mercoledì 27 aprile 2022

CHI SONO IO PER ANDARE DAL FARAONE? LA VOCAZIONE DI MOSE'

 

 



(dal diario spirituale del 2005)

 

Le 4 obiezioni domande di Mosè a Dio, all’inizio della sua vocazione:

1 Es 3,11: chi sono io per andare dal Faraone e per togliere gli Israeliti dall’Egitto?

 

È l’obiezione logica dinnanzi alla proposta di Dio che supera le mie aspettative, previsioni. Soprattutto supera l’idea che ho di me stesso. Questo è un dato importantissimo: crescendo nel tempo mi faccio un’idea di me stesso che nonostante tutto rimane al di qua dell’idea che Dio ha di me. L’idea che mi costruisco in contatto con il mio ambiente, la mia famiglia, gli amici, il lavoro è relativo a questo ambiente determinato. L’entrata di Dio nella mia storia spezza la scorza della mia identità che mi sono costruito e mi colloca su di un altro orizzonte, che non avevo previsto, pensato, collocato. Per certi aspetti nessuno è preparato ad accogliere una proposta del genere.

Se vogliamo riflettere, nella storia di Mosè c’erano già i segni del liberatore. Quando, per esempio, uccide l’Egizio perché stava maltrattando un ebreo, in questo episodio si può vedere in germe la vocazione del futuro liberatore. Con una grande differenza: qui è Mosè che prende l’iniziativa e, scontrandosi con la dura realtà, fugge per paura delle conseguenze. Nell’evento del roveto ardente l’iniziativa è di Dio. È Dio che lo chiama per nome e lo investe di una missione di liberazione del popolo d’Israele. Che cosa significa, allora, questo incarico di YHWH a Mosè? In primo luogo una fedeltà, una continuità. Il Dio che si manifesta a Mosè è lo stesso che si era rivelato ad Abramo, Isacco e Giacobbe: è il Dio dei padri! Dicendo così, Dio fa riferimento con una memoria storica, ad eventi che appartengono al popolo d’Israele: non è quindi un Dio sconosciuto, anonimo, impersonale. È il Dio della relazione, del dialogo personale. È il Dio libero che sceglie chi vuole. Abele invece di Caino, Giacobbe invece di Esaù, Efraim invece di Manasse, Giuseppe invece di Giuda. Abitare la scelta di Dio per vivere in pace. È il Dio che sceglie non secondo criteri e logiche umane, ma secondo criteri che sono nascosti. Certamente la scelta di Dio su un uomo per chiamarlo ad una missione non è secondo il merito o, tantomeno, le qualità personali. Queste sono caratteristiche che già sono presenti nell’apparizione di Dio a Mosè, ed è a questa storia, a questa identità che YHWH fa riferimento per manifestarsi e per auto presentarsi.

Attualizzando questo dialogo, questa prima domanda, che cosa si può dire? Che per avere la certezza che la chiamata viene da Dio e non è frutto di un mio desiderio o di una mia illusione o di altri desideri, ci vuole un minimo di conoscenza del passato del popolo d’Israele. Il Dio che chiama Mosè per liberare il suo popolo è questo: è il Dio di Isacco, Giacobbe Abramo, Giuseppe. Se è questo, vuole dire che non è un altro. La conoscenza della storia che Dio ha costruito e nel quale Dio stesso si è manifestato, distrugge gli altri dei, gli idoli che la mia fantasia ha costruito. Dio si fa presente nella mia storia e fa riferimento ad un passato. Questo è già un dato significativo. Il modo di Dio di presentarsi all’uomo e alla donna è delicato e attento affinché l’uomo non l’identifichi con un oggetto estraneo a sé. Guardando attentamente a come Dio si è presentato a Mosè, non c’è un’eccessiva sottolineatura della trascendenza, ma anche della storia, della sintonia di Dio con l’uomo, della delicatezza.

Mosè con il gregge di pecore entra nel deserto giungendo al monte di Dio, l’Oreb (che una tradizione identifica con il Sinai). Già qui ci sono vari dati interessanti. Il primo, è il fatto che se l’Oreb è chiamato “monte di Dio”, ciò significa che c’è già una tradizione, un costume che fa di questa montagna qualcosa di speciale. C’è dietro cioè, già una storia di incontri di Dio con l’uomo. Che tipo d’incontri la Bibbia tace, ma il semplice fatto di definire l’Oreb il monte di Dio, lo dice lunga sulla differenza di questa montagna dalle altre.

Il secondo dato interessante, è l’entrata di Mosè nel deserto. Schökel, nella Bibbia portoghese traduce: “transumando nel deserto”. È bello questo transumare, questo andare di Mosè per il deserto, quasi guidato dalle stesse pecore, segno di una libertà e di una spogliazione interna che lo predispongono al dialogo con Dio. Nel deserto, il luogo per antonomasia dell’incontro con Dio. Luogo di silenzio e solitudine in cui l’uomo è predisposto ad entrare in sé stesso, ascoltarsi e ascoltare il silenzio. È simpatico pensare che, preso per i suoi pensieri, in mezzo alla riflessione, Mosè si è lasciato guidare dalle pecore al monte di Dio, l’Oreb e poi Dio è apparso! È apparso con una delicatezza impressionante. È apparso in punta di piedi, per non turbare Mosè nei suoi pensieri. È apparso in un roveto ardente che, secondo una antica tradizione, è un arbusto selvaggio umile, disprezzato. Più silenzioso e delicato di così è impossibile! Lo ha distolto dai suoi pensieri con un arbusto inutile, selvaggio, disprezzato. Non è questo un versetto, un evento di sapore evangelico? Non si può dare a questo versetto un valore messianico? Il Dio dei padri, di Abramo, Isacco e Giacobbe è lo stesso che si è manifestato a Mosè in un roveto ardente ed è il medesimo che si manifesterà all’umanità in una Mangiatoia. Dio è grande nella semplicità. Per manifestarsi non ha bisogno della grandezza umana, ma fa grande l’uomo rivelandosi nella semplicità.

Un altro dato che mi chiama attenzione è che, l’incontro tra Dio e Mosè è frutto della sola volontà di Dio. Mosè non si è preparato per questo incontro. C’è una volontà assoluta di Dio che precede tutto. Mosè non si è preparato: ci ha pensato Dio. C’è una tradizione che divide la vita di Mosè in 3 momenti:

a)      0-40 anni: vita in Egitto fino all’uccisione dell’Egiziano

b)      40-80 anni vita nel deserto come pastore, sposo di Sefora

c)      80-120 anni dall’incontro con Dio nel deserto al viaggio nel deserto con il popolo d’Israele.

Ciò significa che Mosè aveva 80 anni quando Dio l’ha chiamato per compiere la sua missione. Non l’ha scelto nel fiore dell’età, ma alla fine. E poi, come sappiamo dai versetti successivi, non l’ha scelto per delle particolari doti oratorie: era balbuziente. Solo un dato è certo: Dio l’ha scelto e basta.

Con un passato così, con una storia così, la domanda di Mosè è pienamente giustificabile: “Chi sono io per andare dal faraone e per togliere gli israeliti dall’Egitto?” La chiamata personale di Dio getta immediatamente una luce sul passato di Mosè, sulla sua storia. Esiste una discrepanza infinita tra quello che lui pensa di essere (aveva 80 anni) e quello che Dio sa di Lui e vuole che lui sia.

Questa è vocazione: il mistero di una chiamata personale, di una scelta che mi supera. Ciò significa che se misuro la chiamata sulle mie forze, le me mie capacità, i miei pregi, i miei limiti, sono perduto. La chiamata di Dio non si basa sul merito, sulle qualità personali, sulla preparazione personali, ma è azione libera di Dio.

 

MI AMI TU PIU' DI LORO?

 



III DOMENICA DI PASQUA/ C

Paolo Cugini

 

Il tempo di Pasqua è il periodo dell’anno in cui la Chiesa c’invita a riflettere, in modo nuovo ed originale sul senso dell’esistenza. La Pasqua, infatti, presentando il tema del risorto, provoca la riflessione sul tema della vita, del suo significato e su ciò che vale davvero la pena spendere le proprie energie. In fin dei conti il Padre ha resuscitato il corpo di suo figlio Gesù che, durante la vita, aveva scelto una vita povera, umile, di basso profilo, non ha cercato, cioè, la gloria del mondo, il potere, i soldi. Questo aspetto, a mio avviso, deve far riflettere. La resurrezione di Gesù getta una luce nuova sulla storia dell’umanità e ne mette a nudo la povertà della proposta, tutta sbilanciata sul materiale, lasciando pochissimo spazio alla dimensione spirituale. Vediamo allora, a questo proposito, che cosa ci dicono le letture di oggi.

Fecero flagellare [gli apostoli] e ordinarono loro di non parlare nel nome di Gesù. Quindi li rimisero in libertà. Essi allora se ne andarono via dal Sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù (At 5, 40-41).

La situazione narrata nella prima lettura è indicativa di ciò che è avvenuto in coloro che hanno conosciuto il Signore e lo hanno incontrato risorto. C’è stato un evidente passaggio di prospettiva esistenziale. Sono, infatti, passati, da un atteggiamento di paura e di abbandono nei confronti del Maestro, al punto di essere giunti a consegnarlo, rinnegarlo e abbandonarlo, ad un atteggiamento in cui si sentono felici per essere stati oltraggiati in nome di Gesù. È la realtà di questo cambiamento che lascia esterrefatti e diviene una testimonianza che vale la pena ascoltare per approfondire il discorso sulla resurrezione di Gesù, che ha conseguenze significative sulle persone che lo incontrano. Che cos’è successo per arrivare ad un cambiamento radicale? Com’è possibile che persone così fragili e timorose diventino in poco tempo coraggiose e capace di argomentare le loro azioni? Incontrare il risorto significa, tra le altre cose, proprio questo: testimoni di un passaggio nella propria umanità che lascia un segno profondo capace di ribaltare l’impostazione. Cambiamento che non ha una spiegazione umana, che non si riesce a spiegare con la strumentazione scientifica, psicologica: c’è dell’altro.

Io, Giovanni, vidi, e udii voci di molti angeli attorno al trono e agli esseri viventi e agli anziani. Il loro numero era miriadi di miriadi e migliaia di migliaia e dicevano a gran voce:
«L’Agnello, che è stato immolato,
è degno di ricevere potenza e ricchezza,
sapienza e forza,
onore, gloria e benedizione
(Ap 5, 1s).

Giovanni vede la vittoria di Cristo sulla morte; non vede la croce, ma un trono, segno di vittoria e sul trono Dio stesso con accanto l’agnello immolato. Il dato interessante è che questo agnello immolato, che chiaramente si riferisce a Gesù, è in piedi, in segno di vittoria: nessuno è riuscito a piegarlo, a spezzarlo. L’odio del mondo non ha avuto la meglio sull’amore di Gesù, simbolizzato dal fatto che è immaginato come agnello sgozzato. I cristiani che seguono il Signore e si cibano di Lui, alimentano la coscienza con le sue parole, il suo messaggio vedono nel mondo non segnali di morte, ma di vittoria. Dove il mondo vede morte, i cristiani vedono vita. E siccome l’agnello è in piedi e con l’amore ha vinto l’odio, è degno di essere riverito ricevere la potenza da Dio Padre. Essere nel mondo segno della vittoria di Cristo sull’odio e sulle dinamiche di morte: è questo il compito dei cristiani nel mondo.

Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore (Gv 21, 17).

Nel cammino di fede non siamo verificati sul numero di riti e processioni alle quali partecipiamo ma esclusivamente sull’amore che doniamo. Bisogno aggiungere che se possiamo donare l’amore è perché l’abbiamo ricevuto gratuitamente dal Figlio, per mezzo dello Spirito Santo che lo ha riversato nei nostri cuori (cfr. Rom 5,5). Il balsamo della misericordia cura le ferite nell’anima di Pietro che per tre volte aveva rinnegato il Signore. Non c’è senso di colpa, disperazione, ma solamente misericordia che cura le ferite. Le relazioni che Gesù crea hanno questa impronta inconfondibile: non scava dentro all’uomo e alla donna per farli stare male, ma per far emergere il bene che c’è in ogni persona. 

mercoledì 20 aprile 2022

DOMENICA 24 APRILE 2022 II DOMENICA DI PASQUA/C

 



DOMENICA DELLA DIVINA MISERICORDIA 

 

Paolo Cugini

 

Nel tempo di Pasqua siamo chiamati a riflettere sulla comunità cristiana che vive della presenza del risorto. Questa è la verità di fede. Per noi Gesù non è un ricordo, un personaggio del passato, ma è il vivente che vive in mezzo a noi e ci guida per realizzare uno stile di vita nuovo, non più impernato sul nostro egoismo che ci chiude in noi stessi, ma sul suo amore che ci apre ad una vita verso gli altri, una vita di pace e di misericordia.

Scrivi dunque le cose che hai visto, quelle presenti e quelle che devono accadere in seguito (Ap 1,).

Il cristiano è una persona che vede il mondo in un modo diverso dagli altri. Se siamo soliti vedere la realtà per come si presenta, nella sua apparenza materiale e valutare le cose in questo modo, ebbene il cristiano, colui che crede in Gesù, ascolta la sua Parola e crede nella sua resurrezione è abituato a vedere il mondo a partire dallo Spirito, vale a dire, non tanto come una realtà a sé stante, ma come un dono che rimanda ad un donatore. Il cristiano quando guarda il mondo non vede solamente della materia, degli eventi, ma coglie la presenza del Signore, i tratti della sua presenza. Li coglie dai gesti di perdono delle persone, dalla generosità gratuita, dall’attenzione agli ultimi, dalla ricerca continua della pace, dallo sforzo costante di ricucire ciò che l’istinto di sopravvivenza strappa. Il cristiano vede una possibilità di vita dove l’occhio materiale non scorge altro che morte, distruzione e sopraffazione. Come Giovanni, anche noi dobbiamo imparare a scrivere quello che vediamo, quel mondo diverso che ci è dato di conoscere attraverso il dono dello Spirito e la luce del Vangelo.

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore (Gv 20, 19-20).

In tutte le apparizioni di Gesù risorto nel Vangelo di Giovanni, Gesù sta in mezzo: che cosa significa questa espressione? Significa che nella comunità cristiana non ci sono posti privilegiati, ma tutti e tutte hanno accesso al Signore in modo uguale, senza differenze. La comunità che sorge dalla resurrezione del Signore è una comunità segnata dall’uguaglianza, dal continuo sforzo tra coloro che accolgono il Signore di togliere ogni tipo di differenza tra coloro che partecipano al banchetto eucaristico. Dall’altra parte si può affermare che una società disuguale è una società che non accoglie la vita che viene dal risorto, che la rifiuta. Non a caso Gesù mostra le mani e il fianco, vale a dire i segni dell’amore di Gesù per i suoi discepoli e discepole, un amore che è arrivato sino al punto di soffrire per loro, di lasciarci la pelle. Essere costruttori di pace, collaboratori per la realizzazione di una comunità di discepoli e discepole uguali, in un mondo segnato dalla competizione e, di conseguenza dall’aggressività e dalla violenza, vuole dire essere disposti a pagare un prezzo molto alto, che arriva sino al dono della vita.

Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Gv 20, 21-23).

I doni che si ricevono dal Signore, non sono per rimanere chiusi in se stessi, ma per essere donati. È la logica dell’amore, che cresce donandolo. Il Padre ha inviato il Figlio e il Figlio invia i suoi discepoli e le sue discepole. La verità di un cammino di fede che sgorga dal Signore è che non rimane chiuso in se stesso, ma si apre al dono verso l’altro. Chi riceve la pace di Cristo non può che donarla a coloro che incontra. Lo stesso vale per tutti i doni che riceviamo dal Signore. Riceviamo il suo perdono, immediatamente portiamo la misericordia a coloro che incontriamo. Chi vive di rancori e chi è incapace di perdonare gli altri, non può dirsi cristiano. 

«Mio Signore e mio Dio!».

È la prima volta che nel Nuovo Testamento s’identifica Dio con Gesù. È significato che questo processo d’identificazione avvenga dopo la resurrezione. Dopo l’evento della resurrezione, anche la storia e le parole di Gesù vengono rilette e viene dato un nuovo significato. Non si tratta, infatti, più di un messaggio che può essere letto solo con categorie umane: va ben oltre. È un messaggio che richiede un cammino di liberazione e di cambiamento. Dopo la resurrezione, chi intende seguire il messaggio di vita nuova proposto dal Signore dev’essere disposto a mettersi n discussione, ad abbandonare le regioni e le sicurezze umane per affidarsi a una Parola nuova, che è la parola del risorto. 

sabato 16 aprile 2022

OMELIA DELLA NOTTE DI PASQUA 2022







Paolo Cugini

 

Quello della veglia è un rito antichissimo – la celebrazione di una pasqua annuale la troviamo già nella metà del II secolo e che nel 900 ha visto alcuni cambiamenti significativi: La riforma fondamentale venne fatta nel 1951 da Pio XII, che riportò la veglia nelle ore notturne, perché fino ad allora la si celebrava la mattina del sabato, pur cantandosi, nell’annuncio pasquale, “Questa è la notte…”. Nel 1955 è arrivata poi la riforma di tutta la Settimana Santa. Il Concilio ha sviluppato certi elementi, come la scelta delle letture, ma in sostanza ha ripreso una riforma già fatta

Il primo pensiero va al rito del fuoco, della luce. La Pasqua è il passaggio dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce. Che cosa vuole dire? Che la resurrezione di Gesù indica il cammino di umanizzazione che siamo chiamati a compiere, che c’è d’ora innanzi, una possibilità per ognuno di noi di uscire dai cammini di morte, per andare verso la vita. La resurrezione del Signore significa che non tutto è perduto per sempre, che c’è una strada che Gesù ha aperto per tutti, una strada dentro la storia che tutti possiamo percorrere: basta seguire la luce.

Poi, una volta in chiesa, è stato proclamato l’exultet, un inno di un autore ignoto – alcuni dicono che sia di sant’Agostino – che esprime in modo originale il mistero della salvezza avvenuto attraverso la resurrezione di Gesù. «Davvero era necessario il peccato di Adamo, che è stato distrutto con la morte del Cristo. Felice colpa, che meritò di avere un così grande redentore!». Difficile trovare nella liturgia parole più audaci di queste dell’exultet. Un’espressione decisamente forte, ma che si sposa con una simbologia liturgica altrettanto suggestiva. Diceva il poeta francese Charles Péguy che il peccato è come una breccia dentro la quale s’inserisce la grazia, l’amore di Dio. Imparare a guardare la propria storia personale con gli occhi del Padre, per imparare a non maltrattare i propri limiti, ma a lasciarli avvolgere dalla sua misericordia.

abbiamo ascoltato le letture, che ci hanno narrato una storia, che è la storia del popolo d’Israele, che è la nostra storia. La storia di un popolo che ha imparato a riconoscere Dio dentro gli eventi e non fuori dal mondo. È questa la caratteristica di questo popolo. Una storia in cui il popolo sperimenta i propri limiti, la difficoltà di gestire la propria umanità e di orientarla nella direzione del Signore. È una storia non lineare, ma fatta di continui ripensamenti, di fughe in avanti e bruschi arresti. Ancora una volta bisogna dire che la storia del popolo d’Israele somiglia molto alla nostra e viene riletta dall’inno dell’exultet, che abbiamo proclamato poco fa.

La Veglia pasquale ruota attorno a quattro segni che dicono l’umano trasformato dalla risurrezione. La luce, con il cero pasquale; la Parola, con le numerose letture bibliche; l’acqua, con il Battesimo; il pane e il vino, con il banchetto eucaristico. Sono quattro elementi essenziali per l’uomo: senza la luce non ci può essere vita; la parola, il comunicare è un atto fondamentale; l’acqua fa crescere, lava, rigenera; poi il cibo, il nutrimento. E la liturgia sceglie questi elementi così essenziali per dire il mistero di Cristo. Si tratta di elementi primordiali: La luce e le tenebre, le acque che vengono divise ecc. La risurrezione di Cristo ricrea l’universo. Soprattutto da noi, nell’emisfero nord, la Pasqua coincide con la primavera, quindi è forte il richiamo al mistero della risurrezione come rifiorire della vita.

Il cero pasquale viene preparato con i grani di incenso infilati a forma a croce, perché nel cero è impressa la forma del crocifisso risorto; il fatto che la cera faccia luce consumandosi è un richiamo alla dimensione del dono; la cera fa luce e intanto si consuma, offre se stessa per fare luce, come il dono della vita di Gesù Cristo.

 

giovedì 14 aprile 2022

GIOVEDI SANTO 2022

 



(Gv 13,1-15)

Paolo Cugini

 

Giovedì santo vuole dire Giovanni 13, quella pagina del Vangelo che ci fa tremare, impallidire, arrossire. Incontriamo Dio nell’umanità di Gesù. È questo che c’insegna il Vangelo e la chiesa.  Ciò significa che nel gesto di Gesù che lava i piedi ai suoi discepoli incontriamo Dio.

Che cosa significa quel gesto? È il maestro che lava i piedi del discepolo, il più grande che si abbassa nei confronti del più piccolo: questo è l’insegnamento di Gesù, questa è la sua umanità. Vuole dire che quando riproduciamo questo atteggiamento nella vita quotidiana incontriamo Dio, realizziamo la nostra umanità che è stata creata ad immagine di Dio, non di un Dio qualsiasi, ma del Dio che si è manifestato nell’umanità di Gesù. È un gesto di amore di Gesù verso i suoi discepoli. È quello che viene descritto all’inizio del brano: Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine (Gv 13,1). L’amore è un cammino di abbassamento nei confronti di chi si ama. Non c’è prova di forza, irrigidimento, ma abbassamento. Gesù avrebbe avuto tutte le ragioni del mondo per irrigidirsi con i suoi discepoli, ma non lo fa, perché non li vuole perdere. Gesù è venuto per salvare tutto e tutti, per questo continuamente si abbassa insegnandoci che nell’abbassamento c’è il mistero dell’amore che desidera guadagnare ad ogni costo qualcuno, per metterlo nelle mani del Padre. Vuoi bene a tuo figlio: abbassati, lavagli i piedi. Si meriterebbe due sberle: metti da parte i rancori, le rivendicazioni, le ripicche, ma conquistalo con l’amore: abbassati, lavagli i piedi. È la prova estrema dell’amore.

“Durante la cena, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugamano di cui si era cinto”.

 Il testo dice che l’azione di Gesù non è spontanea, ma pensata. Gesù sapendo. Che cosa sa Gesù, che cosa ha capito? Che il Padre gli aveva dato tutto nelle sue mani: che cosa significa quest’affermazione? Significa che Gesù non nasce imparato ma, essendo vero uomo, come tutti gli uomini e le donne impara, apprende, capisce. Nella narrazione di Giovanni sembra che Gesù abbia compreso la grandezza della sua identità nelle ultime ore della vita. Con questa comprensione di sé va nella stessa direzione in cui ha sempre portato la sua umanità, vale a dire non a servizio di un narcisismo esacerbato che non gli appartiene, ma in un cammino di amore verso le persone che incontra.

Ci sono sette verbi che descrivono l’azione di Gesù, che è un’azione che descrive il suo amore, come il suo amore prende forma nella concretezza della vita quotidiana. Ancora. Non sono azioni fatte a caso, ma che nascono da una comprensione. Dice, infatti, il testo: Gesù sapendo… C’è una presa di coscienza che provoca un’azione consapevole: quello che Gesù fa non è a caso, ma vuole comunicare qualcosa. Compie un gesto che comunica un contenuto. L’amore manifestato da Gesù propone sempre parole e azioni che vanno nella logica contraria delle ragioni umane, vanno nella direzione dell’amore che si fa servizio umile. È un gesto che va nella stesa logica delle parole che Gesù dice sulla croce nei confronti dei suoi aguzzini: Padre, perdono loro perché non sanno quello che fanno.

Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo. Il gesto di Gesù di lavare i piedi ai discepoli, oltre alle considerazioni fatte sopra, va inquadrato in quello che Gesù ha compreso, vale a dire il tradimento di Giuda e il rinnegamento di Pietro che, tra l’altro, sono tra i protagonisti di questo brano, nel senso che vengono citati. Ancora una volta, Gesù aveva tute le ragioni di mandare a quel paese quel gruppo di buoni a nulla dei suoi discepoli, ma compie un gesto che va nella direzione opposta delle sue ragioni. Gesù lava i piedi a coloro che sapeva che lo avrebbero tradito rinnegato. Il cammino di sequela al Signore non è basato sul successo umano, ma esclusivamente sull’amore del Padre. C’è uno sguardo d’amore tra Gesù e il Padre che filtra tutte le relazioni. Gesù ha imparato a non fondare le sue scelte sul successo umano: anche questo è un grande insegnamento.

Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!».

 C’è un altro aspetto interessante nella scena della lavanda dei piedi, messa in evidenza dall’atteggiamento di Pietro. Il discepolo non vuole che Gesù gli lavi i piedi. Come tradurre la resistenza di Pietro? È il simbolo della non accettazione che l’umanità di Gesù in questa sua manifestazione estrema, sia il ponte per incontrare Dio. L’atteggiamento di Pietro descrive la difficoltà che hanno tutti coloro che non riescono a liberarsi delle loro idee su Dio, quelle idee che riceviamo dalla tradizione, o che semplicemente ci vengono tramandate dal senso comune, che pensa Dio come qualcosa di totalmente altro dall’uomo, dal mondo e, di conseguenza, dev’essere riverito. Pietro è il simbolo di coloro che non accettano che sia Dio a riverire l’uomo, non accettano il Dio che si umilia, che si fa piccolo, perché non vogliono essere coinvolti in questo cammino di umiliazione: vogliono continuare a tenere le distanze, per poter fare quello che vogliono. Gesù, invece, ci lava i piedi per farci camminare con Lui, per aiutarci a capire che il senso profondo della vita non sta nel fare quello che si vuole, ma nel donarsi in modo gratuito e disinteressato. 

martedì 12 aprile 2022

DOMENICA DELLE PALME 2022

 





In questa domenica che apre il cammino della settimana santa, desidero offrire alcune chiavi di lettura a partire dalle letture ascoltate.

 

1.     La superficialità di una religione che è vissuta solo esteriormente e che non incide nelle scelte della persona. Colpisce la superficialità del popolo che prima esalta Gesù mentre entra Gerusalemme e poi grida per la sua crocefissione. Vale quel cammino di fede che permette ai contenuti ascoltati di sedimentarsi nel cuore, affinché modifichino il pensiero e orientino le scelte.

 

2.     Principio educativo. Per comunicarci il cammino della vita autentica si è avvicinato a noi, si è fatto uno di noi: è il più grande insegnamento educativo. È quello che ci spiega san Paolo nella seconda lettura di Oggi: Fil 2,5-11. Gesù non ci ha insegnato il cammino della salvezza e della vita vera dall’alto dsi una cattedra, ma dal basso della vita quotidiana, venendo a camminare in mezzo a noi.

 

3.     La solitudine dell’uomo, della donna di Dio; l’incomprensione, il tradimento. Solo nel giudizio del mondo. Colpisce la tremenda solitudine di Gesù nelle ultime ore della sua vita. Abbandonato da tutti, tradito, consegnato, umiliato, insultato: solo dinnanzi a tutto e tutti. Eppure Gesù è rimasto al suo posto, non ha tentato la fuga. L’autenticità di un cammino spirituale si verifica nelle situazioni di crisi, cioè nella capacità di rimanere fermi, al proprio posto.

 

4.     La verità passa dall’attenzione alla realtà. I Vangeli non hanno nascosto la durezza e la drammaticità delle ultime ore trascorse da Gesù: non hanno nascosto la realtà degli eventi. Ciò significa che la verità del Vangelo passa attraverso l’accettazione della realtà così com’è, contro ogni forma di negazionismo, che sono tutte forme patologiche della ragione.

 

5.     Uno sguardo d’amore infinito. Padre perdona loro. Un’umanità che ama in questo modo rivela qualcosa che va oltre l’umano. Lo sosteneva Massimo il Confessore nel VII d. C. L’umanità di Gesù non si chiude in sé stessa nemmeno nelle ore durissime della sua passione, ma rimane aperta, capace di uno sguardo di amore anche nei confronti dei suoi uccisori. Questo amore impressionante ha il sapore di qualcosa che non può essere incasellato nelle realtà umane.

lunedì 4 aprile 2022

MEDITAZIONI SULLA PASQUA





RITIRO SPIRITUALE 4 PARROCCHIE

GALEAZZA DOMENICA 3 APRILE

SECONDA MEDITAZIONE

 

1. Pasqua vuole dire una speranza robusta e ricca di gioia

Pasqua vuole dire “una speranza robusta e ricca di gioia”; lo diceva san Pietro scrivendo una Lettera ai cristiani dell’Asia Minore: erano in una situazione di difficoltà di persecuzione e correvano il rischio di perdere la fiducia e la speranza (cfr. 1 Pt 1, 1). Pietro scrive:

che con « la risurrezione di Gesù Cristo dai morti (…) Dio ci ha fatto rinascere (…) per una speranza viva, [4]per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce (…)» (1 Pt 1, 3.4).

Ma che cosa significa questa promessa? Più o meno questo. Quando un bambino nasce in Italia, ci dicono, nasce con una speranza media di 74 anni se è maschio e di 80/81 anni se è femmina; aggiungiamo la speranza di qualità di vita che dipende naturalmente dal sistema politico democratico, dipende dalla struttura scolastica, dal sistema previdenziale… tutti questi elementi insieme costituiscono la speranza di vita di ogni bambino che nasce. Naturalmente però si tratta di una speranza che ha i suoi limiti. Innanzitutto perché inevitabilmente la vita dell’uomo va verso la morte. Secondo, perché anche in quegli anni che abbiamo da passare sulla Terra ci portiamo dentro tutta una serie di limitazioni: la nostra intelligenza è limitata, è limitata la nostra psicologia (il nostro equilibrio psicologico), limitate sono le capacità di entrare in relazione con gli altri… e così via; il “limite”, e quindi la sofferenza e la insoddisfazione accompagnano inevitabilmente la nostra vita.

2. La risurrezione di Gesù significa avere una speranza di vita nuova, di una speranza che si può definire eterna.

Ebbene, se ha ragione San Pietro, la risurrezione di Gesù significa avere una speranza di vita nuova, di una speranza che si può definire eterna. “Eterna”, vuole dire: certamente una vita che non termina, che non ha la morte come spauracchio finale che avvilisce e rende triste un pochino tutto il cammino. Ma c’è qualche cosa che va oltre la morte nella nostra speranza, ma non vuole dire solo questo: vuole dire anche che ci viene donata una qualità di vita diversa che è la qualità della vita stessa di Dio, vita divina vissuta da uomini. E se uno mi chiede: che cosa mai possa significare una vita divina vissuta da uomini? Dico: Gesù Cristo! Gesù Cristo è veramente uomo, ma il tipo di vita che ha vissuto sulla Terra aveva l’impronta dell’amore di Dio – dell’amore del Padre –: la disponibilità verso tutti, il prendere posizione a favore della vita dell’uomo, la capacità di perdonare. Quindi, quando Gesù ha incontrato il male non è diventato cattivo, ma ha saputo assumere il male sopra di sé portandolo con sofferenza ma con perdono (cfr. Fil 2, 6-8). Tutto questo è vita divina, non una vita magica: ma una vita concreta inserita nella trama di tutti i giorni, una vita che è motivata e animata dall’amore per l’uomo, dalla presa di posizione senza riserve a favore della vita dell’uomo, di ogni uomo.

3. Dio ha risuscitato Gesù di Nazaret, e quindi ha dato ragione a Lui e alla sua vita.

Naturalmente uno può ricordarmi che una vita così, una vita come quella di Gesù, non ha avuto un grande successo mondano perché è terminata anche lei con la morte, anzi è terminata con una morte dolorosa e vergognosa, è terminata con una condanna da parte di un tribunale (cfr. Eb 12, 2). Quindi quella di Gesù è una esistenza che si porta dentro tantissime realtà di sofferenza e di miseria. E però il senso della Pasqua è questo: se dal punto di vista mondano la vita di Gesù è terminata in una morte di miseria e di umiliazione, Dio però ha risuscitato Gesù di Nazaret, e quindi ha dato ragione a Lui e alla sua vita. Quello che la morte ha potuto operare nella vita di Gesù non è stato definitivo. La potenza della vita di Dio, dell’amore di Dio, ha trionfato sulla ingiustizia o sulla cattiveria degli uomini; è questa la speranza che ci viene data.

4. La Pasqua significa che la mia speranza di vita si apre alla comunione con Dio, e quindi alla partecipazione della vita e della gioia di Dio stesso.

Io posso prendere la mia via come un patrimonio mio e spenderla a mio favore; se faccio così ho quella speranza di vita che ricordavo all’inizio: in media 74 anni, con gli alti e i bassi della vita quotidiana, poi ci saranno momenti gradevoli di gioia, e ci saranno momenti di depressione e di avvilimento, punto e basta. Ma se imposto la mia vita nella logica della vita di Gesù, quindi: se prendo come criterio di vita quello di accogliere la persona umana sempre, di avere tempo per gli altri, di farmi carico anche delle necessità degli altri, di sapere spendere quel po’ di patrimonio che ho dal punto di vista affettivo e emotivo e di ricchezza a favore anche degli altri;  se riesco a prendere su di me qualche cosa del peso di male che c’è nel mondo e a non diventare cattivo ma a introdurre invece qualche briciolo di bontà;  allora la mia speranza di vita cambia, non si limita ai 74 anni sulla Terra, ma è una speranza di vita che si apre alla comunione con Dio, e quindi alla partecipazione della vita e della gioia di Dio stesso; la Pasqua significa questo.  Per questo la Pasqua in fondo è un invito a cambiare il modo di pensare e di valutare. Se sto all’interno semplicemente dell’esperienza del mondo, considero positivo tutto quello che è soddisfacente, e negativo tutto quello che mi porta un po’ di tristezza e di fatica e di sofferenza. Ma se mi apro alla speranza della vita di Dio, allora molte cose che comportano anche sofferenza diventano preziose, diventano seme gettato nella terra che però ha in sé la speranza del futuro, la speranza della fioritura.

5. Credo che il senso della Pasqua sia esattamente nel fatto che c’è la possibilità che la nostra vita produca vita eterna, ma non solo come dicevo per l’aldilà, ma nel modo di vivere qui.

Credo che il senso della Pasqua sia esattamente lì: c’è la possibilità che la nostra vita produca vita eterna, ma non solo come dicevo per l’aldilà, ma nel modo di vivere qui. Dice san Paolo:

Se la nostra vita è piena:

«[22](…) amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5, 22).

Se la nostra vita è fatta di queste cose, rimane una vita perfettamente umana, ma diventa anche una vita realmente divina, e in quanto tale una vita che ha davanti a sé la promessa della immortalità, della comunione con Dio. È anche l’augurio che vi faccio: che la Pasqua sia davvero per ciascuno di voi motivo di speranza grande, che sia anche motivo di consolazione dentro le fatiche che la vita quotidiana comporta. Naturalmente il saluto è per tutti; direi in particolare per i bambini, per gli anziani, per gli ammalati, per le persone che vivono dei momenti di stanchezza e di fatica nella loro vita perché sappiano trovare anche in questi momenti quel germe di speranza che ci permette di vivere e di produrre nel mondo qualche cosa di positivo e di buono.

ATTI DEGLI APOSTOLI 27-28

 





[annotazioni]

 

1-12: Partenza e prime tappe

Si compie il piano di Dio: con Paolo, la Parola di Dio potrà essere testimoniata davanti a Cesare. Paolo raggiunge Roma in mezzo a circostanze impreviste. Le vie del Signore non corrispondono ai piani umani.  

3. Paolo ottiene dal Centurione la possibilità di visitare amici, probabilmente i cristiani di quella comunità per ricevere approvvigionamento per il viaggio. Lc approfitta per sottolineare di nuovo la benevolenza dei rappresentanti di Roma nei confronti di Paolo. La filantropia era una qualità molto stimata nell’ellenismo.

9. Lc fornisce un’indicazione cronologica secondo il calendario giudaico. Parla infatti, del digiuno, facendo riferimento al grande digiuno prescritto per il giorno dell’espiazione (Yom Kippur), il 10 giorno del mese di Tishri (fine settembre-inizio ottobre). Per i giudei la festa delle Capanne, che era celebrata cinque giorni dopo il grande digiuno, era considerata come l’inizio del tempo dell’anno sfavorevole alla navigazione per mare.

10. Per la prima volta nel viaggio Paolo interviene direttamente.

 

13-26: la tempesta

22-23: Paolo incoraggia i passeggeri. Siccome si deve realizzare il piano di Dio che porterà Paolo a Roma, ne beneficeranno tutti coloro che sono sulla nave.

 

27-44: Il naufragio

33. Luca mostra come Paolo, uomo di Dio, continua a tenere in pugno la situazione che deve portare alla salvezza di tutti.

35-37: Paolo dà l’esempio e comincia a mangiare secondo l’uso giudaico. C’è una prospettiva eucaristica: legame tra alimentarsi e l’essere salvati.

41. Alcuni sostengono che Luca si ispiri all’Odissea per la scelta del vocabolario.

Tutti sono salvati, attraverso innumerevoli prove: un tema importante dell’insegnamento di Luca (At 14,22).

 

 

CAPITOLO 28

1-10: Paolo sull’isola di Malta

C’è la presentazione di Paolo come taumaturgo.

L’episodio della vipera conferma la protezione divina di Paolo. Beneficiario della grazia divina, Paolo si pone a sua volta si pone a servizio degli uomini e soccorre chi si trova nel bisogno.

Nessun ostacolo, dunque potrà impedire a Paolo di raggiungere Roma e portare anche lì la salvezza, secondo il disegno di Dio.

8. la scena non manca di ricordare la guarigione della suocera di Pietro.

 

11-15: da Malta a Roma

 11: dopo tre mesi il viaggio riprende. Tre mesi indica la pausa invernale. Siamo nel marzo del 60 d. C.

14: dalla narrazione sembra che a Pozzuoli esista una comunità cristiana.

 

16-31: Paolo a Roma

È una conclusione deludente perché non risponde alla domanda a cui il lettore era stato preparato: come si conclude il processo a Paolo?

Comunque, con l’arrivo di Paolo a Roma si compie il progetto dell’annuncio del Vangelo annunciato in At 1,8. Inoltre ci sono riferimenti al Vangelo, che danno al finale degli Atti un senso di conclusione dell’opera. In tutto questo percorso c’è un filo conduttore: l’annuncio del Vangelo suscita divisione in Israele, ed è destinato a tutti i popoli.

La conclusione degli Atti dà la chiave per capire la problematica di fondo di quest’opera: l’esistenza di una chiesa che, pur dichiarandosi erede delle promesse di Dio a Israele, è composta in maggioranza da gentili, perché i giudei hanno rifiutato in gran parte il Vangelo. In ogni modo, tutto ciò era stato annunciato dalle Scritture, e fanno parte quindi, dell’insondabile piano di Dio sull’umanità.

La conclusione degli Atti presenta insomma la visione storico-salvifica della missione cristiana secondo il punto di vista di Luca: un’attenzione al passato della missione della Chiesa, incarnata in Paolo, che diventa la chiave di comprensione della situazione qual è al tempo del redattore, con una proiezione sul compito futuro.

Situazione presente: una chiesa essenzialmente pagano-cristiana, in rottura con la sinagoga. Ma questa situazione condiziona anche il futuro: la priorità d’Israele è superata. Se finora il Vangelo è stato predicato anzitutto ai giudei, d’ora innanzi il suo annuncio sarà rivolto indistintamente a tutti, e tutti possono accoglierlo e far parte dell’unico popolo di Dio.

Luca rivolge questo insegnamento a chi?

Forse ad una chiesa che ha rotto con la sinagoga, ma non con le Scritture d’Israele. Una rottura, dunque, con il giudaismo ufficiale da parte di una chiesa che ha però nel suo seno giudei-cristiani rimasti fedeli alle proprie usanze.

Nascono, allora, domande che mettono in causa l’identità stessa della chiesa:

1.       perché non vi sono più contatti con il giudaismo?

2.      Perché il popolo nel quale viveva il messia, ha rifiutato il vangelo?

3.      Una chiesa pagano-cristiana si giustifica?

4.      C’è continuità tra Israele e la chiesa nei piani di Dio?

5.      Paolo non potrebbe essere davvero un rinnegato, così come sostengono i suoi detrattori giudei?

Questa è la risposta di Luca: sono stati i giudei a chiudersi al piano di Dio, pur essendo stata rispettata la loro priorità. Da parte sua Paolo è rimasto sempre un giudeo modello ed è come tale che ha predicato il Vangelo. Da parte della chiesa le porte rimangono aperte ai pagani come ai giudei.

In ogni modo, Luca vuole mettere i giudei di fronte alla loro responsabilità.


NICODEMO

 




Ritiro spirituale di quaresima quattro parrocchie

GALEAZZA - DOMENICA 3 APRILE 2022

 

«C’era tra i farisei un uomo chiamato Nicodemo, un capo dei Giudei. Egli andò da Gesù, di notte, e gli disse: Rabbì, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nessuno infatti può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui. Gli rispose Gesù: In verità, in verità ti dico, se uno non rinasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio. Gli disse Nicodemo: Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere? Gli rispose Gesù: In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito. Non ti meravigliare se t’ho detto: dovete rinascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito. Replicò Nicodemo: Come può accadere questo?» (Gv 3, 1-9).

Possiamo vedere Il ritiro spirituale come questo itinerario di Nicodemo che va da Gesù di notte. È vero che noi siamo venuti di notte A Galeazza, ma forse in qualche modo sì, perché una qualche notte ce la portiamo dentro al cuore: la notte delle nostre incertezze o insicurezze, di quello che non capiamo della nostra vita, dei nostri progetti, di quello che potremmo o dovremmo fare; sappiamo molte poche cose del nostro avvenire, del nostro futuro. Ma non solo, ci sono le notti di tutti i nostri egoismi, cattiverie, debolezze e fragilità, quando vorremmo essere dei bravi cristiani e non ci riusciamo e ci troviamo al punto di partenza. È notte, ma in questa notte Nicodemo si muove, questo è il suo vantaggio, non ci sta dentro, non si ripara nel buio della notte dicendo: intanto nessuno mi vede, ma va verso Gesù. E s’intende, dice S. Agostino, verso la luce, con la disponibilità a lasciarsi illuminare; che forse non è sempre la cosa più gradevole perché lasciarci illuminare quando siamo belli e bravi non fa problema; ma lasciarci illuminare quando siamo un po’ sporchi, dà un po’ fastidio ed è scomodo il dovere vedere le nostre mancanze, pecche e cattiverie. Quindi andare da Gesù di notte potrebbe essere pericoloso, può darsi che alla fine riusciamo a vedere quello che siamo davvero, e di questo ci faccia un po’ paura.

Comunque, prendiamo il coraggio di Nicodemo che va da Gesù: «Rabbì, sappiamo che sei un maestro venuto da Dio; nessuno infatti può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui». E questo vuole dire: sei Dio e ti riconosco come Maestro, sono disponibile ad ascoltare quello che tu hai da dirmi, perché so che vieni da Dio, i segni che tu hai fatto li vedo e me lo dimostri, dunque sono un tuo discepolo, un tuo alunno.

E Gesù ha da dire una cosa: «In verità, in verità ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio». Nicodemo ha sentito le parole di Gesù e le ha interpretate come se chiedesse di nascere di nuovo. Ora, di tutte le cose che l’uomo può fare, questa è l’unica che gli è impossibile, perché quando uno vive non può tornare a nascere. Per questo Nicodemo obietta: «Come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?». Nessuno ha deciso di nascere, qualcun altro ha deciso per lui, quindi qualcun altro ci mette al mondo. Allora, com’è possibile chiedere di nascere di nuovo? La risposta di Gesù è che la realtà non è tanto il nascere di nuovo. Si potrebbe anche dire il nascere di nuovo, ma è un nascere dall’alto e non è qualche cosa che viene chiesto all’uomo, ma che viene donato all’uomo.

Si potrebbe dire in un altro modo. Ricordate quel giovane ricco che era andato da Gesù a dire: «Maestro, che cosa devo fare per avere la vita eterna?» (Mt 19, 16). E notate quel verbo “che cosa devo fare?”, perché è caratteristico della spiritualità giudaica al tempo di Gesù: bisogna che mi dia da fare per compiere la volontà di Dio e quindi per raggiungere l’obiettivo o il traguardo spirituale che Dio mi pone davanti. L’atteggiamento di Gesù è diverso. Il fare è importante e ci arriveremo, ma la vera cosa importante non è fare, è ricevere. O, detto in termini evangelici, credere. “Credere” vuole dire: ricevere il dono di Dio, la grazia di Dio; è Dio che fa qualche cosa per la vita dell’uomo. Ma l’uomo deve accogliere l’azione di Dio, deve ricevere questa attività di Dio. È Dio che genera, non c’è dubbio; non sono io che devo nascere di nuovo. È Dio che genera; è una nascita dall’alto; è Dio che dà la vita. Alla mia vita è chiesto di accoglierla. Dio mi dona un’esistenza nuova, in un modo molto semplice, con il suo amore, amando. Capita nell’esperienza di un uomo di fare una delle sue scelte: quando scopre l’amore si sente in qualche modo rivivere e vede le cose con degli occhi nuovi. Questa è una pallida immagine di quello che vuole dire l’amore di Dio per noi, che in Gesù Cristo ci è donato e diventa una nuova sorgente di vita. La vita biologica che io ho, ce l’ho dall’amore dei miei genitori e quindi con tutte le dimensioni che sono proprie della realtà umana, biologica, culturale e morale dell’umanità; ma limitata in quanto umana. Gesù può dire: «quello che nasce dalla carne è carne», cioè quello che è generato dall’uomo è bello, ma è umano, rimane dentro ai limiti e alla fragilità dell’umano, quindi rimane sottomesso alla morte e al peccato. Ma quello che nasce dallo Spirito resta, cioè quello che nasce da Dio ha un’energia, una purezza e una santità divina. Ed è proprio questo quello che Gesù annuncia: una nascita, una generazione dall’amore di Dio. Per cui il presupposto della tua vita è questo amore di Dio. Il fatto che Dio ti ha amato sta come presupposto, come base biologica della vita spirituale (biologica per modo di dire). Ciascuno di noi vive su una base biologica e a partire da quella base ci muoviamo, lavoriamo, pensiamo e riflettiamo; dipende da quella struttura, dal mio cervello il fatto di poter riflettere e vedere. Adesso in questa realtà biologica c’è una base nuova che è l’amore di Dio e tutto dipende da quello. “Tutto dipende da quello” vuole dire: i tuoi pensieri, i desideri e le azioni possono venire tanto trasformati da avere come origine l’amore di Dio. Sai tu quali pensieri possono venire e quali scelte e comportamenti possono nascere, quando all’origine dei nostri comportamenti c’è l’amore di Dio? Provate ad immaginare: cosa produce l’amore di Dio nella vita di un uomo? che tipo di orientamento trasmette e che tipo di scelte e desideri genera?

Questo si capisce se si guarda fondamentalmente i santi. Se uno capisce i desideri di S. Francesco, può dire che nascono dall’amore di Dio. Quando l’amore di Dio entra nella vita di un uomo produce quei desideri e sentimenti e rende S. Francesco capace di baciare il lebbroso, di rinunciare agli impegni familiari, di sottomettersi alle umiliazioni e anche di accettare il ripudio da parte dei suoi. Questi sono esempi, perché l’amore di Dio è capace di produrre realtà radicalmente diverse. I santi non sono fatti tutti uguali, anzi sono molto originali nelle loro manifestazioni, però questa origine viene da un unico zoccolo, da quell’amore di Dio che li ha rigenerati, che ha messo in loro dei pensieri e dei sentimenti nuovi.

Lo dice Gesù a Nicodemo: «Se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio». Quindi non si tratta di decidere di nascere, ma di accogliere la decisione di Dio di generarci come suoi figli. «Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito. Non ti meravigliare se t’ho detto: dovete rinascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito». Ora quello che questa piccola parabola vuole sottolineare è il mistero dello Spirito, o il mistero del vento. In greco spirito e vento sono la stessa parola, e Gesù gioca su queste immagini; parla del vento perché si sa che c’è, perché se ne sente la voce; il vento fa rumore e quindi ti accorgi che c’è, te lo senti sulla faccia o vedi che si muovono le foglie degli alberi; gli effetti del vento si riconoscono. Ma da dove viene il vento? Come si è formato e dove va a finire? Qual è il traguardo della sua corsa? Questo, nell’antichità era misterioso (non c’era la scienza meteorologica così sviluppata come quella delle nostre previsioni che ci possono fare vedere la formazione di tutti i venti). Quindi, il vento ci arriva misterioso ed è su questo che Gesù insiste. L’uomo che è nato dallo Spirito, rigenerato e rinato, si vede che c’è, perché si vede dai comportamenti. S. Francesco si vede molto bene che c’è, i suoi comportamenti si vedono e si riconoscono. Ma da dove vengono? Da dove sono nati quei comportamenti? Perché è così? Se ricordate, Francesco era partito con un grande desiderio di gloria; era andato in guerra proprio per questo. E ad un certo punto questo desiderio di gloria si trasforma in amore per “madonna povertà”. Questo è sorprendente perché non era nel suo carattere, che era piuttosto il carattere focoso del combattente, ma in realtà diventa tutt’altro. Non è il carattere che spiega questo, ma è l’incontro con Gesù. Naturalmente sono le caratteristiche temperamentali di Francesco quelle che vengono usate dal Signore, ma le orienta in una direzione nuova. Diventa un cavaliere, come Francesco voleva diventare, ma il cavaliere di una dama generalmente disprezzata che è appunto la povertà; quella è la sua amante a cui lui fa la corte e alla quale la serve con tutta la sua vita, alla quale dà, offre tutte le sue decisioni e opere. Non si capisce da dove viene un tale comportamento. E così nemmeno si capisce dove va a finire, cioè quale sia l’esisto di un’esistenza di questo genere, perché sembra di rinuncia, che va a finire male: S. Francesco è morto giovane, ha sofferto per varie malattie, è arrivato a diventare quasi cieco, ha subito forti e grandi sofferenze anche dal punto di vista morale. Ebbene, questa scelta di madonna povertà lo ha ridotto semplicemente al lastrico e a questa sofferenza? Il traguardo della vita di S. Francesco è il Signore: è quella vita nuova, rigenerata e rifatta dalla potenza di Dio; questo vuole dire lo Spirito. Nascere dallo Spirito significa: d’ora in poi alla radice della tua vita ci sta l’amore di Dio e tu puoi pensare, dire e fare tutto e solo quello che è in accordo con questo amore di Dio. Quando sarà così, sarai davvero generato di nuovo. Diceva S. Paolo: «Generato dall’alto, sarai una nuova creatura; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove» (2 Cor 5, 17). Lo Spirito vuole fare esattamente questo: rigenerare gli uomini sulla base dell’amore di Dio per noi.