venerdì 30 aprile 2021

I TRALCI E LA VITE

 



V DOMENICA DI PASQUA/B

Paolo Cugini

 

Alla ricerca degli indizi che indicano la presenza del risorto: è questo il cammino che la liturgia del tempo di Pasqua ci sta proponendo. Una ricerca che non tutti possono permettersi, nel senso che esige alcuni requisiti specifici e, in modo particolare, essere in cammino, o meglio, essere in uno specifico cammino di discepolato. La Parola non si apre alla comprensione del significato se non per coloro che si sono messi in cammino dietro Gesù, alla sua scuola. Non si tratta, allora, di una conoscenza che rimane nell’orizzonte della mente, ma esige l’esperienza, il vissuto, la messa in pratica di ciò che si ascolta. E, allora, le indicazioni di queste domeniche di Pasqua, vogliono essere le tappe di un cammino che il discepolo, la discepola deve compiere se vuole comprendere il mistero contenuto nell’evento della resurrezione, evento comprensibile solamente nell’ambito della fede.

Domenica scorsa l’indizio era una pietra, oggi è un pezzo di legno. La pietra aveva la specificità dello scarto, il legno indicato oggi è un tralcio di vite. Come mai Gesù sceglie proprio questo tipo di legno per indicare la relazione che deve intercorrere con i discepoli che desiderano conoscere il risorto? Ci viene incontro il profeta Ezechiele che, a questo proposito, si domanda: “Che pregi ha il legno della vite di fronte a tutti gli altri legni della foresta… Potrà essere utile per farne un oggetto? Anche quand’era intatto, non serviva a niente” (Ez 15, 2.5). La caratteristica del tralcio della vita è che può funzionare, nel senso che può portare frutto solamente se rimane attaccato al ramo specifico: non può essere utilizzato per nessun altro scopo. Non si tratta, dunque, di un legno pregiato, come la quercia o il cedro del Libano. L’indizio di oggi è sulla scia di quello di domenica scorsa, vale a dire un materiale scadente, di nessuna utilità e, per l’appunto, inutile. Ed è proprio questo materiale inutile che Gesù utilizza per indicare il cammino da percorrere per incontrare il risorto e vivere della sua luce e della sua pienezza di vita.

Chi rimane in me e io in lui porta molto frutto, perché senza di me non potete fare nulla” (Gv 15,5). Il frutto richiesto dalla nostra esistenza è quello di una vita capace di amare nel senso che Gesù ha manifestato, vale a dire, un amore che sa condividere. Riceviamo amore dal Signore ascoltando e interiorizzando la sua Parola, alimentandoci quindi, di Lui, e il frutto che produce questa relazione unica consiste nella capacità di andare verso l’altro con gratitudine e disinteresse, in qualsiasi circostanza ci troveremo nella vita. Siamo fatti per amare e amare in modo autentico, disinteressato, creando spazio per le persone che incontriamo, aiutando tutti a vivere in pienezza di vita e libertà. Quando ciò avviene, significa che abbiamo incontrato il risorto e viviamo di Lui e con Lui. Si tratta, dunque, di una relazione interiore, libera, che esige libertà di scelta. Gesù prometto la realizzazione di una vita piena in chi lo cerca, lo trova e rimane in relazione con Lui. La luce della resurrezione esplosa nella mattina di Pasqua, continua ad illuminare il mondo attraverso i sui discepoli e discepole che vivono in Lui e di Lui.

Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio” (1 Gv 3, 21). È la coscienza personale l’ambito in cui verifichiamo il nostro cammino. Come facciamo a capire se le nostre relazioni sono autentiche, nello stile indicato da Gesù, vale a dire gratuite e disinteressate? È nella coscienza che si manifesta la volontà del Padre perché, come ci ricorda il Vaticano II nel documento Gaudium et Spes: “la coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità” (GS, 16). Se è vero che il legame con il Risorto ci spinge costantemente al di fuori di noi stessi, per tessere rapporti nuovi con le persone che incontriamo, al punto che questo nuovo tessuto esistenziale diviene segno della presenza del Risorto nel mondo, è altrettanto vero che è sempre necessario fare ritorno in noi stessi, per non correre il rischio di disperderci e per verificare la bontà del nostro cammino. C’è, dunque, un dinamismo tra interno ed esterno che caratterizza il cammino di fede, cammino che è minacciato dal pericolo di una vita troppo esposta nel sociale, o troppo chiusa nell’intimismo. Sarà l’apertura al Mistero di Dio che ci permetterà, con il tempo, do trovare il giusto equilibrio.

 

 

mercoledì 28 aprile 2021

LA LUCE DELLA MISERICORDIA

 



Paolo Cugini

Non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo” (Gv 12, 46). C’è una volontà di salvezza totale. Non c’è condanna, ma misericordia. È un versetto in linea con lo stile di Gesù: si riconoscono i tratti del suo Vangelo, della sua proposta. Volontà di salvare il mondo dal vuoto, dal nulla; volontà che sgorga dall’amore del Padre, che Gesù rende visibile con le sue parole e le sue scelte. Questa volontà è luce per chi l’accoglie, perché lo toglie dalle tenebre della volontà di condannare e distruggere. C’è, dunque, nell’azione di Gesù, un principio di vita che viene, per così dire, conficcato dentro la storia, per rigenerarla dall’interno, modificando le tendenze negative messe in atto dall’istinto di sopravvivenza.

Io sono venuto nel mondo come luce” (Gv 12,45). È un tema esoterico, tipico delle filosofie gnostiche e anche manichee, che presentano la realtà come dominata da due dimensioni: luce e tenebre. Questa visione cela la percezione originaria della vita dominata da forze che si contrappongono e, allo stesso tempo, rivela un modo specifico di concepire l’uomo e la donna, come teatro in cui questa lotta si scatena. La lotta tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre è un modo primitivo d’intendere il cammino della vita che sembra attratto da opposti inconciliabili e in cui l’uomo e la donna sembrano, a volte, in balia di forze oscure difficili da gestire e controllare. In questo contesto, Gesù si presenta come luce: si tratta di ascoltarlo, seguirlo e, in questa sequela, la luce si manifesta.

 

lunedì 26 aprile 2021

DIO CHE SI MANIFESTA NELLA REALTA' PRESENTE

 



Paolo Cugini

Se dunque Dio ha dato loro lo stesso dono che ha dato a noi, per avere creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?” (At 11,17). Attenzione al presente, alla realtà, come unica possibilità per comprendere la verità delle cose. Posso comprendere il senso delle cose, quello che potremmo chiamare la volontà di Dio, vale a dire il significato ultimo delle cose, solamente mantenendo un orecchio attento sul presente, che è il luogo in cui Dio si manifesta. E’ nel presente che abbiamo la possibilità di cogliere la realtà così come è e, di conseguenza, la possibilità di uscire dalle nostre precomprensioni culturali, da tutto ciò che di falso è entrato in noi senza una verifica.

Il dramma dell’esistenza umana consiste nel trascorrere tutta una vita permettendo alla falsità di depositarsi in noi, condizionare le nostre scelte, i nostri gesti quotidiani, senza mai mettere in discussione nulla. Nel brano riportato sopra, Pietro coglie un aspetto importante della verità che la realtà manifesta, proprio perché si è reso disponibile a mettere in discussione le proprie presunte verità, per fare spazio alla novità che la verità del presente manifesta.

      Dire Dio, allora, non consiste nell’applicare concetti preconfezionati su di Lui alla realtà, ma ascoltarlo per come si manifesta nel presente e vivere di conseguenza.  Questo percorso esige molta umiltà ed è uno dei frutti della vita spirituale che, con costanza e perseveranza permette alla novità di modellare la propria umanità, la propria mentalità smantellando e destrutturando, in questo modo, tutte le falsità affastellatesi nel tempo nella nostra coscienza.

mercoledì 21 aprile 2021

PIETRA DI SCARTO

 




IV DOMENICA DI PASQUA/B

At 4, 8-12; 1 Gv 3,1-2; Gv 10, 11-18

Paolo Cugini

 

    Indizi. È di questo che si tratta nella liturgia della parola del tempo di Pasqua. Indizi che dicono di una presenza che può essere colta non con i sensi della carne, ma con quelli spirituali e, per questo, esige un atteggiamento di ricerca, un cammino. Per potere riconoscere la presenza che l’indizio intende indicare, occorre una previa relazione di conoscenza, un’esperienza di colui che si è alla ricerca. In questo tempo di Pasqua ci sono stati presentati diversi indizi della presenza del risorto in mezzo a noi. Dal sudario lasciato nel sepolcro, al modo di stare di Gesù nella comunità. Oggi le letture ce ne offrono un altro, che desta meraviglia, anzi sconcerto.

Gesù è la pietra che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo. In nessun altro c’è salvezza” (At 4,11). Questo è l’indizio di oggi: la pietra scartata. Quest’indizio riassume tutta la vita di Gesù. Dalla nascita alla morte è sempre stato scartato. È dovuto nascere in una mangiatoia perché non c’era posto per la sua famiglia nelle case della città (Lc 2,7). Nel primo atto pubblico narrato nel vangelo di Luca, viene buttato fuori dalla sinagoga con l’intenzione di gettarlo giù dal precipizio del monte (Lc 4, 29). Nel vangelo di Marco, dopo uno dei primi miracoli realizzato nel giorno di sabato, i farisei, assieme agli erodiani, decidono di farlo morire (Mc 3,6). Tutta la vita di Gesù è avvolta nel mistero del rifiuto che il mondo esercita nei suoi confronti. Un mistero che, a dire il vero, era stato annunciato dai profeti (cfr. Is 53), ma che quando si realizza negli eventi della storia, lascia sbigottiti. Lo stesso Gesù, comunque, nella pagina di Matteo in cui parla del giudizio finale Mt 25,32s), non s’identifica con i potenti della terra, con coloro che hanno ricchezze, fama, ma con i poveri, i carcerati, gli affamati, gli assettati, in altre parole: gli scartati, gli esclusi. Lo Spirito Santo che riceviamo nei sacramenti o quando lo invochiamo, è lo Spirito dello scartato, dell’escluso: chi lo accoglie partecipa anche lui, insieme a Gesù, a questa esclusione. È importante seguire questo filone di riflessione per capire dove cercare la presenza del risorto nella nostra vita quotidiana. Senza dubbio, non si trova nei palazzi dei re, non si trova, cioè, dove siamo soliti cercarlo, dove l’abitudine, forgiata dalla cultura dominante, c’induce a cercarlo. È più facile trovarlo rovistando tra gli scartati della storia, tra quelle categorie di persone che la storia sistematicamente mette alla porta. C’è stata l’epoca in cui gli scartati erano i portatori di handicap, e poi i lebbrosi che venivano relegati in luoghi fuori dalla città. Gli schiavi, una presenza strana che incontriamo in molte epoche e in diverse zone geografiche, erano considerati persone di seconda categoria. All’epoca della colonizzazione delle Americhe da parte dei paesi europei, gli scartati sono stati prima gli africani, strappati dalle loro terre di origine per essere trapiantati sul suolo africano esclusivamente per servizi di schiavitù; e poi gli indios, per i quali è dovuto intervenire il Papa con un documento ufficiale, per dimostrare che anch’essi avevano un’anima e interrompere, in questo modo, la carneficina messa in atto da parte di spagnoli e portoghesi.  Affamati, sbandati, ubriaconi, persone senza dimora: in tutte le epoche sono stati considerati degli scarti.

Oggi, a mio modo di vedere, le pietre scartate dalla società sono gli stranieri che arrivano con i barconi e, soprattutto, gli omosessuali, le lesbiche, i transessuali. Sono loro gli esclusi, non solo dalla società, ma anche da quella entità che dell’accoglienza dovrebbe fare il suo marchio di riconoscimento: la Chiesa. Se vogliamo incontrare il risorto è da loro che dobbiamo andare, da loro che portano sulla pelle i segni dell’esclusione, della marginalizzazione, dello scarto.

Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio e lo siamo realmente!” (1 Gv 3, 1). Il dono che l’incontro con il risorto presente nelle pietre di scarto ci può fare, è la rivelazione della nostra dignità, quello che nessuno al mondo ci può comunicare, se non coloro che l’hanno sperimentata: siamo figli di Dio, amati dal Signore. Solo chi sperimenta nella propria pelle l’esclusione, l’abbandono (penso a quella ragazza, Malika Chally, sbattuta fuori di casa dai loro genitori perché ha comunicato loro la sua identità di lesbica), può scoprire di essere avvolta da un amore diverso, che viene dal profondo del cuore e che può comunicare a coloro che con sincerità si mettono sul suo cammino. Siamo figli e figlie di Dio: è la più grande verità che possiamo scoprire nel nostro cammino. Verità che non ci potrà mai essere detta da coloro che hanno trascorso la vita pensando solamente ai loro interessi, ad accumulare case, denaro, cose, chiusi nei propri fortini. Verità che, invece, ci può essere comunicata dagli scartati dalla storia per un mistero racchiuso nel cuore misericordioso del Padre, che è anche Madre.

giovedì 15 aprile 2021

VENUTO DAL CIELO

 


 

Paolo Cugini

 

“Chi viene dall'alto, è al di sopra di tutti; ma chi viene dalla terra, appartiene alla terra e parla secondo la terra “(Gv 3,31). Livelli diversi di realtà che sono inconciliabili, perché sono due modi di vedere diversi la stessa cosa. Il cammino che il Signore propone cerca di condurre il discepolo, la discepola verso l’alto, il cielo, per vedere la realtà così come la vede Lui. Questo cammino richiede uno sforzo interiore, una presa di distanza da modelli e paradigmi assimilati nel tempo. È un modo di vedere il mondo che si lascia per assumerne un altro. Il cielo inteso in questo brano, prima di essere un luogo fisico, è uno spazio interiore, una dimensione dello spirito, alla portata di tutti coloro che camminano dietro al Signore.

Chi viene dal cielo è al di sopra di tutti. Egli attesta ciò che ha visto e udito, eppure nessuno accetta la sua testimonianza (Gv 3,32). È al di sopra di tutti, non nel senso di una superiorità qualitativa o di potenza, ma come indicazione di una provenienza spirituale. Sono versetti che riflettono già il cammino che la comunità di Giovanni ha fatto nei primi decenni del cristianesimo, un cammino che conduce a capire la preesistenza di Cristo, il suo venire da altrove, dal cielo appunto, dove ha visto e udito. Le sue parole, allora, vengono percepite come parole che vengono dal cielo, per questo sono incomprensibili da coloro che sono della terra e parlano della terra e non fanno nessun passo verso il cielo. È come dicevano i padri della Chiesa: Dio si è fatto uomo affinché l’uomo diventi Dio e pensi come Lui. Oppure, Dio è sceso sulla terra affinché l’uomo salga al cielo. A dire il vero questa idea non è nuova. 

Ne parlava spesso anche Paltone, non solo nei suoi dialoghi, ma anche in quelle che sono state definite le dottrine non scritte, riportate da suoi discepoli. Platone parlava del cammino che dal mondo fenomenico porta verso il mondo delle idee, per poi tornare ed aiutare le persone a vedere il mondo e le cose in modo nuovo. È quello che Platone narra nel mito della caverna, che si trova nel capitolo 7 della Repubblica. La differenza rispetto a quello spiegato da Giovanni è che, mentre il filosofo sale al mondo delle idee attraverso un cammino lento e difficile, Gesù è disceso direttamente dal cielo, proprio perché, alla luce della resurrezione, la prima comunità percepisce la natura divina del figlio di Maria.

 

mercoledì 14 aprile 2021

PACE A VOI!

 





III DOMENICA PASQUA B

At 3,13-15.17-19; 1 Gv 2,1-5a; Lc 24, 35-48

Paolo Cugini

 

La liturgia della Parola del tempo di Pasqua ci offre degli indizi per imparare a cogliere la presenza del risorto nel mondo. Pasqua significa passaggio dal mondo condizionato dalla contingenza umana, verso il mondo del Padre, che è il mondo dell’amore pieno, autentico. Questo passaggio Gesù lo ha realizzato attraverso una vita piena, mostrando il significato autentico dell’amore che viene dal Padre, che è gratuità, dono di sé condiviso con le sorelle e i fratelli. Partecipare di questa vita nuova è il senso del cammino di Pasqua, per riscoprire, allo stesso tempo, la bellezza di far parte della comunità che si riconosce nel Vangelo di Gesù.

Gesù in persona stette in mezzo a loro” (Lc 24, 36). Ci sono delle frasi nel Vangelo che sembrano messe lì di passaggio, per aprire un discorso o per chiuderlo e, quindi, dal punto di vista letterale, sembrano innocue, senza un significato specifico. E, invece, se le so osserva con attenzione, proprio queste frasi apparentemente innocue, presentano una profondità di significati impensabili ad uno sguardo superficiale. Nelle apparizioni di Gesù ai discepoli e alle discepole, sia nel Vangelo di Luca che di Giovani, quando Gesù appare si dice che: “stette in mezzo a loro”. Questa ripetizione deve, dunque avere un significato. Non si dice, infatti, che Gesù, quando appariva, stava davanti o dietro, ma in mezzo. Probabilmente questa specificazione è un’indicazione per tutte le comunità di ogni epoca e latitudine che desiderano vivere seguendo il Signore risorto. Ebbene, la comunità è segno visibile del risorto quando le relazioni che vengono vissute sono basate sul principio di uguaglianza, in cui tutti e tutte hanno accesso al Signore senza alcuna distinzione. Gesù appare in mezzo per manifestare al mondo che d’ora innanzi tutti coloro che lo seguono possono accedere a Lui senza mediazioni di grado o di titoli, perché in Lui tutti siamo figli e figlie di Dio.

E disse: la pace sia con voi” (Lc 24, 36). Quando la comunità che annuncia il Signore risorto vive relazioni di uguaglianza, destrutturando, in questo modo, dall’interno, i meccanismi aggressivi d’invidia, gelosia, rancore generati dall’egoismo umano modellato dall’istinto di sopravvivenza, significa che qualcosa di nuovo è in atto, la vita del risorto è all’opera modificando la struttura delle relazioni, che da aggressive diventano progressivamente pacifiche, modellate dall’amore del Signore, allora, senza dubbio, la pace regna nella comunità. La pace che viene da Dio è un dono che sgorga dalla comunità che accoglie la Parola del Risorto, permette al suo Spirito di agire, di ricreare dall’interno della coscienza di ognuno un nuovo modo di stare al mondo, di relazionarsi, d’interagire.

Sono proprio io! Toccatemi e guardate” (Lc 24,39). Quando la comunità si alimenta e vive della qualità di vita che viene dal risorto, allora Lui si fa visibile agli occhi di tutti coloro che sono alla ricerca di un senso della vita, al punto che lo possono “vedere e toccare” e, di conseguenza, si apre per il mondo una possibilità di fede nel risorto. Ecco, perché, la comunità cristiana ha un ruolo fondamentale nell’economia della salvezza, perché può rendere visibile, tangibile agli occhi del mondo, la presenza del risorto. Quando coloro che credono nel Signore permettono allo Spirito Santo di ricreare i tratti dell’umanità del Signore, si sforzano di viere come Lui ha vissuto, cercando sempre la giustizia, creando relazioni basate sulla misericordia, rimanendo costantemente attenti ai poveri, alle persone in difficoltà per aiutarle ad uscire dall’indigenza, allora diventa visibile, tangibile che in quel pezzo di umanità che agisce in quel modo, c’è all’opera il germe di vita nuova manifestata dalla risurrezione di Gesù.

Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture” (Lc 24,45). E’ la comunità segno della presenza del risorto, che diviene criterio per comprendere le Scritture. Certamente, sono estremamente utili per noi oggi, che viviamo a diversi secoli di distanza dai fatti narrati dai vangeli, i contribuiti degli studiosi della Bibbia, che ci offrono un materiale indispensabile per comprendere la Parola. E’ comunque, chiaro dalle parole ascoltate nel Vangelo di oggi, che la nostra mente si apre alla comprensione ultima della Parola, quando abbiamo la possibilità di vedere e di toccare ciò che in quelle pagine viene narrato. E’ nel vissuto della comunità che condivide, che vive in modo gratuito, che genera relazioni di uguaglianza, che pone al centro i poveri, che diventa possibile comprendere il significato profondo del Vangelo e, in questo modo, diviene possibile annunciarlo con gioia, perché percepito come messaggio autentico.

giovedì 8 aprile 2021

MIO SIGNORE E MIO DIO

 



II DOMENICA DI PASQUA/B

At 4,32-35; 1Gv5,1-4; Gv 20,19-31

Paolo Cugini

 

Per aiutarci ad approfondire il mistero della risurrezione del Signore la liturgia della Parola, in queste domeniche di Pasqua, ci offre un itinerario in cui le letture non solo ci parlano dell’incontro con il risorto da parte dei discepoli, ma anche ciò che avviene nella vita delle prime comunità cristiane. Oltre a ciò, i vangeli che ascolteremo presentano alcuni personaggi che dovrebbero aiutarci nel cammino di comprensione del mistero della presenza del risorto in mezzo a noi. Oggi, il personaggio in questione, è l’apostolo Tommaso. Ascoltiamo le sue indicazioni.

Nel Vangelo di Giovanni l’apostolo Tommaso appare in alcune scene significative che, per certi aspetti, ne delineano la personalità. La prima volta è citato nel contesto della risurrezione di Lazzaro al capitolo 11. I discepoli manifestano la loro preoccupazione per il fatto che Gesù aveva comunicato loro l’intenzione di andare in Giudea, perché proprio in quella regione lo avevano minacciato di ucciderlo. Dopo la spiegazione di Gesù, che motivava la sua decisione, Tommaso interviene dicendo: “Andiamo anche noi a morire con Lui” (Gv 11, 16). È un’affermazione che senza dubbio rivela l’entusiasmo del discepolo nella sequela del Signore, un entusiasmo, che allo stesso tempo cela, una certa dose d’incoscienza. Il fatto che Tommaso, in realtà, nonostante l’entusiasmo, non abbia ben capito la proposta e il cammino che Gesù sta presentando al mondo, diventa chiaro nel contesto dell’ultima cena, quando Tommaso prende nuovamente la parola. Infatti, Gesù dopo aver spiegato ai discepoli che nonostante la sua morte, andava a preparare un posto nella casa del Padre e che loro sapevano già la via, Tommaso non concorda e afferma: “Signore, non sappiamo dove vai: come possiamo conoscere la via?” (Gv 14, 5). Come sappiamo, la risposta di Gesù è chiarissima: “Io sono la via” (Gv 14, 6). In questo contesto Tommaso rivela che il suo entusiasmo per Gesù manifestato nel contesto della risurrezione di Lazzaro, in realtà non era fondato su delle solide motivazioni, al punto che non ha ancora compreso quello che per Gesù doveva essere già chiarissimo ai discepoli. C’è, in un certo senso, una doppiezza nella personalità di Tommaso: agisce in un modo e ne pensa un altro. Forse, è proprio questo il primo significato del suo nome, che significa: gemello, nel senso di doppio, instabile.

L’ultima scena che vede protagonista Tommaso nel Vangelo di Giovanni è l’episodio ascoltato nella liturgia di oggi. Dopo gli eventi della risurrezione di Gesù, Tommaso non è più con i suoi discepoli: perché? Forse la sua instabilità (incredulità) nei confronti della proposta del Signore lo ha portato ad abbandonare il gruppo dei Dodici. Non è possibile seguire il Signore nel suo percorso di amore quando le motivazioni sono deboli, fondate solamente su un entusiasmo passeggero e superficiale. È proprio questo che Gesù rimprovera a Tommaso quando gli dice: “Non essere incredulo ma credente” (Gv 20, 27). Tommaso non è più nel gruppo dei Dodici dopo la Resurrezione, probabilmente anche perché le facce tristi e piene di paura dei sui amici, non lo convincono più di tanto. Se, infatti, fosse vero che hanno incontrato il risorto, forse i loro volti sarebbero più luminosi, sorridenti! È il problema della testimonianza dei cristiani che, quando è avvolta di tristezza e di timore, più che avvicinare le persone, le allontana.

Tommaso esige di vedere il segno del Signore crocefisso, vale a dire il segno dei chiodi nelle mani e nei piedi e il fianco squarciato dalla lancia e il Signore glielo concede. È davanti a questa realtà che Tommaso esplode applicando a Gesù gli attributi che la comunità d’Israele indicava solamente a JHWH: “mio Signore e mio Dio” (Gv 20, 28). È dinnanzi ai segni visibili del crocefisso, del Gesù umiliato sulla croce, dell’innocente ucciso, che Tommaso è sicuro di avere davanti ai suoi occhi la presenza di Dio! È successo ancora dopo di lui. Anche Francesco d’Assisi vedendo il lebbroso era sicuro di abbracciare Gesù. Anche Oscar Romero, vescovo conservatore di San Salvador, vedendo i poveri contadini massacrati dai ricchi possidenti sposò la loro causa e venne ucciso mentre celebrava l’Eucarestia. 

Anche noi oggi, vedendo il disastro umanitario di tanti profughi che non sanno dove sbattere la testa, vediamo il risorto. E poi nell’umiliazione degli omosessuali, delle lesbiche dei transessuali che vengono derisi, insultati non solo dalla gente comune, ma anche dalla chiesa che non vuole benedire le loro unioni, c'è il risorto. Possiamo stare tranquilli che, in ogni povertà, in ogni croce, in ogni persona crocefissa dalla superbia e dall’arroganza umana, lì c’è Gesù risorto.

Quest’affermazione sorprendente di Tommaso che vede Dio nel crocefisso risorto, significa anche che nella storia il risorto non lo troveremo mai nelle stanze dei nobili, dei ricchi, dei presunti potenti, di tutti coloro il cui stile di vita è all’origine dell’ineguaglianza nel mondo. Si tratta, dunque, di un indizio importante per tutti coloro che desiderano fare della loro vita un cammino verso Dio. 

La risposta di Tommaso alla manifestazione del risorto rivela anche il secondo significato del suo soprannome: Gemello. Tommaso, infatti, dopo aver incontrato il risorto nel diventa un vero e proprio gemello, volendo imitarlo in tutto, compreso l'esperienza del martirio come segno di donazione totale a Lui.

giovedì 1 aprile 2021

GIOVEDI SANTO 2021

 


GESU’ SAPEVA

Paolo Cugini

 

Gesù sapendo…” (Gv 13,1). Iniziamo il Triduo pasquale con la percezione che Gesù ha del proprio cammino e questo breve versetto, dovrebbe aiutarci a smantellare nella nostra anima quell’insegnamento tipicamente devozionale e per nulla evangelico, che vede il Padre offrire in sacrificio il figlio per la nostra salvezza. Niente di tutto questo appare nel Vangelo di oggi, ma invece la percezione di un uomo che ha la piena consapevolezza delle proprie scelte, ed è disposto a pagare per questo. Che cos’è che Gesù sa? È pienamente consapevole che la sua presa di posizione contro le tradizioni religiose, contro i capi religiosi del popolo che non capiscono il punto di vista di Gesù, la sua scelta d’incarnare le profezie del messia portatore di pace e di giustizia e non di essere il punto di riferimento delle attese politiche rivoluzionarie, avrà delle conseguenze pesanti e che, proprio in quelle ore, dovrà scontare. È Gesù che si consegna liberamente alla passione (lo dice anche la seconda preghiera eucaristica) e lo fa per amore al padre, per amore ai discepoli. “Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13, 1). Ciò significa che le giornate finali della vita pubblica di Gesù, prima di essere un dramma, sono una bellissima storia d’amore, frutto di scelte libere di un uomo libero, che ha mostrato il cammino di una vita autentica, con gesti e scelte concrete e, proprio per questo, le sue parole erano comprensibili, perché erano visibili nel suo stile di vita.

Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava” (Gv 13, 3). Mistero della conoscenza di Gesù del cammino della sua vita. C’è questa insistenza della conoscenza di Gesù e, in questo caso, ad un secondo livello di percezione. Non solo, dunque Gesù si consegna liberamente, ma anche sa molto bene da dove viene e conosce il potere che Dio ha posto nelle sue mani. Di che potere si tratta? Del potere della vita vera, che non può che generare amore in coloro che lo accolgono. È quello che Gesù ha fatto durante la sua vita, amando senza misura, ridonando dignità a chi l’aveva perduta, abbracciando i lebbrosi, valorizzando chi era umiliato. È il potere di colui che non ha bisogno di dimostrare nulla al mondo, perché sente che la sua dignità dipende esclusivamente dallo sguardo del Padre. Ebbene, con nel cuore la consapevolezza di aver ricevuto tutto dal Padre, si alza da tavola e lava i piedi ai suoi discepoli. È come se Gesù volesse nascondere questo potere del Padre nel piccolo gesto del servizio alla sorella, al fratello. Tutte le volte che ci pieghiamo, che ci poniamo a servizio dell’altro, veniamo a contatto con il potere di Dio, che è l’amore, la vita autentica, della quale, in questi frangenti, facciamo l’esperienza e che ci riempie a dismisura il cuore.

Capite quello che ho fatto per voi?” (Gv 13, 12). Gesù non fa nulla per sé e, in questo modo c’insegna che è proprio vivendo per gli altri che stiamo facendo qualcosa per noi, che realizziamo la nostra natura umana, che è fatta per amare e amare significa andare verso l’altro in modo gratuito e disinteressato. Ecco perché l’eucarestia che celebriamo ogni domenica è il simbolo della vita di Gesù che vogliamo assimilare perché diventi anche la nostra: un corpo spezzato e un sangue sparso per noi. E’ lo Spirito Santo che riceviamo che dovrebbe poter operare in noi, formando un’umanità capace finalmente di uscire dall’angusta vita individualista, per camminare verso l’altro, per accogliere chiunque si presenti al nostro orizzonte, proprio come ha fatto e continua a fare Gesù on ognuno di noi.