domenica 26 febbraio 2023

VANGELO DI GIOVANNI CAPITOLO 12

 






Ritiro Spirituale di quaresima 2023

Galeazza domenica 26 febbraio

 

 

[Annotazioni di Paolo Cugini]

 

Betania è indicata come il luogo di Lazzaro, prima invece era stata indicata come il villaggio di Maria e di Marta; da questo momento viene indicata come il luogo di Lazzaro. Betania non è soltanto una indicazione topografica, ma teologica ed indica la comunità di Gesù dove si testimonia una vita capace di superare la morte. 2 E qui gli fecero una cena Il termine cena appare tre volte in Giovani e tutte le volte ha il significato dell’ultima cena (eucaristia) e la prossima volta, al capitolo 13 è proprio l’ultima cena, si tratta perciò dell’eucaristia. Era uso nelle comunità giudaiche e anche in altre culture, celebrare il banchetto funebre, una settimana dopo il decesso del defunto. Era un pranzo dove si lasciava vuoto il posto riservato al defunto. La comunità cristiana, a posto del banchetto funebre, celebra l’eucaristia, la cena è immagine dell’eucaristia. L’evangelista scrive: Marta serviva, il verbo diaconeo significa servizio fatto liberamente e volontariamente per amore.

L’evangelista si rifà al famoso libro dell’Antico Testamento, il Cantico dei cantici, dove si narra in maniera altamente poetica l’amore nuziale, e l’amore della sposa verso lo sposo si esprime con queste parole: mentre il re è nel suo divano il mio nardo (ecco il nardo, Giovanni vuole indicare nel nardo il profumo della sposa nei confronti dello sposo) spande il suo profumo, ancora un re è stato preso dalle sue trecce. Sono elementi che troviamo nella narrazione, dove l’evangelista adopera, volutamente, un linguaggio nuziale. Maria rappresenta la comunità sposa di Gesù, che è lo sposo. Bisogna comprendere bene per non finire poi nel Codice da Vinci e varie storielle! Il privilegio di Israele era di considerarsi il popolo sposa (cioè in piena comunione con) di Dio; con Gesù questo privilegio cessa e non è più riservato ad un popolo, ma è esteso a tutta l’umanità. Tutti coloro che accolgono la voce di Gesù e rispondono al suo desiderio di pienezza di vita, fanno parte di questo popolo-sposa. La comunità di Gesù, rappresentata da Maria, svolge la scena dal linguaggio nuziale: unse i piedi di Gesù, li asciugò con i suoi capelli (le donne andavano velate e potevano mostrarsi senza velo soltanto dal marito). L’evangelista indica il rapporto nuziale che c’è tra la comunità, rappresentata simbolicamente da Maria, nei confronti di Gesù.

Nel vangelo di Giovanni ci sono due cene e in entrambe è presente la lavanda dei piedi. Al capitolo 13 sarà Gesù che laverà con l’acqua i piedi dei discepoli, per purificarli e per far sì che loro, che si consideravano servi dei signori, si sentissero signori. Qui invece c’è Maria che unge, nel senso di consacrare, riconoscere, i piedi di Gesù perché la vita è più forte della morte. Questa è la caratteristica della comunità cristiana, secondo l’evangelista.

4 Ma Giuda l’Iscariota, uno dei suoi discepoli, che stava per tradirlo, è la seconda volta che Giuda compare nel vangelo di Giovanni. Alla prima apparizione Gesù, riferendosi a lui, lo aveva denunciato come un diavolo e parlando di Giuda aveva detto: non sono forse io che ho scelto voi dodici? Eppure, uno di voi è un diavolo. Nei vangeli i diavoli non sono essere spirituali da temere, sono esseri concreti in carne e ossa, che agiscono in maniera subdola all’interno della comunità, e in Giovanni il diavolo è definito come colui che è bugiardo, menzognero e assassino.

5 Perché quest’unguento non si è venduto per trecento denari e per darlo ai poveri? Comprendiamo così che l’unguento è prezioso. La paga di un operaio era di un denaro, e trecento denari è quasi la paga di un anno di lavoro di un salariato. La comunità ha preso un profumo di grande valore, con riconoscenza per una vita capace di superare la morte e lo ha effuso su Gesù e su tutta la casa. L’amore dimostrato dalla comunità a Gesù nuoce agli interessi di Giuda. Nel vangelo Giuda si danna non perché sia particolarmente malvagio, ma perché è l’uomo che ha rifiutato di crescere: si cresce soltanto con il dono di sé agli altri. Chi vive unicamente centrato sui propri bisogni e interessi, non cresce e quando muore trova la morte definitiva.

8 I poveri, infatti, li avete sempre fra voi, ma non sempre avete me. Non c’è una comunità e i poveri, ma una comunità di fratelli in cui i poveri sono i componenti della stessa e soprattutto la loro presenza assicura quella di Gesù. Una comunità, in cui i poveri non sono accolti, è una comunità dove non c’è Gesù: i poveri, infatti, li avete sempre fra voi, ma non sempre avete me. La garanzia di avere sempre nella comunità la presenza di Gesù è quella di avere i poveri.

9 Intanto una gran folla di giudei, in questo caso è il popolo, venne a sapere che Gesù si trovava là e accorse non solo per Gesù, ma anche per vedere Lazzaro che egli aveva resuscitato dai morti. La folla viene attratta da Betania, il luogo dove la vita si espande come profumo, che inonda tutta la casa. Il luogo dove splende la luce attrae quelli che sono nelle tenebre. Quando una comunità dà adesione a Gesù, al suo messaggio, produce frutti abbondanti di vita, frutti di serenità, di gioia, di allegria e quanti sono desiderosi e affamati di pienezza di vita vi accorrono, non per ricevere dottrine, ma per vedere, non vogliono insegnamenti, ma esperienze da fare. La folla dei giudei viene a sapere che Gesù si trovava là, a Betania e Betania si converte nella comunità ideale cristiana dove la fragranza del profumo della vita si espande.

11 perché molti Giudei, i capi, se ne andavano a causa di lui e credevano in Gesù. È la fine del sistema. Al capitolo settimo i farisei diedero ordine, alle guardie, di uccidere Gesù – hanno impiegato quattro giorni ed erano nel Tempio - e sono tornate a mani vuote! E i farisei chiedono: perché non lo avete arrestato? Le guardie rispondono: perché nessuno ha mai parlato come lui. Si scatena contro l’ira dei farisei, che dicono: forse gli ha creduto qualcuno dei capi? La fede dei capi deve essere il parametro della fede degli altri. Il popolo non ha libertà di coscienza, non è libero di credere in ciò che vuole e come vuole, deve credere esattamente come credono i capi e se anche i capi cominciano a credere in Gesù, è il crollo del sistema e Gesù va eliminato. E molti Giudei se ne andavano a causa di lui e credevano in Gesù, ma è mai possibile questo? L’evangelista ci lascia in sospeso, ma vedremo che razza di fede è mai questa. Quando si aderisce ad un sistema di potere, si è talmente invischiati che è poi difficile uscirne.

e uscì incontro a lui gridando: Il verbo uscire è lo stesso adoperato nel Libro dei Numeri, nell’Antico Testamento, per indicare l’esodo, l’uscita del popolo d’Israele dalla schiavitù dell’Egitto per andare nella terra promessa. La terra promessa, per opera della casta sacerdotale al potere, si era trasformata in una terra di prigionia, di morte da cui bisogna uscire. E uscì incontro a lui gridando: Salvaci ora! osanna in ebraico hosha’nà, salvaci adesso, è presa dal salmo 118,25 recitato nella festa delle capanne.

benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele! Hanno sbagliato personaggio, la folla attende il Messia re d’Israele. Erano secoli che i profeti, le tradizioni, avevano suscitato nel popolo umiliato, sottomesso da altre potenze, desideri di rivincita, di rivalsa attraverso il Messia: quando arriverà il Messia, questo piccolo popolo di Israele dominerà tutte le altre nazioni, le assoggetterà e si impadronirà delle loro ricchezze. Era il regno di Israele, basato sulla violenza e sull’arricchimento; nulla di più lontano da Gesù.

14 Ma Gesù, trovato un asinello, sedette su di esso, l’unico monumento equestre su di un asino è quella di Sancho Panza di Don Chisciotte, i grandi non stanno su di un asinello, ma su un bel destriero. Al tempo di Gesù la cavalcatura regale era la mula. Di fronte ad una folla immensa (in tempo di Pasqua a Gerusalemme c’erano fino a 150.000 persone) che è pronta a sottomettersi, Gesù poteva organizzare un colpo di stato, detronizzare il sommo sacerdote, far fuori la guarnigione romana e iniziare uno dei tanti movimenti sanguinosi di rivolta presenti nella storia di Israele. È la tentazione di Gesù di diventare il re di questo popolo. Di fronte alla folla che gli viene incontro, riconoscendolo come il re vittorioso, Gesù fa una scelta e trovato un asinello, mezzo di comune locomozione della gente, ogni famiglia aveva l’asinello, e si sedette sopra. Il verbo sedere appare due volte in Giovanni accompagnato dal verbo gridare: Gesù siede sull’asino dove c’è la folla che grida osanna, poi siederà nel posto dell’imputato, nel tribunale, con la folla che griderà: toglilo, toglilo, crocifiggilo! Quando la folla si accorge di aver sbagliato persona, che Gesù non ha alcuna intenzione di essere il leader guerriero, dominatore, non sa che farsene e la stessa folla che ora lo acclama osanna, salvaci, dopo dirà che se ne vuole sbarazzare. Ma Gesù, trovato un asinello, sedette su di esso, e l’evangelista ci vede l’allusione alle profezie dell’Antico Testamento.

19 I farisei allora dissero fra di loro: Vedete che non concludete nulla? Ecco il mondo gli è andato dietro! Pare, ed è strano, che Gesù sia riuscito ad attrarre anche dei capi, che credono in lui, ma non è riuscito ad attrarre neanche un fariseo, eccezione fatta (bisogna vedere fino a che punto!) con il buon Nicodemo, perché questo? I farisei, cioè i separati, sono persone che vivono in un ordinamento religioso talmente strutturato con regole, prescrizioni, devozioni dove non c’è posto per Dio. È la religione, tante volte lo abbiamo detto, che rende atee le persone ed impedisce di scoprire Dio nella loro esistenza. I farisei sono quelli che si separano dalla gente per innalzarsi verso un Dio che vedono sempre in alto; con Gesù Dio, creduto in alto, è sceso per incontrare la gente, loro si innalzano per incontrare Dio. Dio è sceso per incontrare l’uomo e più loro si innalzano e si allontanano sempre più da Dio. Per questo Gesù ha fatto fiasco completo con i farisei, che è il gruppo che resta fuori dalla sua sfera di attrazione. Gesù è luce che attrae quanti sono nelle tenebre, ma loro che sono essi stessi tenebre, non sono attratti, hanno paura di estinguersi?. Mentre i farisei vengono presentati uniti, compatti quando si tratta di attaccare Gesù, adesso stanno dividendosi incolpandosi gli uni e gli altri. Le persone religiose che si ritenevano più vicine a Dio, gli illuminati da Dio, il titolo ambito dai farisei era: guide dei ciechi, sono in realtà ciechi. La luce di Gesù illumina ogni persona, con i farisei non ci riesce, non può nulla. La struttura religiosa li rende completamente refrattari all’azione divina.

20 C’erano anche alcuni Greci Incomincia l’attrazione di Gesù su tutta l’umanità, sono le pecore di altri ovili che viene a liberare. tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa. Tutto il mondo va dietro a Gesù e i Greci sono i primi ad essere conosciuti. Con questo termine si indicano in generale gli stranieri provenienti dal mondo ellenico; quelli che si stanno avvicinando alla religione giudaica sono o simpatizzanti o proseliti ed erano saliti per il culto durante la festa. Non sono pecore dell’ovile di Israele, ma il pastore deve chiamare anche queste verso la libertà.

E chiesero a lui dicendo: “Signore, vogliamo vedere Gesù”. Il desiderio di vedere Gesù riveste il carattere di conoscere, è un vedere che porta a credere, come Gesù aveva già detto: questa è infatti la volontà del Padre mio che chi vede il Figlio, vede anche lui, abbia la vita eterna. Vogliono vedere Gesù non per una semplice curiosità, ma per conoscere e poi credere. Gesù nel Tempio, a Gerusalemme, non solo attrae i Giudei, che erano andati lì per il culto, ma anche i greci. Abituati da secoli, nel mondo ebraico, a una ideologia che faceva vedere Israele come il popolo eletto, il popolo superiore che avrebbe dovuto dominare tutti gli altri popoli, gli apostoli non riescono a capire che il messaggio di Gesù è un messaggio universale.

23 Gesù, infatti, rispose loro dicendo: È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo. Loro vogliono vederlo, perché Gesù dà questa risposta? In Giovanni la glorificazione significa il momento della morte di Gesù, nel quale si manifesta tutta la sua realtà interiore e tutta la pienezza della sua divinità. È solo nella sua morte che si potrà vedere, conoscere e credere in Gesù quale Figlio di Dio. Solo sulla croce si manifesta pienamente la condizione divina.

24 In verità in verità vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore produce molto frutto. Mediante la comparazione del chicco di grano con se stesso, Gesù insegna che il chicco contiene una energia vitale che attende di manifestarsi con una forma nuova. Ogni chicco è una fase temporanea della sua esistenza e attende soltanto il momento in cui gli verrà consentito di manifestarsi in una forma nuova: non è fine a se stesso, ma è un processo di crescita che non si esaurisce nel chicco, che deve continuare la sua esistenza fino a manifestare una forma completamente nuova. L’evangelista sta dicendo che in ogni uomo ci sono delle capacità, delle potenzialità che non appaiono (il chicco di grano non sa cosa può diventare, gli è sconosciuto), ma solo il dono di sé le libera perché esercitino tutta la loro efficacia. La morte non distrugge l’individuo, ma permette un’esplosione di fecondità. Le energie che sono racchiuse nel chicco di grano, quando arriva il momento della morte si liberano e si trasforma in una spiga. In un contesto che si riferisce alla missione con l’umanità, qui rappresentata dai greci, ci fa comprendere che si può produrre vita soltanto donando la propria. Chi rimane chiuso in sé è sterile, chi dona produce abbondanza di vita. Giovanni è l’unico evangelista che non ha il racconto dell’istituzione dell’eucaristia (dell’ultima cena), ma in realtà è quello che più di tutti gli altri ne fa comprendere i significati.

25 Chi tiene a se stesso, si perde letteralmente chi ama la propria vita chi odia se stesso in questo mondo si conserva per la vita eterna. Il versetto così formulato contiene un accento molto ebraico, dove non esistono sfumature nei verbi e per dire preferire o non, c’è amare e odiare. Non si tratta di odiare, ma di preferire; amare e preferire la vita ha il significato di vivere per sé; odiare che significa non amare, equivale a vivere per la vita degli altri. Gesù dice: chi vive per sé, distrugge la propria esistenza; chi invece vive per gli altri, non solo non perde, ma continua l’esistenza nella vita eterna (vita eterna è zoe, un termine che l’evangelista ama tanto). Chi è unicamente centrato su se stesso non sviluppa zoe, la vita divina che per crescere deve essere alimentata.

32 E quando sarò elevato da terra notate la bellezza del vangelo: il capo di questo mondo cade, Gesù viene innalzato attirerò tutti a me. Alla caduta del capo di questo mondo coincide l’elevazione di Gesù. Quando il sistema crede di avere eliminato Gesù, emettendo la sentenza di morte, in realtà non avrà fatto altro che ratificare la sentenza della propria morte e sarà la fine. Con la morte di Gesù, a cui l’evangelista accenna, l’istituzione religiosa ha smascherato finalmente se stessa, rivelandosi per quello che è. Nonostante i paramenti religiosi, le liturgie e i titoli, i capi religiosi si sono rivelati per quello che sono: una banda di criminali pronta a tutto pur di non perdere il dominio sul popolo. Ora con Gesù c’è per i credenti una alternativa: è possibile non sottostare più al dominio dell’istituzione religiosa e accogliere il suo messaggio, non per entrare in un’altra istituzione religiosa. Gesù aveva detto: io li chiamo perché escano dall’ovile, non per portarli in un altro ovile. Quanti danni si sono generati dall’errata traduzione di San Gerolamo dicendo: e saranno un solo ovile, un solo pastore! Gli ovili, il recinto, sono finiti; il recinto che dà sicurezza, ma toglie libertà, è finito. Gesù non dice: sarà un solo ovile, ma sarà un gregge, un pastore.

Chi è questo Figlio dell’uomo? Non riescono a capire. Figlio dell’uomo è una espressione non originaria degli evangelisti, l’hanno modificata e si trova nel libro del profeta Daniele, 7,13. Daniele fa un sogno e dal mare, simbolo del caos, emergono quattro animali in serie crescente, uno più mostruoso dell’altro. Sono i quattro grandi imperi dell’epoca: l’impero babilonese, dei medi, persiano e macedone. Ogni volta la gente attende la salvezza in un potere ancora più forte e ogni volta la situazione è peggiore.

Gli evangelisti hanno preso l’immagine di un uomo che ha condizione divina non perché gli altri popoli lo servano, ma perché egli si metta a servizio degli altri; non perché avrà un potere, ma un amore. Figlio dell’uomo è una espressine che troviamo nei vangeli ed è la meno compresa, almeno da parte dei cristiani. I titoli di Gesù nei vangeli sono: Figlio di Dio e Figlio dell’uomo: Figlio di Dio significa che in Gesù si manifesta Dio nella condizione umana e noi non conosciamo altro Dio. L’unico Dio che noi conosciamo è Gesù, una persona pienamente umana, pienamente sensibile ai bisogni e alle sofferenze degli altri; Figlio dell’uomo significa l’uomo nella sua condizione divina. Entrambi gli atteggiamenti si fondono in Gesù che è Dio nella sua condizione umana, ma è l’uomo che manifesta la condizione divina; non è un titolo esclusivo di Gesù, ma una possibilità per tutti i credenti.

35 Gesù allora disse loro: Ancora per poco tempo la luce è con voi. Camminate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi cammina nelle tenebre non sa dove va. È l’ultimo drammatico avviso prima che si consumi il rifiuto del suo popolo, ma anche questa parola rimane inascoltata. Gesù sta parlando di luce, di tenebre e l’unico che lo ha conosciuto come Figlio dell’uomo è stato l’uomo che era cieco dalla nascita. Il cieco dalla nascita, una volta che ha incontrato Gesù, ha ricevuto la luce ed essendo stato plasmato ad immagine e somiglianza ha capito che è il Figlio dell’uomo. Quando torna e ci vede, i vicini non lo riconoscono e non è che avesse cambiato fisionomia, gli è tornata solo la luce. L’evangelista vuol fare capire che quando una persona, che è stata sempre succube della religione, incontra Gesù, ricupera la libertà, è la stessa di prima, ma è una persona completamente nuova e quelli che vivono sottomessi non la possono riconoscere. Quando gli chiedono: chi è, questi risponde (ed è l’unica persona nei vangeli, nessun’altra lo fa, nemmeno Giovanni il Battista all’inizio del vangelo usa questa formulazione), io sono, che è il nome di Dio. Quando Mosè ha chiesto sul Sinai alla divinità chi sei, Dio ha risposto: Io sono. Nei vangeli è una formula esclusiva di Gesù, con cui conferma la sua condizione divina.

37 Sebbene avesse fatto tali segni davanti a loro, non credevano in lui, è un amaro commento! Gesù ha compiuto tanti segni, la resurrezione di Lazzaro è stato il più clamoroso perché con questo non ha tolto la paura della morte, ha liberato dalla morte. È una conseguenza finale dei tanti segni che Gesù aveva compiuto. Sebbene avesse fatto tali segni davanti a loro, non credevano in lui, è un riferimento ai segni compiuti da Mosè.

42 Ciò nonostante anche tra i capi, molti credettero in lui, allora è possibile essere capo e credere in Gesù! Contraddice quanto ha detto in precedenza: chi vive nell’ambito del potere non può cogliere il messaggio di Gesù. Ma non tutti i capi sono uguali: nonostante questo molti credettero in lui, finalmente c’è una speranza! È una perfida ironia dell’evangelista: ma a causa dei farisei non lo riconoscevano apertamente, per non essere espulsi dalla sinagoga. È un credere che non è un credere. Quando Gesù aveva aperto gli occhi al cieco nato, i capi sottopongono i suoi genitori ad un interrogatorio per costringerli ad ammettere innanzitutto che non fosse il loro figlio, e poi che non era cieco dalla nascita. I genitori rispondono vigliaccamente: chiedetelo a lui, è già maggiorenne. Giovanni sottolineava: dissero così perché avevano già stabilito che se qualcuno avesse riconosciuto Gesù come Cristo, sarebbe stato espulso dalla sinagoga. Essere espulsi dalla sinagoga non vuol dire essere espulsi da un luogo di culto (il che non sarebbe poi tanto male), ma significa la morte civile. Non è possibile aver rapporti con le persone cacciate dalla sinagoga, bisogna tenere una distanza di almeno due metri, non è possibile né comprare né vendere.

Chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato, di nuovo l’evangelista ritorna sul tema fondante del suo vangelo. Non si può separare Gesù da Dio.

45 chi vede me vede colui che mi ha mandato. Questo perché sono le stesse opere e soltanto conoscendo Gesù si capisce chi è Dio, colui che desidera il bene e la felicità dell’uomo e concorre a questo bene, anche andando in contraddizione con la sua stessa legge o quella che è creduta essere legge di Dio.

49 Perché io non ho parlato da me, ma colui che mi ha mandato, il Padre, egli stesso mi ha comandato che cosa devo dire e parlare. Gesù fin dall’inizio è stato presentato come la Parola di Dio, il Logos e Giovanni, nel Prologo, ha scritto che si è fatta carne, non un libro. Questo è importante. Non dice che la parola si è fatta uomo; ha scelto il termine carne, che indica l’uomo nella sua debolezza. La potenza della luce del Signore, il suo messaggio, il logos o progetto, che era prima degli inizi della creazione, non si è manifestato in un libro, si manifestato nella carne di un uomo, cioè nella sua debolezza. Non è un superuomo che mette soggezione e che non sia raggiungibile, ma è un uomo mortale, un uomo nella sua debolezza.

 

VANGELO DI GIOVANNI CAPITOLO 11

 





Ritiro Spirituale di quaresima 2023

Galeazza domenica 26 febbraio

 

 

.[Annotazioni di Paolo Cugini]

 La resurrezione è il passaggio definitivo da una vita fisica a una vita spirituale definitiva e Paolo dice che l’unico che è resuscitato è Gesù Cristo. Le altre, che vengono rappresentate nei vangeli, non possono essere considerate resurrezioni, ma rianimazioni: Gesù ha rianimato una persona che poi deve morire di nuovo, a meno che non la pensiamo in giro da qualche parte.

Solo tre resurrezioni, avvenimenti straordinari, perché nessuno è più uscito dalla tomba, ma che sono ignorati da alcuni evangelisti. Il brano della resurrezione della figlia di Giairo, capo della sinagoga è assente in Giovanni, quello del figlio della vedova di Nain è soltanto in Luca. È abbastanza strano che un episodio così straordinario come la resurrezione non sia proclamato da tutti gli evangelisti!

Gli evangelisti quando presentano tre persone usano una tecnica letteraria, che indica una comunità di credenti in Gesù, ma che è ancora ancorata alla tradizione del vecchio. Il fatto che l’individuo abbia un nome si richiama a quanto Gesù aveva detto nel capitolo precedente, che le sue pecore le chiama per nome. C’è una indicazione importante: il villaggio ed è sufficiente per chiarire quello che verrà. Il villaggio nei vangeli è sempre negativo; è il luogo dove le tradizioni attecchiscono, ma le novità sono viste con sospetto. Mentre in città le mode possono andare e venire, nel villaggio le mode arrivano sempre in ritardo e quando hanno attecchito è impossibile modificarle e vige l’imperativo: si è fatto sempre così. Pertanto il termine villaggio viene a significare resistenza, incomprensione od ostilità alla novità portata da Gesù. Con questo termine Giovanni indica che nel brano vi sarà incomprensione su quanto Gesù è venuto a portare. È una comunità che non ha ancora rotto con l’istituzione, è nel recinto del giudaismo, non ha ascoltato la voce del pastore che è venuto a liberare.

 Maria era quella che aveva unto (12,3) con unguento profumato il Signore e gli aveva asciugato i piedi con i suoi capelli, il cui fratello Lazzaro era malato. L’evangelista anticipa la celebrazione della vita nella casa di Lazzaro. Quando Gesù sta per resuscitare Lazzaro, Marta dice: Signore, puzza già! Mentre alla morte corrisponde la puzza, alla vita corrisponde il profumo.

L’evangelista corregge la visione delle sorelle, che non hanno ancora percepito la qualità d’amore di Gesù verso tutti coloro che lo seguono e sono collocate alla stregua dei giudei, i nemici di Gesù che verranno per porgere il cordoglio e che diranno 11,36: guarda come gli voleva bene. Non hanno capito la qualità d’amore di Gesù, la sua relazione verso coloro che lo seguono non è una relazione di amicizia, ma è un amore che non dipende dalla condotta o dalla risposta dell’altro, è un amore gratuito, è un amore generoso.

6 Quand’ebbe dunque sentito che era malato, ci aspetteremmo che decise di andare a Betania, ma rimase due giorni nel luogo in cui era. Ma perché due giorni, quando l’evangelista aveva detto che Gesù amava la comunità? L’evangelista dà questo insegnamento: Gesù non è venuto ad alterare il normale ciclo della vita fisica eliminando la morte biologica della ciccia, ma a dare alla morte un nuovo significato. I due giorni sono un riferimento al profeta Osea che riguardo all’azione del Signore 6,2 dice: Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo giorno ci farà risorgere e noi vivremo alla sua presenza. È un riferimento alla profezia di una resurrezione e l’evangelista ci mette sullo sbocco finale del brano. È la terza volta che compare l’indicazione due giorni; la prima volta in bocca ai samaritani quando lo pregarono di trattenersi di là due giorni. La missione di Gesù è dare vita e la comunica a tutti coloro che rispondono al suo annuncio.

11 Così parlò e poi soggiunse a loro: Lazzaro, il nostro amico è importante, lo chiama amico della comunità di cui si sente un componente. Nella comunità cristiana non c’è nessuno che possa mettersi al di sopra degli altri. Gesù stesso si ritiene un componente della comunità e al capitolo 13, si mette al servizio. s’è addormentato, ma io vado a svegliarlo. Gesù dichiara che Lazzaro si è addormentato e nelle prime comunità cristiane la morte era definita un sonno, adoperavano l’immagine del dormire.

Il termine cimitero deriva da un termine greco che significa dormitorio e indica una sola tomba. Con il messaggio di Gesù è cambiato l’atteggiamento nei confronti della morte; la morte come il dormire non interrompe il ciclo vitale, ma è una componente che permette all’individuo di riprendere ancora più forza. Normalmente quando si parla della morte la si contrappone alla vita, ma in base a questo insegnamento e alla esperienza della comunità cristiana è sbagliato; non va contrapposta la vita alla morte, ma la nascita alla morte, e fanno parte del ciclo vitale dell’individuo. Come il dormire non interrompe la vita dell’individuo così la morte. Nella nascita il bambino sta bene nella pancia della madre, non gli manca nulla e non ha nessuna intenzione di uscire, ma arriva ad un punto della sua esistenza che se vuole continuare a vivere deve uscire fuori. E solo allora vede in pienezza quell’amore dei genitori che aveva potuto soltanto percepire. La prima comunità cristiana si riferiva alla morte come al dormire e al morire come alla nascita e lo chiamava il giorno natalizio della persona. Gesù parlando del dormire vuole indicare che la morte non interrompe il ciclo vitale. La vita non ha interruzione, è trasformata. I discepoli non hanno alcuna intenzione di seguire Gesù in Giudea.

15 e io mi rallegro, c’è qualcosa che non va tra l’annuncio di morte e l’allegria di Gesù, ma il paradosso tra morte e allegria anticipa la vittoria della vita sulla morte. E Gesù vuole portare i discepoli a questa fede, e io mi rallegro per voi perché crediate di non essere stato là. Questo per sperimentare la vittoria della vita sulla morte, e poi Ma andiamo da lui!. Non invita i discepoli ad andare con lui dalle sorelle per confortarle per la morte del loro fratello, ma andiamo da lui, non va ad incontrare un morto, ma un vivo.

16 Disse allora Tommaso, compare per la prima volta il discepolo più importante del vangelo di Giovanni. Per letture erronee ed errate del vangelo, certi personaggi sono presentati male, basta pensare a Maria di Magdala, una donna straordinaria che più avanti, in questo vangelo, vedremo come leader della comunità. Per un errore commesso in passato da un papa, è stata identificata con una prostituta che, con i capelli, asciuga i piedi a Gesù, è poi diventata la peccatrice redenta. Ugualmente è per Tommaso, definito l’incredulo e a proposito, ci sono espressioni proverbiali. In Giovanni è il discepolo più importante in assoluto, è nominato sette volte, cioè la totalità, la completezza ed in bocca a lui c’è l’espressione più alta di fede in Gesù, contenuta in tutto il vangelo. Pietro nel vangelo di Matteo e di Marco arriva a riconoscere Gesù, il Figlio di Dio, ma solo Tommaso in questo vangelo, si rivolge a Gesù chiamandolo mio Signore e mio Dio. Filippo non aveva compreso e dice mostraci il Padre e ci basta, Tommaso ha capito una grande verità, che non Gesù è uguale a Dio, ma Dio è uguale a Gesù; non c’è da cercare altro Dio all’infuori di quello che si vede in Gesù. Disse allora Tommaso chiamato Didimo, che significa gemello, era conosciuto come il gemello di Gesù, come colui che gli assomigliava di più tra i discepoli e questo è confermato in numerosi testi apocrifi.

Disse: Andiamo anche noi a morire con lui!. È la crescita di fede della comunità e l’importanza di Tommaso. Gesù è venuto a traghettare i suoi dalla religione alla fede: nella religione l’uomo è orientato a Dio, tutto quello che fa lo fa per Dio e quando si dice che si fa una cosa per Dio, si appartiene al mondo della religione. Tutto questo cambia, con Gesù, Dio non è più il traguardo dell’esistenza dell’individuo, ma ne è il principio; è Dio che inonda l’uomo con il suo amore, lo trasforma, lo rende simile a sé e le cose si fanno con e come Dio. È un grande balzo di qualità; un conto è agire per Dio, un conto agire con, in piena comunione e come lui e Tommaso lo capisce. 8 L’evangelista, polemicamente, anticipa l’ostinatezza di Pietro, l’altro discepolo conosciuto come testa dura come selce, che durante l’ultima cena dirà Signore io sono pronto a dare la mia vita per te. È ancora nel mondo della religione, non ha capito. Gesù dice: chi te l’ha chiesto di dare la tua vita per me, guarda che con questa idea tra poco sarai il primo che mi tradirà definitivamente! Gesù non chiede di dare la vita per lui; Dio non assorbe le energie degli uomini, ma comunica la sua energia per potenziare gli uomini. Il Dio della religione assorbe in sé gli uomini che devono fare tutto per Dio; il Dio di Gesù potenzia gli uomini, ne dilata l‘esistenza e le cose si fanno con Dio e come Dio.

Maria invece stava seduta in casa. L’incontro di Gesù con i suoi è sempre una confluenza di due movimenti. Maria non va incontro a Gesù, perché non lo sa, mentre Marta dunque come seppe che veniva Gesù. Però se anche lei lo vorrà incontrare, dovrà uscire dalla casa del lutto e dal villaggio, luogo del pianto e della tradizione. Giovanni ci anticipa la teologia comune degli evangelisti: non si può incontrare il vivo in un mondo di morti.

Io sono la risurrezione perché sono la vita; Marta diceva: risusciterà nell’ultimo giorno, Gesù dice: è presente. La resurrezione non è alla fine dei tempi, è presente perché Io sono qua. La presenza di Gesù comporta quella della resurrezione. Chi dà adesione a Gesù ha una vita, di una qualità tale, che è capace di superare la morte. La vita eterna per Gesù non sarà, ma è. Abbiamo visto che nel mondo ebraico si cominciava a credere nella vita eterna, nella resurrezione, ma sarebbe stata un premio per i giusti. Con Gesù la vita eterna non è il premio o una speranza nel futuro, ma una possibilità e una esperienza nel presente. Gesù non si presenta come uno che promette la vita eterna nel futuro, ma è lui la vita eterna e cerca di cambiare a Marta, il significato della morte e della resurrezione. Ecco due espressioni che modificano radicalmente il concetto della morte, della vita e della resurrezione: “Io sono la risurrezione perché sono la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; alla comunità che piange la morte di uno dei suoi componenti Gesù assicura: chi crede in me anche se muore, Lazzaro è morto, continua a vivere. Il discepolo vive perché ha dato adesione a Gesù, e quelli che gli danno adesione hanno il dono dello Spirito (credere significa avere lo Spirito di Dio) e non passano attraverso l’esperienza della morte, continuano a vivere. Quando Gesù dice: Io sono la resurrezione e la vita, non intende la vita biologica, bios, ma zoe, la vita divina, una vita che ha un inizio con l’incontro con Gesù e quando bios muore, zoe continua ad esistere.

26 Chiunque vive e crede in me non morirà, è la novità portata da Gesù, che ha liberato la comunità non dalla paura della morte, ma dalla morte stessa e rassicura: chi vive e crede in me non morirà mai. Alla comunità che piange un morto dice: se questa persona ha creduto in me, anche se adesso è morta, sappiate che continua a vivere e voi che siete vivi e mi date adesione, non farete l’esperienza della morte. È il cambio di mentalità che Gesù vuole portare alla comunità cristiana.

I primi cristiani lo avevano capito; non credevano che sarebbero resuscitati dopo la morte, ma che erano già resuscitati; avevano capito che Gesù non resuscita i morti, ma dona ai vivi una vita, di una qualità tale che continua per sempre. Con Gesù la vita eterna non è un premio per il futuro, ma una condizione del presente e allora si capiscono certe affermazioni strane nelle lettere di San Paolo: colui ci ha anche resuscitati e ci ha fatto sedere nei cieli. Come, ci ha resuscitati? Ma non c’è la vita, la morte e la resurrezione? San Paolo dice: noi che siamo già resuscitati. Questa è la fede della comunità cristiana. Non c’è resurrezione dopo la morte, c’è una resurrezione in vita. Gesù ha detto: chi crede ha la vita eterna, non avrà la vita eterna. Nel momento stesso che l’individuo ha dato adesione a Gesù, in lui si innesta una vita di una qualità tale che è eterna, per cui non farà l’esperienza della morte. Nel momento della nostra ora gli altri vedranno in noi una persona che muore, noi non ne faremo esperienza, continueremo la nostra esistenza. Come dice Paolo nelle lettere degli Efesini e dei Colossesi: siete insieme resuscitati; se dunque siete risorti.

Fintanto che piangiamo i nostri cari come morti, non riusciamo a sperimentarli come vivi. Fintanto che Maria di Magdala piange davanti alla tomba di Gesù, non si accorge che è dietro di lei e aspettava che smettesse di piangere. Nel vangelo di Luca, quando le donne vanno al sepolcro, trovano gli angeli che sbarrano loro la strada: perché andate tra i morti a cercare chi è vivo? Questo dovrebbe stare all’ingresso dei cimiteri. Dovete decidervi: o la vostra persona cara è morta, allora accomodatevi; o è viva. Il cimitero è il posto dei morti, non dei vivi. Bisogna fare una scelta esistenziale: o piangiamo i nostri cari come morti o li sperimentiamo come vivi. Non è possibile piangerli come morti e sperimentarli come vivi! Matteo dice: non abbiate paura di quelli che possono uccidere il corpo, ma non hanno il potere di uccidere la vita. Di fronte alla persecuzione il massimo che possono togliervi è la vita biologica, non l’esistenza, a meno che non ci sia la seconda morte, come dice l’Apocalisse: beati quelli che non sperimenteranno la seconda morte. La prima è la morte biologica, a cui tutti andiamo incontro, ma c’è il rischio che non ci sia zoe, che ci sia niente; è la seconda morte di cui parla l’Apocalisse. Una persona che ha vissuto unicamente per sé, centrata soltanto sui suoi bisogni e sulle sue necessità, che non si è proiettata verso gli altri, non è cresciuta. La scintilla di vita che aveva in sé, si è atrofizzata fino a spegnersi. Chi vive per gli altri potenzia la vita (zoe), chi vive per sé la distrugge.

Gesù tante volte dice, nel vangelo, che dare la vita non è perdere, ma è guadagnare; trattenere la vita è perdere. Si possiede – come diciamo in questi incontri – soltanto quello che si dona; quello che si trattiene per noi non si possiede, ma ci possiede e si distrugge. Quanto più noi rendiamo la vita agli altri, tanto più sarà potente la vita divina (zoe) e non faremo esperienza della morte. Se viviamo solo per noi c’è il rischio che quando arriva la morte fisica, ci sia anche la morte definitiva della persona. Gesù propone alla comunità di cambiare il concetto di morte, la resurrezione non è al futuro e dice a Marta: chi vive e crede in me non morirà mai. Credi questo?. Per Gesù la morte non esiste. Marta, la comunità, ha questa fede? Gesù non offre un cammino diverso per giungere poi alla vita eterna, ma una vita diversa che è già resurrezione. Non si segue Gesù per avere la vita eterna, ma seguendo Gesù scopro dentro di me una potenza di vita, che sento indistruttibile. Finalmente c’è la crescita di fede in Marta, nella comunità. Prima Marta si rifaceva alla tradizione: so che qualunque cosa tu chiederai – tu chiederai a Dio, non sei Dio.

27 Gli rispose: Sì, o Signore, chiama Gesù Signore, titolo che non significa signore perché comanda, ma perché non obbedisce a nessuno, è una persona pienamente libera. La comunità cresce e arriva a comprendere che Gesù è il Signore, io ora credo, io credo fermamente (credere in greco è credere con forza) che tu sei il Messia, il Figlio di Dio, colui che deve venire nel mondo. Finalmente la comunità cresce, riconosce che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio, che ha la stessa vita di Dio, la natura stessa di Dio, che Gesù è Dio.

29 Quella allora come udito, si alzò in fretta e andò da lui. Gesù non entra nella casa del lutto. Per sperimentare Gesù occorre abbandonare la casa del lutto. Gesù non entra neanche nel villaggio. L’arrivo di Gesù toglie Maria dall’immobilità per la morte del fratello; è la comunità in cui è morto l’uomo, il maschio di casa e le donne si sentono a terra, disarmate, paralizzate. Appena udito ciò, si alzò in fretta, l’annuncio di Gesù aiuta ad uscire dalla prostrazione in cui il lutto, il dolore getta, e andò da lui. Sa che per incontrare Gesù occorre lasciare la casa del lutto. Fintanto che si resta nella casa del lutto, del dolore, è impossibile fare esperienza di Gesù.

31 Allora i Giudei, ricordo che in Giovanni il termine indica i capi, le autorità religiose, ed è strano che una comunità di seguaci di Gesù, abbia ricevuto le condoglianze da quelli che avevano già deciso di ammazzarlo. È una comunità che non si distingue per la novità portata da Gesù, che erano con lei in casa a confortarla, quando videro Maria alzarsi in fretta e uscire, la seguirono, sono indicazioni preziose, la proposta di Gesù è per tutti, seguendo la discepola Maria anche i capi possono andare da Gesù. Non è possibile per il popolo sperimentare la vita seguendo i capi, in questo caso sono i capi che seguendo le tracce della comunità cristiana possono arrivare a Gesù. È la dinamica dei vangeli: l’incontro con il Signore non avviene mai seguendo i capi, ma seguendo la comunità, la base. È questa che porta al Signore.

35 Gesù pianse. È incomprensibile se prendiamo l’episodio come cronaca, perché piange se sta per resuscitare Lazzaro? Perché perde tempo a piangere? L’evangelista, mentre per i Giudei e per la sua comunità adopera il verbo singhiozzare usato per la veglia funebre, per Gesù usa il verbo che, letteralmente, vuol dire lacrimare, ed esprime dolore. Da parte dell’evangelista è una indicazione sul giusto atteggiamento nei confronti della morte da parte della comunità cristiana. La morte non getta nella disperazione come in chi non crede, non è la fine di tutto, ma è una espressione di dolore. È vero che la persona vive, però fisicamente manca! Gesù esprime il dolore per la morte dell’amico Lazzaro. Lo dico perché ci sono gruppi fanatici per i quali - fraintendendo il messaggio - la morte è espressione di allegria. E Gesù stesso, di fronte alla morte di Lazzaro, esprime il dolore per l’amico caro. Ma perché, se lo stava per resuscitare piange? L’evangelista ci fa comprendere che c’è qualcosa di diverso.

Vedendo il pianto 36 Dissero allora i Giudei: Guarda come gli voleva bene!. L’evangelista fin dall’inizio usa due verbi differenti, per indicare il rapporto di Gesù con i suoi discepoli. Sia le sorelle che i Giudei dicono che Gesù gli voleva bene, il verbo è phileo, ma l’evangelista corregge questa visione e dice che Gesù lo amava e usa il verbo agapao, che indica un amore incondizionato.

39 Disse Gesù. Togliete la pietra! Poteva anche dire di dare una mano, dato che le pietre erano grosse, ma l’ordine è imperativo, non dice: togliamo la pietra, perché non è stata messa da lui. Sono loro che l’hanno messa! L’importanza della pietra è ribadita dall’evangelista, ripetendo per tre volte il termine pietra.

Signore, puzza, perché è di quattro giorni. Nella cultura ebraica - quando una persona moriva, veniva posta nel sepolcro - si credeva che lo spirito del morto posto nel sepolcro rimanesse a guardarsi per tre giorni; al quarto giorno il processo di decomposizione era già avanzato e lo spirito, non riuscendo a riconoscersi nel volto del cadavere, scendeva nel regno dei morti, era la morte definitiva. Per questo Marta dice puzza, effetto della morte. L’evangelista, all’inizio, presentando Maria, aveva anticipato quanto sarebbe accaduto nel prossimo capitolo: Maria era quella che cosparse di profumo il Signore. Quando la comunità fra una settimana, si riunirà per fare festa alla vita più forte della morte, Maria prende un vaso di profumo, che inonda la casa. La morte puzza, la vita comunicata da Gesù è un profumo che inonda la casa. Qui la fede di Marta vacilla.

e disse: Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. In Giovanni non appare mai il verbo pregare, ma per tre volte il verbo ringraziare, eucaristeo, da cui deriva eucaristia: c’è due volte nell’episodio della condivisione dei pani e poi nella resurrezione di Lazzaro. Nella condivisione dei pani Gesù aveva invitato i discepoli a farsi loro, pane per gli altri. Chi con Gesù e come Gesù fa della propria vita pane per gli altri, ha una vita di una qualità tale che è capace di superare la morte. Per questo il verbo ringraziare appare due volte nella condivisione dei pani e una volta nella resurrezione di Lazzaro. Lazzaro ha una vita capace di superare la morte perché ha fatto della sua vita un dono per gli altri, è il significato dell’eucaristia, l’impegno di orientare la propria vita per il bene degli altri. Nel momento che lo facciamo, Dio ci comunica un flusso ancora più forte della vita capace di superare la morte. Noi non ci accorgeremo di morire. Gesù non deve chiedere, deve ringraziare.

43 E detto questo, gridò a gran voce: Lazzaro vieni fuori! Hanno messo Lazzaro nel posto sbagliato e Gesù lo chiama a gran voce, si rifà al capitolo 5,25 in cui aveva detto: è venuto il momento, ed è questo, in cui i morti udranno la voce di Dio, e quelli che l’avranno ascoltata vivranno. Verrà l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno. La voce potente di Gesù è quella che arriva a quanti stanno nel mondo dei morti. Gesù non compie nessuna azione su Lazzaro, non così nelle altre due resurrezioni, dove ha compiuto delle azioni: prende per mano la figlia del capo della sinagoga e la rialza; tocca la bara del figlio della vedova di Nain. Gesù non aveva bisogno né di prendere per mano della figlia del capo della sinagoga, né di toccare la bara del figlio della vedova di Nain, qui dice: Lazzaro vieni fuori. Non poteva dire lo stesso nei due episodi precedenti, perché era in un ambiente giudaico dove la legge divina proibisce di toccare un morto, perché rendere impuri. Gesù ne dimostra la falsità: è la legge che mantiene in una condizione di morte, trasgredendo la legge c’è la vita. Nel contesto della comunità cristiana, Gesù non ha bisogno di toccare Lazzaro; ha chiamato Lazzaro, il vivo, che è stato collocato in un luogo sbagliato per un discepolo di Cristo, perché anche se muore continua a vivere. Lazzaro, discepolo di Gesù, ha ascoltato la voce di Dio ed è già vivo.

Gesù disse loro: Scioglietelo, siete voi che lo avete legato e che pensate che la morte sia la fine di tutto. La comunità, sciogliendo il morto, si scioglie completamente dalla paura della morte. Una volta sciolto dai legacci, c’è l’ultimo ordine. Proviamo a immedesimarci nella realtà che ci resuscita una persona cara, che ci è morta. Scioglietelo, se è stato legato va bene, ma come ultimo ordine ci aspetteremmo di andargli incontro, di festeggiarlo, di farlo venire, invece: e lasciatelo andare. Dove deve andare Lazzaro? Perché non ha detto: scioglietelo e fatelo venire; scioglietelo e abbracciamolo, o festeggiamolo perché era morto ed è tornato in vita. Invece: scioglietelo e lasciatelo andare. E il resuscitato non ringrazia, non parla alle sorelle, Lazzaro è assente. Il finale è incongruente. Il morto dove deve andare? Dove già è Lazzaro, nella sfera della vita divina. Non è che deve andare, c’è già, ma è la mentalità della comunità e per questo Giovanni adopera il verbo andare, che ha sempre adoperato per indicare l’itinerario di Gesù: ora io vado da colui che mi ha mandato; dove io vado voi per ora non potete andare. E Gesù dice lasciatelo andare, liberatelo dalle funi della morte. È evidente l’importanza del brano. È un cambiamento di mentalità, la morte non interrompe la vita. Il prefazio della liturgia dei defunti, uno dei più antichi della liturgia dice: la vita non è tolta, ma è trasformata. Con il momento della morte la nostra vita è trasformata, non andiamo lontano, i nostri cari sono qui con noi. Siamo noi che siamo legati dalle funi della morte e non li sperimentiamo come vivi.

47 e dicevano: Che facciamo? la situazione è fuori controllo, poiché quest’uomo, le autorità religiose nel rivolgersi a Gesù evitano sempre di pronunciare il suo nome ed adoperano un’espressione che vuol essere di disprezzo, ma da parte dell’evangelista è di esaltazione. In greco è l’uomo, Gesù è la pienezza d’uomo, compie molti segni. Con il termine segni si indicano azioni che uno può compiere o con la potenza divina o per autorità o per mandato divino. Le autorità riconoscono che in Gesù c’è un’azione divina perché compie molti segni, ma non lo possono tollerare. Se lo riconoscono devono smettere di comandare e dominare la gente. È il tradimento delle autorità religiose, pur riconoscendo che in Gesù c’è una condizione divina e un’attività divina, non lo possono ammettere perché ne va del loro prestigio. Negli altri vangeli questo è chiamato il peccato contro lo Spirito santo, un peccato che noi non potremmo mai commettere! È il peccato esclusivo delle autorità religiose. Affermare che una cosa è bene quando si sa che fa male o che una cosa fa male quando invece si sa che fa bene, per mantenere il proprio prestigio, è il peccato contro lo Spirito santo.

 

 

 

venerdì 24 febbraio 2023

OMELIA DOMENICA 26 FEBBRAIO 2023

 



PRIMA DOMENICA DI QUARESIMA/A

 

Paolo Cugini

Il ciclo liturgico A, che è quello che stiamo vivendo, durante il tempo di quaresima riporta il percorso messo a punto dalle prime comunità, che veniva utilizzato come itinerario quaresimale per i neofiti, che avrebbero ricevuto il battesimo la notte di Pasqua. Approfittiamo, allora, di questo percorso per rivedere e riprendere in mano il nostro battesimo, il nostro cammino di fede, la nostra possibilità di convertirci al Vangelo.

Il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente” (Gen 2, 7). L’essere vivente, così come lo descrive Genesi, è dato dal soffio di Dio su di un po' di polvere del suolo. Immagine forte e vera che dice della realtà dell’uomo e della donna. Non siamo altro che un po' di polvere tenuta in vita dal soffio di Dio. Forse questa presa di coscienza offre già un primo spunto di riflessione: se non volgiamo che la nostra polvere si disperda nel vento, dobbiamo far di tutto per trattenere il soffio di Dio che è dentro di noi e che ci tiene in piedi. Se guardiamo, infatti, alla croce di Cristo che cosa vediamo di tanto differente da noi? Vediamo la “polvere” di un corpo morto, la fragilità della condizione umana destinata a morire, a spegnersi. In Gesù, però, quel corpo morto dice qualcosa di grande a coloro che lo osservano con attenzione. Rivela, infatti, una vita donata gratuitamente per amore. Quel corpo morto respira amore, pace e giustizia da tutti i pori e trasmette vita a tutti coloro che lo guardano con fede. Il corpo di Gesù è una “polvere” che è stata totalmente trasformata dal soffio di Dio presente in Lui. Come ha fatto Gesù? Cosa possiamo fare noi affinché la polvere che siamo non si disperda nel vento, ma diventi segno di amore e fonte di vita per coloro che ci sono vicini?

Il Vangelo delle tentazioni messo dinanzi a noi dalla liturgia, ci offre alcuni spunti di riflessione in questa direzione.

Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo” (Mt 4,1). Gesù, come ognuno di noi, è tentato dal diavolo: che cosa significa questa affermazione? Il deserto è il simbolo della vita che, di fatto, si presenta come un cammino in cui spesso non sappiamo dove andare e cosa fare. La vita come deserto rivela la debolezza della nostra condizione umana e, allo stesso tempo, la necessità di affidarsi a qualcosa, qualcuno per venirne fuori. Non è detto, poi, che ogni vita abbia una conclusione positiva, che riesca davvero ad uscire dal deserto. Anche perché nel deserto della vita c’è qualcosa che ci distoglie dal cammino intrapreso, che è quello appreso nell’infanzia dai genitori, dalla scuola, dalla Chiesa, dalle figure educative. Proprio mentre stiamo attraversando il deserto della vita, nel momento in cui avremmo bisogno di certezze che ci rassicurino sul cammino intrapreso, veniamo colti da dubbi, tentati a spostarci dal cammino per entrare in un altro che, in apparenza sembra più facile, più sensato, più corrispondente alla nostra sensibilità, alla nostra percezione della realtà. “Diavolo”, allora, è il nome che diamo a tutto ciò che provoca un nostro ripensamento, una difficoltà nel percorso e si presenta sempre con l’aspetto migliore di quello che abbiamo abbracciato. E così nascono i dubbi, le difficoltà, le incomprensioni e, soprattutto, gli sbagli, alcuni dei quali, con l’andar del tempo risultano fatali. “Il diavolo” fa presa sulla nostra struttura umana, la nostra polvere, sulla nostra parte debole, fragile, in una parola: vulnerabile. Il Vangelo delle Tentazioni descrive questa parte fragile mostrando i punti in cui la nostra umanità diventa sensibilissima all’errore. In primo luogo, c’è la parte istintuale (le pietre che diventano pane) che, se non è guidata da un orientamento di fondo, conduce la persona alla distruzione. In secondo luogo, la costante tentazione di sentirsi autonomi, non bisognosi di nessuno e di nulla, autosufficienti, in una parola: come Dio. È la tentazione che ci assale quando poniamo la nostra sicurezza nella salute, o nel denaro, in qualcosa d’esterno che garantisce la nostra assoluta autonomia. Quando permettiamo a questa tentazione di aprire un varco nella nostra umanità, l’annientamento si annida immediatamente alle porte. Infine, c’è la tentazione del potere, che ci conduce istintivamente a sentirci migliori degli altri e, quindi, a creare relazioni di oppressione e di sottomissione.

È possibile resistere a queste tentazioni e rimanere nel deserto della vita orientati verso una meta sicura?

Gesù nel Vangelo ci offre un esempio. Nel deserto della sua vita Gesù non ci entra da solo, ma sospinto dallo Spirito. Questo suo cammino e la tentazione successiva, avvengono dopo quaranta giorni di digiuno, che indicano l’esperienza spirituale che rafforza la fiducia nel Padre. Gesù, dI fatto, alle provocazioni de “diavolo” risponde sempre con citazioni bibliche. Dal contesto si percepisce molto bene che non si tratta semplicemente di versetti appresi a memoria, ma assimilati, fatti proprio, connaturali alla propria esistenza. Per fare in modo che la Parola di Dio divenga a noi connaturale, occorre dedicarle molto tempo, solo così il soffio dello Spirito di Dio non solo rimane in noi, ma durante gli anni della vita, trasforma la nostra umanità in amore, pace e giustizia. La narrazione del Vangelo ci dice che questa possibilità di una umanità che resiste alle tentazioni e che rimane in piedi è reale, perché Gesù era fatto di carne, di sangue e di ossa come noi.

Per l'opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita (Rom 5, 18). Paolo, nella seconda lettura di oggi, ci ricorda che Gesù non è semplicemente un esempio esterno, ma il suo amore, la sua vita viene riversata dentro di noi per mezzo dello Spirito Santo. Abbiamo tutto per riuscire a vivere le nostre scelte, anche nel mezzo del deserto della vita sospinti dalle illusioni. Spetta a noi l’umiltà di fare spazio allo Spirito del Signore della vita. 

mercoledì 22 febbraio 2023

LASCIAMOCI RICONCILIARE CON DIO

 



MERCOLEDI DELLE CENERI 2023


Paolo Cugini

 

Mercoledì delle Ceneri: inizia la quaresima. Desiderio di vivere intensamente questo periodo spirituale per recuperare un cammino di ricerca di senso, intensificarlo. Sono giorni in cui ci viene data la possibilità, anche attraverso le letture di ogni giorno, di riscoprire la bellezza della vita, la gioia di una vita vissuta con amore, come donazione gratuita di sé. E allora, coraggio, mettiamoci in cammino, cerchiamo il Signore mentre si fa trovare. Mettiamoci in cammino per trovare la strada della vita autentica, ripulendo la nostra esistenza da ogni ipocrisia, dalle vite doppie. Prendiamoci sul serio, togliamo il male dalla nostra esistenza per vivere bene a pieni polmoni.

Laceratevi il cuore e non le vesti,
ritornate al Signore, vostro Dio,
perché egli è misericordioso e pietoso,
lento all'ira, di grande amore
(Gal 2,13).

Laceratevi il cuore: è un invito a fare sul serio, a non fermarci all’apparenza, a cambiare elementi esterni della nostra vita, ma avere il coraggio di entrare dentro, in profondità, per vedere cosa c’è che non va, che ci fa stare male. In questo percorso interiore ci viene indicato l’obiettivo: scoprire la misericordia di Dio. Abbandonare la tranquillità della religione con le sue leggi e i suoi decreti per fare spazio all’amore di Dio manifestato da Gesù. Quaresima come cammino per apprendere a lasciarsi amare, a permettere al Signore di curare le nostre ferite, quelle che si formano con il senso di abbandono, di non essere considerati, che attaccano la nostra autostima e la indeboliscono. Lasciamoci amare dal Signore, riconciliare con Lui.

«Al momento favorevole ti ho esaudito e nel giorno della salvezza ti ho soccorso». Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza! (2 Cor 6,2). Tentazione di rimandare a domani, perché il cambiamento ci fa paura. Paolo nella seconda lettura ci invita ad avere coraggio, ad iniziare adesso questo cammino, per permettere all’amore del Signore di entrare dentro di noi per trasformarci, rinnovarci. È ora il momento favorevole: non rimandare a domani, iniziamo ora. Facciamo insieme, come ci suggerisce Gioele nella prima lettura.

State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro… ma solo il Padre tuo che vede nel segreto (Mt 6,1.18). è questo il lavoro che il tempo di quaresima ci sollecita: fare di tutto per diventare persone autentiche, che non hanno doppie vite, doppie parole, che non cercano il giudizio degli uomini e delle donne. Uscire dai cammini che ci conducono ad una vita ipocrita, fatta di apparenza, per mostrare ciò che non siamo e nascondere il nostro vuoto. Tempo di quaresima è il tempo in cui ci mettiamo a disposizione per farci riempire dall’amore di Dio.

 

martedì 21 febbraio 2023

ED ESSI TACEVANO

 



Paolo Cugini

 

Creare le condizioni per vivere bene e serenamente. Non attaccare in modo diretto ciò che provoca il disagio, ma creare le condizioni affinché sparisca. In un certo senso è sulla linea di ciò che dice il libro del Siracide oggi, quando afferma: “preparati alla tentazione” (Sir 2,2). Ci si prepara nella fedeltà alle scelte fatte, ai tempi prefissati, ai ritmi prestabiliti. Una vita disordinata è il presupposto per aprire la porta alla tentazione.

Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Mc 9,35). Tentazione di voler essere migliore degli altri: è il sintomo di un vuoto, di una carenza d’amore. Vogliamo dominare sugli altri quando siamo dominati dal nulla che c’è dentro di noi, Una persona soddisfatta, pienamente realizzata, non ha bisogno di nulla, tantomeno di voler prevalere sugli altri, di voler dominare. L’esempio di tutto ciò è Gesù. Lo vediamo, infatti, in situazioni in avrebbe potuto approfittare della sua notorietà per prevalere sugli altri. Invece, ogni volta che compie un gesto eclatante, se ne va. Come nella moltiplicazione dei pani narrata da Giovanni (cap. 6). Gesù non ha bisogno del plauso degli uomini perché è pieno dell’amore di Dio. È soddisfatto di questo amore che lo riempie e cerca in continuazione attraverso una relazione personale e unica. Mi sembra questo un grande insegnamento. Vivere la preghiera, la meditazione, la riflessione come momenti in cui cerchiamo di riempirci dell’amore del Signore, facendo spazio alla sua Parola. Il segno del valore di tutto ciò dovrebbe rivelarsi in ciò che cerchiamo, nella libertà delle relazioni che instauriamo.

È su questo che occorre lavorare per un’umanità più autentica e libera. L’atteggiamento dei discepoli del Vangelo di oggi, infatti, ci mostra che non basta seguire il Signore, stare con Lui, frequentare le iniziative parrocchiali: tutto dipende da cosa stiamo cercando. La quaresima che inizia domani potrebbe avere como obiettivo proprio questa modalità di stare al mondo, che ha caratterizzato la vita di Gesù. Cercare l’autenticità, non l’apparenza e, per fare questo, è necessario riempirsi l’anima di amore.

 

giovedì 16 febbraio 2023

OMELIA DOMENICA 19 FEBBRAIO 2023

 




DOMENICA VII/A

 

 

Paolo Cugini

 

Continua la lettura del discorso della Montagna, la proposta programmatica di Gesù per i suoi discepoli e discepole. È una proposta, per certi versi, shoccante, perché ribalta i criteri di comportamento, il modo d’intendere la relazione con le persone. Sono esigenze nuove quelle proposte da Gesù, che richiedono una disponibilità al cambiamento, al mettersi in discussione. Come dirà lo stesso Gesù: vino nuovo in otri nuovi (Mc 2,22). Continuiamo, allora, a lasciarci provocare dalle sue parole, nella speranza che la provocazione generi nuovi cammini di conversione.

Avete inteso che fu detto… Ma io vi dico”. Gesù è l’interprete della legge, delle parole antiche che sono state trasformate dall’uomo per renderle più sopportabili. Quello che facevano passare come legge, parola di Dio, in realtà non si trattava altro che di tradizioni umane. Per questo Gesù sente l’esigenza di reinterpretarle, per dare a questa legge di Dio il vero significato. Questo esercizio d’interpretazione di Gesù apre le porte per una prospettiva interpretativa che ogni persona ed ogni comunità deve compiere. La parola di Dio esige di essere interpretata, attualizzata, verificata, per non correre il rischio di obbedire a dettami umani, più che a qualcosa che viene dall’alto. Ogni trasformazione umana è un’operazione al ribasso, dettata dall’egoismo, per questo il cammino esige la verifica costante di una parola che tende fossilizzarsi ed essere modificata. Il criterio di questa verifica è il Padre: siate santi come il Padre vostro è santo. Che cosa significa e come si attua concretamente? Se è vero che ci sono pochissime definizioni sul Padre nella Bibbia, è a queste che si deve costantemente tornare. Vale a dire, Se Dio è amore, misericordia e se, come ci ricorda l’apostolo Giovanni nelle sue lettere, Dio è amore, allora ogni legge che incontriamo, ogni affermazione della Chiesa e del Magistero dev’essere verificato su questo punto: esprime amore? Esprime misericordia? Se la risposta è positiva, allora si può proseguire. Al contrario, se prevale nella legge l’esigenza di una giustizia umana impastata spesso e volentieri di rancori, tornaconti personale, allora è meglio lasciare perdere e verificare immediatamente il peso delle parole pronunciate.

Il Vangelo è una prospettiva nuova: per questo il metro di misura non può essere che il Padre. Pensare alla relazione che ho con le persone a partire dalla misericordia del Padre. Da questo sguardo si sviluppano prospettive nuove che sovvertono le logiche del vissuto quotidiano nel mondo. E così, dalla logica del merito si passa a quella del dono. Il Vangelo è una proposta esagerata, che non fa calcoli, come è l’amore vero, quello che viene da Dio e che si è manifestato in Gesù Cristo, il quale, se avesse fatto dei calcoli umani, non si sarebbe di certo lasciato crocefiggere.

Avete inteso che fu detto: "Occhio per occhio e dente per dente". Ma io vi dico di non opporvi al malvagio. È una bellissima indicazione spirituale che ha un valore esistenziale e che, allo stesso tempo, rivela un contenuto diverso da quello che emanano gli istinti. Se, infatti, l’istinto di sopravvivenza risponde in modo immediato al male ricevuto con un altro male, non così i cristiani che sono mossi non dagli istinti, ma dallo Spirito del Signore, che è lo Spirito dell’amore. Al male non si risponde con dell’altro male perché rispondendo si permette al male di entrare nella propria anima e devastarla. Si può distruggere il male solamente rispondendo con il bene: è questa la logica sbalorditiva del Vangelo. Questa profonda idea ha trovato eco nella comunità primitiva. La troviamo infatti sia nelle lettere di Petro (1 Pt 3,9) he in Paolo (Rom 12,17; 1 Ts 5,17). Certamente, non si tratta di un atteggiamento semplice da mettere in atto: richiede l’assimilazione dello Spirito del Vangelo. Ha, dunque, ragione Paolo quando invita i membri della comunità di Roma a non lasciarsi vincere dal male, ma a vincere il male con il bene (Cfr. Rom 12,21). Il modo per disinnescare il male nel mondo consiste nel rispondergli con il bene. Arrivare a questo punto del cammino cristiano significa imparare a fare spazio allo Spirito del Signore, a discernere ogni azione con ciò che ispira il Vangelo.

Avete inteso che fu detto: "Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico". Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano. Altro versetto sbalorditivo che va nella direzione opposto del sentire comune. Perché queste parole, questa indicazione così dura e radicale da sembrare impossibile da compiere? Come si fa ad amare i nemici? È il segno della differenza della vita del cristiano, del discepolo, della discepola del Signore: un amore che arrivo sino al punto di amare i nemici. Senza dubbio si tratta di un cammino da percorrere, che esige lo svuotamento di sé, il non essere attaccato a nulla, nemmeno alla propria immagine. Amare i nemici e pregare per loro è il frutto di cammino di liberazione da ogni tentativo di difendere il proprio egoismo, le proprie strutture istintive. Arrivare ad amare i nemici significa aver appreso quella lezione che Paolo indica alla sua comunità di Roma: “nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore” (Rom 14, 7-8). Sono parole che ci stimolano a vivere puntando in alto, aspirando ad uno stile di vita che ha il sapore del Vangelo. Per questo Gesù ci invita oggi ad essere perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste. Il cammino della santità è l’amore senza condizioni. Cammino arduo, ma possibile con il suo aiuto. Per Gesù, infatti, non si tratta solamente di parole. Sul legno della croce ha perdonato coloro che lo stavano uccidendo, cioè i suoi nemici. Ha pregato per loro, come aveva insegnato durante la vita.  

mercoledì 15 febbraio 2023

MISERICORDIA

 




[annotazioni di Paolo Cugini]

l’idea di misericordia ha conosciuto, per tutta l’epoca moderna, un imbarazzante oblio, che l’ha portata a prendere progressivamente congedo dalla modernità. In quest’epoca si addensò, attorno alla misericordia, il sospetto di essere nemica della giustizia, rappresentando così il principale ostacolo alla creazione di un ordine etico valido per tutti. La misericordia – così si iniziò a pensare – avrebbe come esito inevitabile il disimpegno dell’uomo: essa non porterebbe alla trasformazione del mondo, ma a discolpare i carnefici, infiggendo alle vittime una nuova ingiustizia.

D’altro canto, la svalutazione della misericordia trovò validi alleati anche in quei sistemi economici che, esaltando il profitto individuale, videro nella competizione l’imperativo fondamentale dello sviluppo economico. È nota, per questo periodo, l’ostinazione con la quale Nietzsche si scagliò contro la virtù della misericordia. Per l’autore de L’Anticristo, la misericordia sarebbe espressione di debolezza, una pericolosa disposizione nemica della vita, indegna dell’uomo forte. Così si legge, ad esempio, nelle pagine iniziali de L’Anticristo: «Il cristianesimo è chiamato la religione della compassione. La compassione […] agisce in senso depressivo. Si perde forza quando si ha compassione […]. Nulla è più malsano, in mezzo alla nostra malsana umanità, della compassione cristiana».

L’ATTESTAZIONE DELLA SCRITTURA

Tutte le Scritture – tanto dell’Antico che del Nuovo Testamento – parlano dell’amore di predilezione che Dio nutre per il suo popolo e, più in generale, per tutti gli uomini.

a.                      L’Antico Testamento.

 Benché nelle prime pagine della Bibbia non si trovi ancora il termine «misericordia», la realtà che esso sottende è però già ampiamente presente. L’orientamento più profondo, tipico e originale della Bibbia, è indubbiamente il fatto che Dio incontra l’uomo nella storia e – attraverso il suo agire – entra in dialogo con lui come un Dio personale.

L’idea della misericordia diventa invece esplicita nella seconda rivelazione del nome. A Mosè, che vorrebbe conoscere il volto di Dio, Jahvé risponde con queste parole: «Farò passare davanti a te tutta la mia bontà e proclamerò il mio nome […]. A chi vorrò far grazia farò grazia e di chi vorrò aver misericordia avrò misericordia» (Es 33,19). Si arriverà a una terza rivelazione del nome: Jahvé è un «Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà» (Es 34,6).

È significativo osservare che – sul piano stesso del linguaggio – la compassione e la misericordia di Dio siano dette facendo riferimento a una terminologia articolata e complessa che non chiude Dio all’interno di una definizione, ma ne ripropone sempre e di nuovo l’inafferrabilità. Tra gli altri, spiccano soprattutto due termini, che l’esegesi ci ha ormai abituato a riconoscere e individuare.

Il primo, rahamîm, è un plurale che indica anzitutto le viscere e, in senso derivato, la sede dei sentimenti. Fa riferimento prevalente al grembo materno e al sentimento viscerale che una madre prova per il proprio figlio. Il soggetto di tale misericordia è sempre Dio (cf Is 55,7; 63,15; Ger 31,20; Os 14,4; Sal 69,17), mentre per la relazione inversa – quella dell’uomo nei confronti di Dio – tale lessico non ricorre mai.

C’è però anche un secondo termine, hesed – utilizzato sia in ambito profano che in relazione a Dio –, che indica, fra le altre cose, la benevolenza dell’uomo verso il proprio simile o il proprio sottoposto e la fedeltà a questo atteggiamento, fino al limite dell’indulgenza e della misericordia. È insito in questo termine l’elemento di una disposizione favorevole della volontà. Per Jahvé mostrare hesed nei confronti di Israele significa stringere gratuitamente con lui un rapporto di alleanza e restarvi fedele fino al punto estremo di far violenza contro se stesso per perdonare il peccato. Esso indica dunque, in ultima analisi, un dono che va al di là di qualsiasi reciproco rapporto di fedeltà.

In breve: la santità di Dio, il suo essere totalmente diverso dall’uomo, non si manifesta nell’ira o nel dominio, ma nella misericordia. La sua trascendenza non si afferma nella presa di distanza dall’uomo, ma in una familiarità che sorprende e commuove. Per questo la Bibbia parla diffusamente del cuore di Dio che ascolta il grido dell’uomo, si commuove per lui e si rivolta addirittura contro se stesso (cf Os 11,8).

b.                      Il Nuovo Testamento.

 È però soprattutto il Nuovo Testamento a rivelare la misericordia come la maggiore perfezione di Dio. Qui la novità consiste nel trasferire all’umanità di Gesù – perfino alla carne sfigurata del crocifisso – i tratti della misericordia divina.

Spetta soprattutto alle parabole mettere a tema, se così si può dire, i tratti inequivocabili della misericordia divina. Quella del Padre misericordioso (cf Lc 15,11-32), ad esempio, insiste sul fatto che la misericordia oltrepassa ogni diritto e ogni attesa.

Tale misericordia è illustrata ancor meglio dalla parabola del buon samaritano (cf Lc 10,30-37), un semipagano che, pur non avendo obbligo alcuno, vede un uomo incappato nei briganti, ne prova compassione, interrompe i suoi affari e si prende cura di lui, pagando in anticipo (cf Lc 10,30-35). È nota l’interpretazione che ne hanno dato i padri della Chiesa. Essi hanno visto, nel samaritano, l’immagine di Cristo che, attraverso il giumento della sua umanità, si è messo in viaggio per raggiungere l’uomo depredato, in seguito al peccato, dell’abito della grazia soprannaturale.

La tradizione cristiana – a partire da quella sedimentata nella Scrittura – non ha dunque mai mancato di indicare la misericordia di Dio come la sua perfezione originaria e, per derivazione, come il motore di tutta l’opera della redenzione. Anzi, a voler essere rigorosi, fu proprio dalla contemplazione dell’opera della redenzione che si giunse a individuare, nella misericordia divina, il cuore stesso di Dio.

Altrettanto singolare suona il detto neotestamentario secondo cui l’amore di Dio «è stato riversato nei nostri cuori» (Rm 5,5) attraverso l’opera dello Spirito. In sintesi: un’attenta lettura del Nuovo Testamento induce ad attribuire la misericordia, non solo al Padre, ma al Dio uno. Dunque, in ultima analisi, alla Trinità. È la misericordia – perfezione ultima di Dio – il motore di tutta l’opera della redenzione, che trova il suo culmine nella Pasqua del Figlio.