ESERCIZI SPIRITUALI - GALEAZZA 2022
Venerdì 2 settembre, ore 15
Che
cosa voleva dire Gesù ai suoi discepoli e alle sue discepole quando ha espresso
questa frase? Che cosa voleva indicare con: questo?
C’è
una teoria interessante, anche se un po' pretenziosa, che è stata avanzata
qualche anno fa da uno dei maggiori studiosi in tema di eucarestia: Enrico Mazza[1]. Lo studioso sostiene che
l’affermazione: fate questo in memoria di me, non è di Gesù, ma di
Paolo. Il motivo di questa affermazione è che, se Gesù avesse pronunciato
davvero questa frase, l’eucarestia non avrebbe più una cadenza quotidiana o
settimanale, ma annuale. Gesù, infatti, ha pronunciato questa frase sul rito
pasquale che, come sappiamo, il popolo ebraico celebrava una volta all’anno.
Differente, è invece la situazione delle comunità fondate da paolo, che avevano
bisogno di un supporto rituale che giustificasse il loro incontrarsi spesso.
Il: fate questo in memoria di me era un comando perfetto con l’autorità
del Maestro che non avrebbe avuto bisogno di altri appigli per giustificare l’incontro.
Lasciando
da parte questa interessante ipotesi che, in ogni modo, ci porta molto lontano
dalle nostre riflessioni e considerazioni, possiamo individuare due
interpretazioni diverse, ma complementari che riflettono sulla frase in
questione. La prima e più immediata consiste nel tradurre in rito ciò che Gesù
ha detto e fatto nell’ultima cena. Di fatto, c’è stato un rapido processo, nella
chiesa delle origini, di sintesi e semplificazione ritualizzata dell’evento
dell’ultima cena. La prima comunità cristiana ha avvertito nelle parole: fate
questo in memoria di me, come un dato fondamentale del testamento
spirituale di Gesù, qualcosa da realizzare, dando forma al rito eucaristico che
riproduce parole e gesti realizzati da Gesù nell’ultima cena. È stata questa l’interpretazione
più immediata recepita dalla comunità: per ricordarsi di Lui, era necessario
riprodurre in forma di rito, la scena dell’ultima cena. Così troviamo
testimonianze della trasformazione in rito dell’ultima cena già nei testi del
Nuovo Testamento come 1 Cor 11, 23s; Atti 2,42s, che riporta il clima di
comunione della primissima comunità cristiana e, fra i fondamenti annovera anche
lo “spezzare il pane”, chiaro riferimento al rito eucaristico. Senza
dubbio, il punto di riferimento principale sono le narrazioni dei vangeli
sinottici, che riportano nei capitoli in cui si parla della passione e morte di
Gesù, la scena dell’ultima cena, che diventa una profezia della morte stessa
del maestro.
Anche
nei testi dei padri della Chiesa dei primi secoli viene descritto il modo che
la comunità avevano di celebrare il rito eucaristico. Ne parla la Didachè,
come anche la prima apologia di Giustino nel secondo secolo. C’è poi il famoso
testo che narra dell’eucarestia celebrata al tempo di Diocleziano da un gruppo
di persone che rischiano la vita pur di celebrare il giorno del Signore. Tutto
ciò per dire che questo primo livello d’interpretazione ha preso piede sin da
subito ed ha, dunque, un suo valore importante. Ci sarebbe da vedere come nei
secoli si è sviluppato questo rito e che derive ha preso; questo però, è il
lavoro degli storici e lo lasciamo fare a loro[2]. Da un punto di vista
storico è bene comprendere che uno degli sviluppi di questa interpretazione
letterale delle parole di Gesù che sto commentando, ha prodotto quello che in
termini della storia della liturgia viene definito ritualismo, rubricismo,
formalismo. Ad un certo punto del cammino della Chiesa, la perdita di contatto
con i dati biblici e patristici, porta a soffermare l’attenzione sugli aspetti
esterni del rito, portandoli al parossismo. Si arriva ad un certo punto che si
ritiene la messa valida solamente se il prete ripete in modo perfetto le parole
scritte sul messale e facendo i gesti e solo quelli che sono indicati nelle
rubriche liturgiche. Non solo. Per i fedeli laici, che non comprendono le
parole pronunciate dal prete in latino, la messa è valida dal momento in cui
riesce a vedere l’ostia consacrata. Si ritiene, allora, valida la messa se il
fedele riesce arrivare a partire dal canto del Santo che introduce la preghiera
eucaristica. Ciò significa, che, a quel tempo, per la validità dell’eucarestia,
l’ascolto della Parola non era importante. Questo tipo di pratica ha avuto
delle conseguenze disastrose sulla vita spirituale dei fedeli, Sempre in questo
filone d’interpretazione viene data enfasi agli abiti liturgici, alla loro
fastosità. È sempre in questo periodo che si perde il contatto con il popolo di
Dio e la messa viene identificata con la sua ritualizzazione formale che ha un
solo grande protagonista: il prete, l’unico che può accedere agli spazi sacri
dove avviene il rito. Questo filone di pensiero ha retto la liturgia
eucaristica per molti secoli ed è arrivato sino alle soglie del Vaticano II.
Anzi, si può proprio affermare, che il motivo della riforma liturgica, messo in
atto dal Movimento liturgico nato all’inizio del ‘900, consiste proprio nel
prendere le distanze dalla deriva formalistica in cui veniva ridotta
l’eucarestia, per recuperare la sua dimensione ecclesiale, spirituale ed
esistenziale. La spiritualità eucaristica sviluppata dalla liturgia rubricista
e formalista era tutta incentrata sull’individuo, sulle predisposizioni intime
per poter accedere all’eucaristia. La dimensione comunitaria e gli sviluppi
sulle varie dimensioni della vita erano completamente escluse. Il senso e il
valore dell’eucarestia era tuto ristretto alle tecniche di celebrazione da
parte del presbitero e, per questo motivo, si sviluppa una specifica
spiritualità del prete, che fa di tutto per potenziare la sua identità di uomo
di Dio, la sua unicità nell’accedere lo spazio sacro e nel gestire i riti
sacri. Lo sviluppo rubricista e formalistico della celebrazione eucaristica, ha
offerto un grandissimo servizio al potere temporale della Chiesa, permettendole
di gestire alla pari il rapporto con l’imperatore e i Principi. La maggior
parte delle vesti liturgiche utilizzate nell’eucarestia risentono di questo
processo temporale di una Chiesa preoccupata di contare nei giochi politici e
poco attenta a cogliere in profondità il senso delle parole di Gesù.
Accanto
a quello che abbiamo descritto, c’è un secondo filone interpretativo da
approfondire, anche perché l’eccessivo accento sul rito, in alcuni momenti
delicati della storia della Chiesa, ne ha offuscato il significato profondo.
Sta di fatto che, quando Gesù nell’ultima cena ha detto: fate questo in
memoria di me, non voleva semplicemente dire di ripetere i gesti e le
parole da lui pronunciate in quell’evento memorabile, ma anche e, forse,
soprattutto, imitare il suo esempio. In fin dei conti nell’ultima cena Gesù
consegna ai sui discepoli e discepole, con dei gesti altamente simbolici il
senso profondo della sua vita, che è stata come un corpo spezzato e un sangue
versato per loro. Quando Gesù dice: fate questo, vuole dire ai suoi
discepoli di imitarlo, di fare della loro vita un dono gratuito ai fratelli e
alle sorelle che incontreranno nel cammino, di cercare di costruire ponti di
pace, di non aver paura di denunciare le ingiustizie, proprio come ha fatto
Lui, il Maestro. Non a caso nel Vangelo di Giovanni al capitolo 13 dedicato
all’ultima cena non troviamo le parole che Gesù ha detto sul pane e sul vino,
ma l’episodio della lavanda dei piedi. Gli studiosi[3] giustificano questa
mancanza dal fatto che, alla fine del primo secolo, quando il Vangelo di
Giovanni viene redatto, la celebrazione eucaristica era già un dato assodato nella
comunità cristiana. Giovanni ha voluto riportare, invece, il gesto di Gesù che
spiega il senso dell’eucarestia, lo stile di vita che i discepoli e le
discepole devono vivere tra di loro, uno stile che viene reso possibile proprio
dall’alimento che Gesù offre, il suo corpo e il suo sangue.
Prima
della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da
questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino
alla fine (Gv 13,1). L’ultima cena nel Vangelo
di Giovanni inizia con questa presa di coscienza di Gesù, la consapevolezza che
era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre. La domanda che è
sottesa all’affermazione è sul come Gesù compie questo passaggio, come fa a
realizzarlo? Il mondo nel Vangelo di Giovanni indica la realtà che è in opposizione
a Dio e di conseguenza indica le dinamiche dell’odio, della competizione, che
non guarda in faccia a nessuno; logiche, dunque, che conosciamo molto bene
perché fanno parte della vita quotidiana che è mossa dall’istinto di
sopravvivenza, che non guarda in faccia a nessuno. Dall’altra parte, il Padre
indica la vita nell’amore gratuito e disinteressato, quel tipo di amore che
Gesù è venuto a manifestare con la sua stessa vita, con le sue scelte, le sue
parole, i suoi gesti. Ebbene, questo mondo del Padre si trovava chiuso,
impossibile da sperimentare. Così è percepita la dimensione spirituale
all’epoca di Gesù, che raccoglie non solo la riflessione profetica, ma anche la
saggezza popolare espressa ad esempio, dai salmi. Il cielo è chiuso perché
l’umanità non riesce a vivere gli insegnamenti del Padre. Ebbene Gesù realizza
le parole del salmista che afferma: abbassò i cieli e discese. Gesù,
sappiamo bene, che non discese solamente, ma ritornò al Padre attraverso la
Pasqua, vale a dire, il passaggio da questo mondo al Padre e, in questo modo,
aprì un varco non solo per sé, ma per tutta l’umanità. Il Figlio è riuscito a
compire questo passaggio attraverso una vita di amore gratuito e
disinteressato, che si è concretizzato nel dono di sé. È proprio questa idea
che viene espressa nel versetto 1: avendo amato i suoi che erano nel mondo,
li amò fino alla fine. Gesù ama sino alla fine quelle persone con cui
ha condiviso la sua esistenza. Tutta a grandezza di Gesù sta proprio in questo,
nell’aver donato, speso la propria vita per un gruppo di persone semplici. Se,
infatti, andiamo ad approfondire la conoscenza degli amici e delle amiche di
Gesù, non troviamo tra loro personaggi famosi del tempo, persone ricche,
altolocate. Tra coloro che Gesù ha scelto come discepoli e discepole ci sono
pescatori, esattori delle tasse (molto mal visti dai giudei), persone malate: è
con loro che Gesù ha vissuto. Ancora. Come sappiamo dalle narrazioni dei
vangeli Gesù era a conoscenza che Giuda l’avrebbe tradito e che i suoi
discepoli e, uno fra tutti, Pietro che Gesù aveva scelto come loro capo,
l’avrebbero rinnegato. Ebbene, Gesù ha amato sino alla fine, sino alla morte
proprio loro: è questa la cosa incredibile che ci deve fare riflettere. L’amore
di Gesù per i suoi, è un amore concreto, nel senso che non è una finta: lo
dimostra la sua croce. Ha amato i suoi senza pretendere il contraccambio: un
amore totalmente gratuito, disinteressato. Insisto su questo aspetto perché è
proprio questo tipo di amore, questa qualità di amore che troviamo dentro
l’ostia che mangiamo alla domenica. Ci cibiamo di questo amore per fare in modo
di amare in quel modo disinteressato e gratuito le persone che il Padre ci ha
messo accanto. Cibarci del copro di Cristo significa il: fare questo, l’amare
come Lui ha amato. Gesù non solo ci offre l’esempio di questo nuovo stile di
vita, ma ci fornisce anche l’alimento. L’eucarestia ci aiuta a vincere
l’illusione, che poi alla distanza genera frustrazioni, insoddisfazioni, perché
vorremmo qualcosa di diverso, vorremmo che la nostra vita e le persone che
abbiamo accanto fossero come quelle che vediamo sui social, sempre sorridenti,
felici, pieni di soldi, sempre in giro per il mondo. L’eucarestia ci permette
di vivere con i piedi per terra e scoprire che tutto l’amore di Dio si trova in
quel pezzettino di umanità che Lui ci ha donato; tutto l’amore di Dio nella
concretezza delle persone che abbiamo accanto. Per questo possiamo dire, come
diceva Sant’Agostino, che l’eucarestia è come un collirio, che ci apre gli
occhi, ci permette di vedere in modo nuovo la realtà, vale a dire, la bellezza
di Dio nei volti che abbiamo accanto. L’eucarestia, allora, è il più forte
antidoto contro le illusioni, che generano frustrazioni e malessere.
Tornado
al nostro testo di Giovanni 13, proviamo a riflettere sui versetti successivi,
per comprendere sempre meglio il mistero dell’eucarestia. Gesù, sapendo che
il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio
ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se
lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a
lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era
cinto (Gv 13, 3-5).
Gesù
alla fine della vita (quand’è che Gesù ha la percezione di essere il Figlio di
Dio?), così come ci dice il Vangelo di Giovanni, ha la consapevolezza che il
Padre aveva posto tutto nelle sue mani. Che cosa fa con questo? Gesù vive
costantemente nella logica dell’amore gratuito, nell’intenza relazione
spirituale con il Padre: quello che Gesù compie è in questa linea. Non c’è,
dunque, una ricerca di se stesso, un tentativo di uscire dal dramma che lo
attende, ma ancora una volta pensa ai suoi discepoli, alle sue discepole, vuole
porre un gesto chiaro di quello che è l’identità specifica dei discepoli. Il
gesto che Gesù compie è descritto da una serie di sette verbi, che potremmo
definire i verbi dell’amore. Sono verbi che dicono un dato importante: Gesù sa
benissimo quello che sta facendo, non è un’improvvisata. Si alzò da tavola:
la lavanda dei piedi è una conseguenza del pasto. Ciò significa che
l’eucarestia porta al servizio dei fratelli e delle sorelle. Depose le
vesti: che cosa significa questo gesto? (approfondire). Prese un
asciugamano e se lo cinse attorno alla vita (). Poi versò dell’acqua nel
catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con
l’asciugamano di cui si era cinto. Che cos’ha voluto dire Gesù con questo
gesto, che è la sintesi della sua stessa vita? Che la relazione con i fratelli
e le sorelle non si misura dalle cose, dalla posizione. Vuole dire che c’è una
posizione privilegiata che permette di cogliere il senso dell’esistenza: questa
posizione è il servizio disinteressato. Prendersi il tempo per asciugare i
piedi alle persone che ci sono attorno significa entrare in un’altra
dimensione, che è la dimensione dell’amore e non delle cose. Fate questo in
memoria di me: vivete anche voi per gli altri come io ho vissuto per voi.
Fate della vostra vita un dono gratuito e disinteressato e lo potete fare non
solo perché ci ha dato l’esempio, ma perché ci dona l’alimento che è Lui stesso
e, se accolto con fede, può metterci in grado di vivere come Lui ha vissuto. Lo
stesso si può dire anche per il brano delle beatitudini, sia nella redazione di
Matteo che quella di Luca. Fate questo in memoria di me, in questa prospettiva
significa cercate l’umiltà, la pace; cercate la giustizia e sappiate perdonare
i fratelli e le sorelle, così come Gesù ha fatto. Lo stesso discorso vale anche
per il brano in cui Gesù riprende i discepoli perché tra di loro discutevano fra
chi fosse il più grande. Voi sapete che coloro che sono ritenuti capi delle
nazioni le dominano, e i loro grandi esercitano su di esse il potere. Fra
voi però non è così; ma chi vuol essere grande tra voi si farà vostro
servitore, e chi vuol essere il primo tra voi sarà il servo di
tutti. Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per
servire e dare la propria vita in riscatto per molti (Mc 10,43-45). C’è
uno stile nuovo che Gesù è venuto a manifestare, uno stile nuovo di vivere nel
mondo, non più determinato dalla ricerca della propria affermazione personale a
scapito degli altri ma, al contrario, guidata dal desiderio di servire i
fratelli e le sorelle. Gesù nell’ultima cena dice: fate questo,
mettetevi a servizio gli uni degli altri, mettete al centro della vostra
comunità i poveri, coloro che sono esclusi.
I
due modi d’interpretare il comandamento di Gesù: fate questo, così come lo
abbiamo analizzato, anche se le interpretazioni sono interdipendenti, hanno
genato nei secoli spiritualità molto differenti tra di loro. La prima, quella
che riproduce ritualmente i gesti e le parole dell’ultima cena, nelle sue forme
più rigide ha riprodotto una spiritualità che lega il cammino di santità alla
partecipazione formale del rito. In questa prospettiva, valgono gli elementi
estetici, formali che scadono spesso nel rubricismo. L’attenzione alle parole
esatte scritte nel messale, ai gesti da ripetere così com’è indicato nel testo,
hanno formato intere generazioni di presbiteri ossessionati dalla forma,
promovendo un modello di liturgia e di spiritualità in linea con questo modello
interpretativo. Caratteristica di questa spiritualità ritualista è lo
scollamento della fede con la vita e, di conseguenza, lo scarso legame con la
vita della comunità. Inoltre, questo stile tradizionalista e rigido tende a
promuovere l’appartenenza a gruppi chiusi, autoreferenziali, molto negativi con
il mondo circostante.
Dall’altra
parte, la spiritualità che sorge dall’interpretazione che evidenzia lo stile di
vita di Gesù, tende a vivere l’eucarestia come alimento capace di dare forza
per coloro che intendono collaborare alla realizzazione del Regno. Senza dubbio
questa seconda interpretazione è più in linea con la proposta evangelica. Il
suo limite è la radicalizzazione che tende a sminuire il contributo della
tradizione della Chiesa sulle modalità della celebrazione del rito eucaristico,
paventando un atteggiamento di snobismo e poca cura con lo stile liturgico.
[1] MAZZA, E. Il Nuovo testamento e
la cena del Signore. Bologna: EDB, 2017.
[2] La ricerca storica più
significativa e interessante dal punto di vista scientifico è quella realizzata
da Enrico Mazza, che ha ricostruito la storia delle preghiere eucaristiche,
mostrando come i mutamenti culturali influiscono sul modo di celebrare l’eucarestia
nella Chiesa. Cfr.: MAZZA, E. Le odierne preghiere eucaristiche. Bologna:
EDB, 2014; ID, La preghiera eucaristica. Genesi del rito e sviluppo dell’interpretazione.
Bologna: EDB, 2005.
[3] Cfr. DODD, C.H. L’interpretazione
del quarto Vangelo. Brescia: Paideia, 1973; BROWN, R.E. Giovanni. Assisi:
Cittadella, 2014.
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