Paolo Cugini
“Egli
preparerà la tua via” (Is 40, 3). C’è una proposta di grande speranza nelle
letture di oggi. Da una parte c’è un’umanità che non riesce a strutturarsi nel
bene, dall’altra ci sono i profeti che vedono cose nuove, strane, tutte all’opposto
di ciò che si penserebbe e che ci si aspetterebbe. I profeti sono persone che
vivono una particolare esperienza esistenziale, che vedono cose che gli altri
non vedono, che cercano qualcosa che l’umanità non considera, che hanno gli
occhi spalancati su ciò che l’umanità li ha chiusi. E allora vedono l’invisibile,
l’impercettibile, percepiscono un cammino nascosto dentro la storia, un cammino
di vita nuova in mezzo a situazioni vecchie, un cammino non condizionato dall’egoismo
umano, ma da una qualità di vita diversa e per questo viene chiamata: via del
Signore. C’è questo cammino nuovo che siamo invitati a percorrere all’inizio
di questo nuovo anno liturgico, cammino che forse a tratti abbiamo già
percorso, ma che probabilmente non siamo riusciti a gustare fino in fondo, perché
distratti da altri cammini ritenuti superficialmente più allettanti perché più
immediati. E allora, il grido che oggi esce dal deserto è quello di riscoprire
la bellezza di una relazione nuova, che esige attenzione, riscoprire il gusto
di una vita piena che viene non dai calcoli dei propri sforzi, ma dall’accoglienza
umile del dono di un sorriso, di un abbraccio, di uno sguardo del fratello e
della sorella accanto a noi. Piccole cose, ma che dicono che la grandezza di
quello che noi chiamiamo Dio è passata attraverso le parole, gli sguardi e le
attenzioni del suo figlio amato per coloro che gli erano vicini. Accogliendo il
suo Spirito c’impegniamo a fare altrettanto. È questo quel cammino nuovo che,
non a caso, veniva identificato con la Chiesa che, prima di essere un edificio
o una gerarchia, è uno stile di vita.
“Consolate,
consolate il popolo mio” (Is 40,1). Come fa l’anima rimanere insensibile
dinanzi a questo annuncio? C’è un desiderio percepito dal profeta di curare la
vita ferita del popolo d’Israele, umiliato nella terra d’esilio. Da dove viene
questo desiderio? Il profeta lo coglie come un volere di Dio. C’è una volontà
di vita autentica che è dentro la storia e che è più forte delle debolezze
umane, dell’incapacità dell’uomo e della donna di vivere bene la propria vita.
C’è qualcosa di più forte del male dell’uomo e della donna e questa forza
positiva è colta dal profeta come realtà sovrasensibile, come qualità
spirituale indistruttibile. Non solo, ma questa consolazione che viene dal
cuore della storia e che ha il sapore della misericordia del Dio che è Madre e Padre,
s’inserisce nel desiderio di pace dell’uomo e della donna e per questo viene
percepito con una gioia immensa. “Tutti gli uomini insieme la vedranno”
(Is 40, 5). Per chi nella vita è già passato da esperienze di esodo, di esilio,
di fuga da situazioni di violenza, sa come da queste terre altre, la mente e il
cuore umano rimangano avvinghiate al proprio passato, nella speranza continua di
tornare alla terra natale. Il grido di consolazione lanciato da Isaia è diretto
al popolo d’Israele in esilio a Babilonia, risuona nel cuore dell’umanità di
tutti i tempi, quell’umanità che non accetta le situazioni violente e
aggressive come un destino inoppugnabile, ma che cerca con tutte le forze esistenziali
e spirituali un futuro che assomigli il più possibile al passato di gloria
infisso nella memoria. C’è un desiderio di vita autentica dentro al cuore dell’umanità,
che coincide con il desiderio del Dio della rivelazione manifestato nel Suo
Figlio Gesù, un desiderio di amore infinito che non può che donarsi
continuamente perché è donandosi che genera vita. La Parola che ascoltiamo
nelle liturgie è un continuo richiamo a quella vita autentica manifestatasi nel
Figlio e che sentiamo profondamento nostra, nonostante tutto. E’ questa, allora,
la nostra consolazione, vale a dire, che quel desiderio di vita che abbiamo nel
cuore e che spesso non riusciamo ad esprimere, verrà manifestato definitamente
dal Figlio ad un livello così alto che ci sarà donato gratuitamente dal Suo
Spirito.
“Preparate
la via del Signore” (Is 40,3). E’ così grande il dono che arriva annunciato
dal profeta, la consolazione insperata, che all’uomo e alla donna non tocca
altro che prepararsi a questo dono. Il dono precede lo sforzo e, in un certo
senso, lo sostiene e lo orienta. Cogliere questo dettaglio è di fondamentale
importanza per non far scivolare il discorso sul piano morale che provoca i sensi
di colpa, tipici di una prospettiva religiosa. Anzi, se c’è una prospettiva che
queste pagine della seconda domenica di avvento vogliono sottolineare, è proprio
questa uscita dalla prospettiva religiosa per entrare nella dimensione della
fede che, invece di sacrifici, sforzi, esige amore, accoglienza, gratitudine. Uscire
dalla logica religiosa, significa quindi abbandonare la logica del merito per
entrare nella relazione materna e fraterna della vita in Cristo. E infatti, non
è un caso se il popolo d’Israele per trovare una nuova relazione con Dio esce
da Gerusalemme dove c’è il tempio, che simbolizza la religione per antonomasia,
ma che non è stata in grado di riempire di senso la vita del popolo, e va verso
il deserto per ascoltare la voce di un profeta: Giovanni battista, che incarna il
nuovo Elia (a questo punto si potrebbero fare delle attualizzazioni stupende:
le lascio alla fantasia dei lettori). “Accorrevano a lui tutta la regione
della giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme” (Mc 1, 5). D’ora innanzi,
il senso di una vita piena, che consiste in relazioni umane fondate non sul
merito, ma sul dono di sé, proprio come ci mostrerà Gesù, che non a caso Marco
definisce figlio di Dio e non di Davide, per indicare una netta presa di
distanza dal dio violento e guerriero del re di Gerusalemme, mostrando in
questo modo il volto nuovo di Dio che verrà presentato dal suo Figlio, l’amato,
il volto della misericordia, della pace, che si diffonde nell’umanità attraverso
il dono del suo spirito. “Egli vi battezzerà in Spirito Santo” (Mc 1,8).
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