Pr 9,1-6; Sal 33; Ef
5,15-20; Gv 6,51-58
È la quarta di cinque
domeniche che la liturgia dell’anno B dedica al capitolo sei del Vangelo di
Giovanni, che è una profonda catechesi sul tema dell’eucarestia. Continuiamo,
allora, a seguire le indicazioni di questo Vangelo per tentare di comprendere
meglio il mistero eucaristico.
Io
sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in
eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo (Gv 6,51).
È importante sottolineare
che Gesù non consegna ai suoi discepoli l’anima, ma il corpo e il sangue. Il
brano di oggi parla di carne: molto forte. È una scelta chiara di Gesù, l’ha
pensata attentamente, non è stata una svista, un equivoco. Fa scalpore,
soprattutto, nel contesto culturale dell’epoca, dominato dalla filosofia di
stampo platonico, che alimentava una visione antropologica di tipo dualista.
Platone sosteneva che il corpo è la prigione dell’anima e il cammino del
filosofo consiste in un percorso di liberazione dell’anima. Per questo, Socrate
non si ribella alla condanna a morte che gli era stata inflitta, per dare un
esempio ai suoi discepoli, l’esempio di una vita che cercava con la riflessione
e lo studio di liberare l’anima dal peso insopportabile del corpo. Questa
sottolineatura rende ancora più eclatante e rivoluzionaria la proposta di Gesù.
In un clima culturale che evidenziava fortemente la dimensione invisibile della
persona, la sua anima, Gesù, al contrario, sottolinea la visibilità, la
corporeità. Ancora una volta, sin nelle parole finali dell’ultima cena, Gesù
manifesta la grande novità del cristianesimo, vale a dire che in Lui, nella
persona e nel corpo di Gesù, Dio si è fatto visibile e il suo corpo rivela i
tratti del Mistero. Il principio dell’incarnazione del verbo accompagna tutta
l’esistenza di Gesù dall’inizio alla fine.
Nel linguaggio biblico,
dunque, corpo indica la persona in quanto vive la sua vita in un corpo, che è
la condizione normale dell’uomo e della donna. Corpo indica, quindi, tutta la
vita. Dicendo: “io darò è la mia carne per la vita del mondo”, Gesù non ci ha donato delle fibre,
delle ossa, ma ci ha donato tutta la sua vita, con le gioie e i dolori, le
fatiche e le speranze, le lotte e le umiliazioni: tutto se stesso. Ci ha donato
anche il suo sangue, che è senza dubbio un simbolo di vita, ma che nella
prospettiva aperta dalla riflessione che stiamo svolgendo, è anche il simbolo
della sua morte. Non va dimenticato, infatti, che le parole che Gesù ha
pronunciato nell’ultima cena, costituiscono non solamente un dono per i suoi
amici e amiche, ma anche e, forse soprattutto, una profezia, la profezia della
sua morte. L’eucarestia diviene, dunque, il simbolo della vita di Gesù, che
Egli stesso consegna ai suoi, perché questa sua vita, che è un corpo spezzato e
un sangue versato per tutti e tutte - la mia carne è vero cibo e il
mio sangue vera bevanda -,
diventi il punto di partenza della vita nuova in Cristo, il punto di partenza
della comunità dei discepoli e delle discepole del Signore.
C’è un’altra riflessione
che possiamo fare a questo punto del discorso. In sintesi, si potrebbe dire:
Gesù ha comunicato la divinità di Dio, attraverso la mediazione del suo corpo.
Tutta la divinità di Dio si trova nel corpo di Gesù e tutto quello che con il
corpo Gesù ha espresso. Consegnandoci il
suo corpo e il suo sangue, Gesù ci ha consegnato anche lo spazio in cui sono
maturate le sue scelte. Cosa c’è in quel piccolo pezzo di pane divenuto corpo
di Cristo? C’è tutto Gesù, le sue scelte, il suo modo di essere, di vivere, il
suo modo di pensare che veniva comunicato proprio attraverso il suo corpo. In
quel frammento che è l’ostia consacrata, c’è lo Spirito del Signore che ci
aiuta a vivere come Lui, a creare relazioni nuove non più basate sull’istinto
di sopravvivenza, che provoca invidie e tensioni, ma sul dono gratuito di sé,
che genera amore, disponibilità al servizio.
Se proviamo ad estendere
questa intuizione alle situazioni della nostra esistenza, potremmo cogliere
qualche insegnamento utile per la nostra vita, non solo per il nostro cammino
di fede. Spesso, confrontandoci con le immagini che presenta il mondo, viviamo
situazioni di frustrazione e angoscia. Ci sentiamo, infatti, inadeguati perché
non partecipiamo allo sfarzo, non viviamo in una grande città e ci sentiamo
isolati dal mondo. Eppure, se pensiamo a Gesù, constatiamo che i suoi numeri,
le sue dimensioni, sono molto simili alle nostre. È nato in quel frammento del
mondo chiamato Betlemme, alla periferia di Gerusalemme e non nella città. Ha
iniziato a predicare e ad annunciare il Regno di Dio non nella grande città, ma
in quel frammento di terra che era Cafarnao. Al suo seguito non c’erano i
signori, i re, i potenti del tempo, ma il frammento dell’umanità esclusa, i
poveri, gli indigenti. Il messaggio che arriva da queste considerazioni è molto
chiaro: la grandezza della nostra vita non dipende da un discorso di quantità,
ma di qualità. C’è una dignità umana che non dipende dalla quantità che
accumuliamo, ma dalla dignità di essere figli e figlie di Dio. Avvicinarci al
corpo di Cristo, a questo frammento misterioso e assimilarlo significa riscoprire
la gioia di essere amati dal Signore. Capire questa grandezza è uno dei doni
più belli della vita, che ci conduce continuamente ad abitare con gioia i
frammenti esistenziali, nella consapevolezza che è proprio in questi frammenti
che il Signore ha nascosto la sua grandezza.
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