeta Ezechiele, infatti, insite sulla responsabilità nei confronti di coloro che fanno il male: Ma se tu avverti il malvagio della sua condotta perché si converta ed egli non si converte dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità, ma tu ti sarai salvato» (Ez 33,9). Abbiamo una responsabilità nei confronti delle sorelle e dei fratelli che il Signore ci pone accanto nella comunità e, per questo, non possiamo essere ommessi. Sono parole che dicono no all’individualismo devozionale, parole che sono in controtendenza alla cultura individualista post-moderna e, di conseguenza, indicano lo stile nuovo di vita della comunità cristiana che si riconosce nel nome di Gesù. In questa comunità deve essere visibile la presenza del Signore, che è pace, comunione, fraternità e sororità. Quando questa viene minacciata da relazioni problematiche e conflittuali tra i membri della comunità, che arrivano a ledere profondamente la comunione, tutti devono sentirsi responsabili per recuperare al più presto la pace.

Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro. Il Vangelo di Matteo inizia ricordandoci che Dio è in mezzo a noi (Mt 1,23) e termina allo stesso modo, quando Gesù rincuora i suoi al momento della sua dipartita dicendo loro: io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo (Mt 28, 20). Questo stesso annuncio Gesù lo ripete a metà del cammino: che cosa significa? Sono parole di consolazione e, allo stesso tempo, d’identità. La presenza misteriosa del Signore rivela il suo modo discreto di accompagnare la comunità dei discepoli e delle discepole ed è un incoraggiamento per tutti coloro che hanno fatto del Vangelo il punto di riferimento per le proprie scelte e per impostare uno stile di vita evangelico. Allo stesso tempo, le parole di Gesù ci ricordano che la sua presenza non è appena nell’istituzione religiosa, ma in ogni ambiente vitale in cui le persone, anche solo due, si riuniscono nel suo nome. Sono parole che incentivano la dimensione famigliare della comunità cristiana, il piccolo gruppo che cerca nel Vangelo ispirazione per il proprio cammino. Per sentire la presenza del Signore nella nostra vita, non abbiamo bisogno di aspettare le indicazioni da Roma, ma è sufficiente incontrarsi per ascoltare la parola di Gesù che illumina i nostri passi e le nostre scelte.

Facciamo nostre le parole di Paolo ascoltate nella seconda lettura, quando ci dice: qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: «Amerai il tuo prossimo come te stesso». La carità non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge, infatti, è la carità (Rom 13, 10). Amiamo i fratelli e le sorelle della comunità perché, quando questo avviene, manifestiamo a tutti la presenza del Signore in mezzo a noi, affinché il mondo si converta e creda.