lunedì 25 luglio 2022

UN TESORO IN VASI DI CRETA



 Paolo Cugini

Noi abbiamo un tesoro in vasi di creta, affinché appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi. In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo (2 Cor 4, 7-9).

Riflessione realista di Paolo sulla condizione umana del discepolo. Il dono dell’amore di Dio che viene riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo (cfr. Rom 5,5), è posto in un contesto di grande fragilità, che è la nostra umanità. C’è un dono immenso che ci viene donato e che corre costantemente il rischio di essere perduto, perché siamo fragili, delicati, perché la nostra umanità è attratta dal negativo e fa fatica a rimanere fedele. Vivere conforme al dono ricevuto provoca tensioni interne ed esterne. È certo, però, che questo dono straordinario ricevuto da Dio, quando è accolto con fede, pur nella consapevolezza della nostra fragilità, non rimane inerme, ma produce frutto di giustizia, pace, misericordia, condivisione. Il dono ricevuto ci rende capaci di cose straordinarie, che esulano dalla logica fragile della nostra umanità. Per questo diventa visibile nella vita del discepolo che è intervenuto qualcosa di straordinario che gli ha permesso di compiere pensieri e azioni che non possono essere il frutto della propria umanità. In questo modo il discepolo, la discepola, diviene segno della presenza dell’amore di Dio nel mondo.

Si avvicinò a Gesù la madre dei figli di Zebedeo con i suoi figli e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le disse: «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Di' che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno». Rispose Gesù: «Voi non sapete quello che chiedete… Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Come il Figlio dell'uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti (Mt 20, 20-2. 27-39).

Questi versetti di Matteo spiegano il contenuto delle affermazioni di Paolo commentate poco sopra. Il vaso di creta della nostra umanità si manifesta con il desiderio di prevalere sugli altri, con l’ambizione umana che non tiene conto del cammino dei fratelli e delle sorelle. C’è un desiderio di grandezza modellato dal nostro istinto di sopravvivenza, che ci spinge inconsapevolmente a voler emergere a scapito di chi ci sta attorno. La richiesta della madre dei figli di Zebedeo esprime questa realtà umana e, in questa prospettiva, rientra in una logica umana, di sopravvivenza. Per questo provoca l’indignazione degli altri discepoli, perché anche loro coltivano nel proprio cuore le stesse ambizioni di supremazia sugli altri.  Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. Gesù mostra ai discepoli la straordinaria novità del Vangelo, che va dalla parte opposta dell’umanità spinta dall’istinto di sopravvivenza. C’è un principio di vita nuova che Gesù pone dentro la storia: è il principio dell’amore, che si manifesta nel desiderio che l’altro viva. Nella logica del Regno di Dio instaurato da Cristo è primo chi si pone a servizio degli altri, è grande che si umilia. L’esempio di questa nuova umanità è lo stesso Gesù: Come il Figlio dell'uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti. Il frutto, allora, del dono di amore che riceviamo da Dio nei sacramenti, è che rende capace la nostra umanità di passare da una situazione di egoismo per una di altruismo; dalla chiusura in noi stessi, all’apertura verso gli altri. Quando questo avviene significa che il Regno di Dio è in mezzo a noi, in noi.

 

domenica 24 luglio 2022

QUELLO CHE HAI ACCUMULATO DI CHI SARA'?

 




XVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C

Lc 12,13-21

Paolo Cugini

 

La dimensione spirituale della vita se no ha una ripercussione, una ricaduta sulla vita materiale, è destinata ad inaridire. Nell’insegnamento di Gesù il legame tra fede e vita, tra spirituale e materiale è visibile. La relazione d’amore con il Padre, diviene visibile nelle relazioni gratuite e disinteressate che Gesù instaura con le persone che incontra. L’ascolto della Parola, che orienta la vita dei fedeli ad essere portatori dell’immagine di Dio, divine visibile nell’attenzione ai poveri. Infine, la liturgia celebrata nel tempio, si trasforma nella vita fraterna che conduce a vedere negli altri dei fratelli e delle sorelle. Nel Vangelo di oggi Gesù ci mostra le conseguenze negative di una vita spirituale che non ha alcuna ricaduta sulla vita reale e rimane richiusa tra le pareti del sacro, producendo il contrario di quello che aspira, morte invece di vita.

«Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».

Il valore della vita di una persona non dipende da quello che ha, ma da quello che dà. Questo è in sintesi il messaggio riassuntivo del vangelo di oggi, che è un invito a non lasciarsi abbagliare dalle illusioni della ricchezza. Quello, infatti, che si trattiene e si accumula non si possiede, ma ci possiede. Gesù nel Vangelo di oggi viene intrattenuto sul tema dell’eredità. La risposta di Gesù è categorica. L’eredità è un frutto avvelenato, perché chi lascia un’eredità significa che nella sua vita ha accumulato e l’accumulo è la conseguenza di una scelta egoistica. Si pensa che, lasciando in eredità qualcosa per i posteri si fa del bene, in realtà si consegna qualcosa di negativo che produce divisioni. L’eredità è dunque, il simbolo della cupidigia, di una vita concentrata si se stessi, senza la minima attenzione nei confronti degli altri, soprattutto i più poveri.  Ciò che si ha è per condividere. Sotteso al discorso c’è l’idea che l’accumulo, frutto della cupidigia, sia una forma di idolatria, che sostituisce Dio.

Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante… Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti?

Il ricco è un malato terminale di egoismo e per lui non c’è salvezza. Può sembrare un’affermazione dura, ma il contenuto è ripreso in altri testi del Vangelo. Ad esempio, la narrazione dell’incontro di Gesù con il giovane ricco. Il finale di questa storia Gesù afferma perentoriamente che difficilmente un ricco entrerà nel regno di Dio. Nella parabola di oggi Gesù cerca di spiegare la struttura di pensiero di un ricco, la logica esistenziale sottesa all’accumulo. Come pensa la persona ricca? Pensa esclusivamente per sé e non ha un minimo di attenzione per gli altri e, tra questi, men che meno i poveri. Ai ricchi tutto gli è dovuto. Gesù descrive l’ingordigia, la cupidigia. Nella mente del ricco, nel suo raziocinio, se così lo si può chiamare, non c’è un minimo un accenno alla solidarietà, perché il ricco pensa solo a sé stesso: è il prototipo dell’egoismo. Il personaggio della parabola è già ricco e avendo un raccolto abbondante, non pensa di condividere con i più poveri, visto che lui stesso non avrebbe bisogno, ma, chiuso nel suo egoismo, pensa a come aumentare i suoi magazzini. È importante sottolineare che al tempo di Gesù il ricco era considerato una persona benedetta da Dio, mentre il povero era una persona punita. Gesù smaschera questo pensiero ipocrita, tipico della religione formale, che mantiene separati la fede dalla vita, il tempio dalla piazza, il sacro dal profano. Questa divisione non può che produrre un’esistenza schizofrenica, per cui nel tempio adori il Dio creatore della vita e poi nella vita quotidiana, il ricco toglie la possibilità di vita ai poveri, accumulando beni per sé stesso.

Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”.

Che cosa pensa Gesù dei ricci, che passano tutta la vita accumulando beni e denaro? Che sono stolti. L’espressione che Gesù utilizza è un po' attenuata dalla traduzione che sarebbe: scemo! Chi accumula pensando solo a sé stesso è uno scemo, perché non riesce a pensare e a cogliere la propria stessa vita in un orizzonte che vada al di là del proprio ombelico, della propria storia temporale. Il ricco è, nella prospettiva del Vangelo, una persona che non sa ragionare, è incapace di pensare: è stolto, scemo. Nella parabola narrata da Gesù, il ricco è scemo perché non riesce a godere di quello che ha accumulato, perché la ricchezza ha annebbiato la sua mente.

Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».

La domanda sottesa a questa affermazione perentoria e significativa di Gesù, è la seguente: come ci si arricchisce presso Dio? Dando agli altri. Negli Atti degli Apostoli, sempre scritti da Luca, si afferma che c’è più gioia nel dare che nel ricevere. Il segreto evangelico della felicità è che non la si misura in quello che si ha e si accumula, ma in quello che si dona e si condivide generosamente con chi ne ha bisogno. Questo è il Vangelo! È questo messaggio che dobbiamo annunciare al mondo non solo con le parole, ma attraverso delle scelte concrete di condivisione e di solidarietà con i più poveri. 

venerdì 22 luglio 2022

QUANDO PREGATE DITE: PADRE

 



XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C

Lc 11,1-13

 

Paolo Cugini

 

Insegnare a pregare è uno dei capisaldi del cammino spirituali, del rapporto tra Maestro e discepolo. Del resto, la richiesta di uno dei discepoli prende proprio spunto dall’esperienza dei discepoli di Giovanni Battista. Siamo quindi, nel contesto del discepolato, di coloro che sono alla ricerca di un senso della vita ed hanno già operato delle scelte concrete, hanno già posto la loro vita nella direzione per trovare un cammino spirituale. Altro dato importante, sempre a livello d‘introduzione al tema è che, con la preghiera, si entra nell’ambito di una richiesta che dice di un bisogno di natura spirituale, che non soddisfa, dunque, esigenze materiali. Sono sottolineature che orientano la lettura e l’interpretazione del testo nel nostro contesto culturale, che fa fatica non solo a ritenere importante la dimensione spirituale, ma anche a ritenere di avere bisogno di qualcosa e di qualcuno.

Gesù si trovava in un luogo a pregare. Gesù pregava e, nel Vangelo di Luca troviamo spesso questa attitudine di Gesù. Gesù quando prega non si trova mai nel tempio, nella sinagoga, in cui lui va ad insegnare, ma in spazi isolati, all’aperto, a contatto con la natura. Del resto, ce lo dirà nel Vangelo di Giovanni che, i veri adoratori, adoreranno il Padre in Spirito e verità, che non c’è bisogno di un luogo specifico. Recuperare questa dimensione personale e spirituale della preghiera è importante, perché ci aiuta ad uscire dalla logica della formula per entrare in quella della relazione.

Quando pregate, dite: "Padre. Gesù non vuole degli adulatori e per questo non vuole che ci si diriga a Lui con dei titoli altisonanti come: altissimo, eccelso, onnipotente, onnisciente, perché sono titoli che non rivelano il vero suo volto e sono frutto della ricerca filosofica e sapienziale, e non del dono ricevuto da Lui. Chiamare Dio con il titolo di Padre significa che la relazione che Dio desidera instaurare con noi è di paternità e, quindi, filiale. Dio non vuole dei devoti, ma dei figli. Padre, nella cultura dell’epoca, è colui che trasmette al figlio tutta la propria vita e quindi si riconosce in Dio Padre la fonte della vita.

Sia santificato il tuo nome. Come si comprende dal testo, più che una formula, la preghiera che Gesù insegna ai discepoli indica un cammino, uno stile di vita. Padre, sia santificato il tuo nome. Il verbo è all’aoristo passivo e ciò significa che il Padre viene santificato con lo stile di vita di chi lo invoca. C’è un modo di vivere che santifica il nome del Padre, il quale è santificato, riconosciuto come tale, quando il discepolo vive ciò che ascolta. L’inizio della preghiera che Gesù insegna, è una richiesta di aiuto del discepolo, della discepola per il cammino in cui è entrato/a.

venga il tuo regno. Non si tratta di uno spazio politico, di un’esigenza conforme alle logiche del mondo. Il Regno del Padre è stato reso visibile dall’azione del Figlio che ha, come dice il salmo; aperto i cieli ed è sceso. Gesù ha portato il cielo sulla terra. Di che cosa si tratta, allora? Come si è manifestato il Regno di Dio in Gesù Cristo? Attraverso una vita di amore disinteressato e gratuito, visibile nelle relazioni di fiducia che ha saputo instaurare. Le qualità del regno di Dio sono la giustizia, la pace, l’uguaglianza, tra le altre. Chiedere nella preghiera, che venga il regno di Dio, significa non una proiezione dopo la morte, ma il desiderio di diventare protagonisti di questo regno, collaborando in ogni momento alla sua realizzazione.

dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano. Per questo motivo, per continuare nella nostra vita quotidiana l’opera iniziata da Gesù, abbiamo bisogno di un alimento che ci sostenga. Questo pane che ci sostiene nella vita quotidiana è Gesù stesso, la sua Parola di vita che ci alimenta e che assimiliamo affinché giungiamo a pensare e a discernere con le stesse modalità di Gesù. Il pane quotidiano che ci aiuta ad uscire dalle logiche del mondo, è la nostra relazione con i poveri, perché in loro vediamo Gesù e con loro e per loro condividiamo i nostri beni. Infine, è l’eucarestia il nostro alimento, perché è proprio nel contesto eucaristico che Gesù si dona come alimento per trasformare tutta la nostra vita nella sua.

e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore. Qui si tratta di debiti materiali. La comunità di Cristo è una comunità di fratelli e sorelle, che condividono ciò che hanno. Gesù lega la richiesta del perdono dei peccati non con un atto cultuale, ma in relazione allo stile di vita della comunità cristiana che, in nome dell’amore ricevuto e dell’esempio di Gesù, ha imparato a condividere e a perdonare – condonare – i debiti materiali dei fratelli e delle sorelle. Ciò significa che la richiesta del perdono dei peccati, implica uno stile di vita nella comunità in cui condividiamo le nostre cose materiali, al punto da condonare i debiti che qualcuno ha nei nostri confronti.

Non abbandonarci nella tentazione. A che cosa si riferisce Gesù quando dice queste parole? Come coglie la comunità questa indicazione? Di che prova si tratta? Probabilmente il riferimento storico è la prova della persecuzione, molto forte nei confronti dei cristiani nei primissimi decenni dopo la morte e resurrezione di Cristo. Tentazione che ha visto come prime vittime i discepoli e, tra loro, il capo, vale a dire Pietro. È la tentazione di abbandonare il campo quando ci sentiamo soli nella testimonianza e andiamo in confusione, perché ci sentiamo in minoranza, come abbandonati. La richiesta della preghiera è di poter continuare a sentire la presenza del Signore anche in questi momenti di solitudine, per vincere la tentazione di mollare tutto, di uscire dalla comunità.

mercoledì 13 luglio 2022

MARTA E MARIA

 



XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C

 

Lc 10,38-42

Paolo Cugini

In quel tempo, mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta invece era distolta per i molti servizi. Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».

 

Ci sono dei brani nel vangelo che sono come delle icone, la cui forza comunicativa rimane impressa immediatamente nell’anima. Uno di questi brani è senza dubbio il testo di oggi che narra una vicenda delle sorelle Marta e Maria, come un dittico che provoca immediatamente la riflessione di chiunque lo ascolta. Da una parte c’è Marta che si dà da fare, che era distolta per i molti servizi.  Dall’altra c’è la sorella Maria, in un atteggiamento opposto a quello di Marta. Maria, infatti, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Che cosa Gesù ha voluto comunicare con la differenza di queste sorelle? Che cos’ha voluto esprimere con quell’affermazione categorica espressa nel versetto finale che dice ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta». Essendo un brano famoso, molte sono state le interpretazioni. Qui ne voglio sottolineare solamente due.

La prima, che è anche la più immediata, vede in Maria il simbolo della vita contemplativa, tutta dedica alla preghiera, mentre in Marta il simbolo della vita attiva, di coloro che nella vita s’immergono nell’azione, dimentichi di ogni spunto riflessivo. In realtà, ascoltando con attenzione il testo, ci si accorge che non si tratta di una contrapposizione netta, un’esclusione della vita attiva a favore di quella contemplativa. Ci troviamo, infatti, all’interno della cultura semitica e, ogni volta che viene affermata una contrapposizione di tipo escludente, in realtà di tratta di sottolineare una priorità. L’affermazione Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta», non significa un’esclusione dello stile di vita attiva di Marta, ma l’indicazione di una priorità, di un ordine da porre nella vita. Ha senso e significato un’azione che è frutto di un momento previo riflessivo. Il rischio, infatti, nella vita, consiste nel lasciarsi travolgere dalle attività, dalle tante cose da fare, che mettono in serio pericolo la vita di fede. Quando ci lasciamo prendere la mano dai problemi e rispondiamo in modo immediato volendo risolvere tutto e subito, rischiamo di perdere di vista ciò che è essenziale e non può essere messo da parte. Se volgiamo parafrasare l’indicazione di Gesù potremmo dire che non possiamo permetterci di iniziare la giornata immergendoci immediatamente nelle cose da fare. Tutto va anticipato con l’ascolto attento della Parola, un ascolto che poi si deve tradurre nel pensiero di Gesù che ci aiuta a discernere i problemi che affrontiamo lungo la giornata a partire da ciò che abbiamo ascoltato la mattina. In questo modo le azioni, le attività che svolgeremo durante il giorno trovano un nesso, un filo conduttore, perché mosse da un’unica ispirazione. Quando l’azione è fondata dall’ascolto attento della Parola diviene materiale per ulteriori riflessioni. La parte migliore scelta da Maria è il mondo con cui iniziare la giornata affinché tutto prenda sapore dall’ascolto della Parola del Signore.

La seconda interpretazione è meno immediata e più ricercata, in un certo senso, più sofisticata, tiene maggiormente conto della cultura semitica in cui avviene la scena e anche del contesto letterario proposto dall’evangelista Luca. Ci sono alcuni dettagli iniziali che sono importanti da sottolineare per meglio comprendere il messaggio di Gesù. Mentre erano in cammino, Gesù entrò, sono in cammino ma solo Gesù entra, perché i discepoli non sembrano ancora in grado di comprendere la lezione che Gesù andrà ad insegnare. Il testo continua affermando che Gesù entrò in un villaggio. Tutte le volte che nei vangeli troviamo l’indicazione geografica del villaggio è un avvertimento per indicare che Gesù incontrerà resistenza, incomprensione e ostilità nei confronti della novità che Lui propone. Il villaggio è il luogo attaccato alla tradizione, che vive di ciò che è avvenuto nel passato e che afferma perché cambiare se si è sempre fatto così? Maria si mette nella posizione del discepolo verso il Maestro. Sedersi ai piedi di qualcuno significa riconoscerlo come maestro. L’atteggiamento di Maria non è di adorazione, ma di discepolo. Maria è una donna e, secondo la tradizione dei Padri, deve stare in cucina, dovrebbe rimanere invisibile e non esporsi. Le parole della Legge non possono essere insegnate ad una donna, come dice il Talmud. Marta rappresenta la tradizione, ed è tutta centrata su sé stessa: mia sorella… mi aiuti. Marta non sopporta che la sorella abbia trasgredito alla tradizione e chiede a Gesù di ricacciarla nel luogo dove la tradizione ha sempre posto le donne. Gesù, invece, approva la scelta di Maria. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta». Che cos’è che non può essere tolta a Maria? Lei ha scelto la libertà attraverso la trasgressione delle regole della tradizione ed è quindi frutto di una scelta personale. Questa conquista personale non può essere tolta. Gesù invita, dunque, a seguire l’esempio di Maria e scegliere il cammino della libertà, rompendo con la tradizione patriarcale e misogina dei padri.

 

sabato 9 luglio 2022

LA VERA RELIGIONE

 



XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C

Paolo Cugini

 

 

Che cosa significa essere religiosi? Quand’è che una persona è religiosa nel senso proposto dal Vangelo? Il brano di oggi ci aiuta a trovare la risposta.

 

In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?».

C’è prima di tutto una domanda di senso che provoca il cammino di sequela al Signore: senza questa non si muove nulla. Forse è questo il principale problema spirituale oggi: manca la domanda di senso, perché le risposte ai grandi problemi della vita vengono offerte dal mondo della materia, dal consumismo. Il problema pastorale più urgente può essere formulato con questa domanda: come suscitare una domanda di senso nell’attuale congiuntura socio-esistenziale?

Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?».

La Parola di Dio offre, senza dubbio, delle risposte ma, come afferma Gesù, non basta leggere, dipende da come leggiamo. È la questione dell’interpretazione che manifesta una maturità nel cammino. Può capire che la Parola va interpretata chi è uscito dalla fase infantile della vita spirituale, chi si è accorto che la Parola di Dio è stata affidata a uomini e donne vissuti in un particolare contesto culturale e sociale e che, di conseguenza, per farla parlare, dev’essere interpretata. Allo stesso tempo, l’interpretazione chiama in causa dei criteri, per non correre il rischio di cadere nelle strade scivolose dell’individualismo o del relativismo. Esiste, allora, un criterio d’interpretazione della Parola che fornisce la chiave di lettura al testo biblico?

Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai» … Va e anche tu fa così.

 Dal brano di Vangelo che è stato proposto sembra che il criterio ermeneutico per eccellenza sia l’amore vissuto nella relazione con il prossimo. Non ci sono delle dottrine da obbedire, ma un precetto da vivere personalmente. È questo il principio ermeneutico che apre il significato della Parola che, prima di essere uno sforzo di elaborazioni di concetti, lo si trova nel vissuto della vita quotidiana.

Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti… Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione.

È Gesù stesso ad offrire la spiegazione del problema posto dal dottore della Legge con una narrazione che è uno spaccato della vota quotidiana. C’è un uomo che incappa nei briganti e viene derubato e malmenato: necessita di un soccorso. Gesù fa scorrere accanto a questo sfortunato tre personaggi: due appartenenti al mondo religioso e uno considerato con ostilità dal popolo ebraico. Il sacerdote ed il levita dimostrano una totale mancanza di compassione nei confronti della persona bisognosa. Come mai Gesù utilizza questi personaggi? Che cosa ci vuole dire? È una critica durissima alla religione del tempio, fatta di precetti e di prescrizioni che rendono l’uomo religioso autoreferenziale e insensibile ai problemi egli altri. Gesù sferra un durissimo attacco a quella religione che, invece di umanizzare l’uomo, di toccare e trasformare il cuore rendendolo sensibile lo indurisce e lo chiude nel suo orgoglio. La verità dell’autenticità di una religione la si misura nel rapporto con i poveri, i bisognosi, gli esclusi, i discriminati. Dinnanzi all’umanità messa ai margini dalla società, l’uomo religioso sente compassione, di prende a cuore le persone in difficoltà, le aiuta a liberarsi dall’indigenza. Del resto, è lo stesso Gesù che s’identifica con i bisognosi quando dirà: ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero nudo e mi avete vestito; ero straniero e mi avete accolto (cfr. Mt 25,31s). Ogni parola o atteggiamento di disprezzo verso i poveri e gli indigenti manifesta il disprezzo verso Dio e a suo Figlio che si è manifestato Lui stesso come povero.

Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. 

Non c’è un sentimento di pena che muove il Samaritano, ma di compassione. La pena è un sentimento dell’anima che al massimo si muove a fare l’elemosina, lasciando il povero al suo posto. La compassione, che sorge da un cuore ripieno dell’amore di Dio, si prende cura del povero, mette in atto un cammino che metta in grado la persona povera a recuperare la dignità. Altro aspetto della compassione è che sa coinvolgere la comunità a prendersi cura del povero affinché possa riacquistare dignità.

La vera religione, dunque, è quella che produce un movimento di compassione nel cuore del fedele, che lo porta a prendersi cura dei poveri che incontra sul proprio cammino. 

Nel Vangelo che abbiamo ascoltato oggi, Gesù opera un processo di smascheramento nei confronti dei rappresentanti della religione del tempio, mostrandone le ipocrisie e i secondi fini di quel falso cammino che provoca l’arroganza dell’uomo, la durezza di cuore. Nei capitoli precedenti Gesù aveva già messo in atto una sorta di decostruzione della religione del tempio toccando e smascherando la fallacia dei suoi cardini principali, vale a dire, il digiuno, la logica del puro e dell’impuro e il comandamento principale su cui si regge tutta la Torah: il sabato. Oggi Gesù dà il colpo di grazia, perché, senza mezzi termini e giri di parole accusa i leviti e i sacerdoti, che sono i maggiori rappresentanti della religione del tempio, di essere degli ipocriti dal cuore duro, incapaci di sentire compassione per un moribondo. A che cosa serve la religione, sembra dire Gesù, se ci rende insensibili? A che cosa serve l’obbedienza ai precetti religiosi se poi abbiamo un atteggiamento sprezzante nei confronti dei poveri, o parole ricolme di razzismo? Come si fa a non capire che c’è qualcosa di marcio in questa religione? I poveri, infatti, gli esclusi, gli emarginati, i perseguitati sono i protetti del Signore, perché è venuto per dare dignità a tutti. La vera religione non può essere identificata nel modo in cui ci inginocchiamo, o nelle formule che diciamo, ma nella compassione che proviamo per i poveri, gli afflitti, i bisognosi. 

sabato 2 luglio 2022

DISCEPOLI E MISSIONARI




 XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C

Paolo Cugini

 

 

Chi è che nella chiesa ha il compito di evangelizzare? Che percorso formativo è necessario per essere idonei a tanto? Sono queste alcune domande che soggiacciono al testo di oggi. L’annuncio del Regno di Dio, che Gesù inaugura, è affidato ai discepoli e alle discepole, a coloro, cioè, che hanno scelto di stare con Gesù, accompagnarlo nella usa missione, per conoscerlo, ascoltarlo. Può parlare di Gesù al mondo colui, colei che si è sentito avvolto dal suo amore al punto di decidersi a seguirlo, rinunciando al resto. È questo il primo aspetto fondamentale del discorso missionario. Si diventa collaboratori del Regno se si è entrati in un percorso di discepolato. Ciò significa che, prima di tutto, i missionari sono dei discepoli.

Andate.

Colpisce la fiducia che Gesù dà ai suoi discepoli e discepole. Sono a metà di un percorso che oggi definiremmo formativo e Gesù non si fa scrupoli di inviarli a due a due nella mischia. Non ha paura di bruciarli, ma si fida di loro. È il dono dell’assenza, che permette ai discepoli di divenire maestri. È nell’assenza del padre e della madre che il figlio può sperimentare se stesso, ha la possibilità di mettere in atto la propria creatività. Il dono dell’assenza, infatti, stimola il soggetto, che non può più contare sulla figura di riferimento, ma che è obbligato ad elaborare personalmente il materiale appreso. Si diventa maestri quando si ha un padre e una madre che fanno il dono dell’assenza ai figli, quando pongono fiducia in lui, gli permettono, ad un certo punto del percorso, d’imparare a camminare con le proprie gambe.

 lì inviò a due a due davanti a sé.

Il primo effetto del discepolato dietro al Signore è che ci toglie dalla solitudine, dalla condanna di camminare da soli sulle strade della vita. Ecco perché, anche la missione, non è una scelta privata di qualche avventuriero, ma un mandato comunitario. Il vangelo nasce da un’esperienza di comunità ed è come comunità che si annuncia il Vangelo. Si va insieme a qualcuno, qualcuna, perché ogni persona è creata da Dio non per vivere da sola, ma con qualcuno: Non è bene che l’uomo sia solo. È nel confronto con l’altro che impariamo a conoscerci, a riconoscerci. Nella missione non portiamo semplicemente delle parole, ma uno modo di vivere, uno stile di vita. 

ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada.

La missione esige un totale affidamento al Signore, manifestato dal distacco dalle cose materiali, per dire che la missione non dipende dai beni che uno possiede, ma dall’amore di Dio assimilato nel percorso. Questa spoliazione è necessaria anche perché il missionario è chiamato a portare un annuncio di pace con modalità non violente in un mondo violento e aggressivo. “Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi”, significa che il contenuto del messaggio di amore del Signore dev’essere mediato dallo stile non violento dei discepoli-missionari. Imparare a non rispondere in modo aggressivo alle provocazioni violente del mondo è, prima di tutto, un dono dello Spirito Santo, coltivato e attuato nelle relazioni quotidiane nella comunità cristiana e in famiglia.

In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi…  Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”.

Il discepolo missionario non annuncia il Regno di Dio con delle tecniche di persuasione. L’adesione al Regno dei cieli non è un problema di numeri, per questo non è un messaggio coercitivo. È una proposta fatta in libertà che esige libertà. È un messaggio che dovrebbe stimolare il desiderio di vita vera in coloro che la stanno cercando; un desiderio di senso della vita e di autenticità in coloro che sono insoddisfatti di quello che vivono. L’annuncio del Regno di Dio, infine, dovrebbe stimolare ill desiderio di giustizia e di pace in tutti coloro che hanno fame e sete di Giustizia, che rimangono perplessi con tanta corruzione e ingiustizia che c’è nel mondo. Per questo, il discepolo-missionario, quando incontra un rifiuto, non insiste per convincerlo, ma continua il proprio cammino, perché sa che l’adesione al Regno dei cieli non dipende dai giochi di parole, ma dalle scelte di vita.

 Non rallegratevi però perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli.

Il discepolo-missionario ha imparato a fondare il proprio benessere spirituale sul rapporto d’amore con il Signore e non con il successo della sua azione evangelizzatrice. Anche questo è un punto cruciale nel cammino di discepolato, che consiste nell’imparare a trovare il punto in cui affidare le proprie motivazioni, per continuare il cammino imperturbati. La missione che il Signore ci affida è piena di momenti belli, ma anche di situazioni negative, che provocano profonde frustrazioni, Imparare a centrare le proprie motivazioni in una dimensione spirituale, nel rapporto filale e d’amore con il Signore, significa tutelarsi dalla tentazione di desistere dinnanzi ai tanti fallimenti e alle tante frustrazioni. Solo il Signore è la nostra forza e il senso del nostro cammino.