V DOMENICA DI PASQUA/B
Paolo
Cugini
Alla
ricerca degli indizi che indicano la presenza del risorto: è questo il cammino
che la liturgia del tempo di Pasqua ci sta proponendo. Una ricerca che non
tutti possono permettersi, nel senso che esige alcuni requisiti specifici e, in
modo particolare, essere in cammino, o meglio, essere in uno specifico cammino
di discepolato. La Parola non si apre alla comprensione del significato se non
per coloro che si sono messi in cammino dietro Gesù, alla sua scuola. Non si
tratta, allora, di una conoscenza che rimane nell’orizzonte della mente, ma
esige l’esperienza, il vissuto, la messa in pratica di ciò che si ascolta. E,
allora, le indicazioni di queste domeniche di Pasqua, vogliono essere le tappe
di un cammino che il discepolo, la discepola deve compiere se vuole comprendere
il mistero contenuto nell’evento della resurrezione, evento comprensibile
solamente nell’ambito della fede.
Domenica
scorsa l’indizio era una pietra, oggi è un pezzo di legno. La pietra aveva la
specificità dello scarto, il legno indicato oggi è un tralcio di vite. Come mai
Gesù sceglie proprio questo tipo di legno per indicare la relazione che deve intercorrere
con i discepoli che desiderano conoscere il risorto? Ci viene incontro il
profeta Ezechiele che, a questo proposito, si domanda: “Che pregi ha il
legno della vite di fronte a tutti gli altri legni della foresta… Potrà essere
utile per farne un oggetto? Anche quand’era intatto, non serviva a niente”
(Ez 15, 2.5). La caratteristica del tralcio della vita è che può funzionare,
nel senso che può portare frutto solamente se rimane attaccato al ramo
specifico: non può essere utilizzato per nessun altro scopo. Non si tratta,
dunque, di un legno pregiato, come la quercia o il cedro del Libano. L’indizio
di oggi è sulla scia di quello di domenica scorsa, vale a dire un materiale scadente,
di nessuna utilità e, per l’appunto, inutile. Ed è proprio questo materiale
inutile che Gesù utilizza per indicare il cammino da percorrere per incontrare
il risorto e vivere della sua luce e della sua pienezza di vita.
“Chi
rimane in me e io in lui porta molto frutto, perché senza di me non potete fare
nulla” (Gv 15,5). Il frutto richiesto dalla nostra esistenza è quello di
una vita capace di amare nel senso che Gesù ha manifestato, vale a dire, un amore
che sa condividere. Riceviamo amore dal Signore ascoltando e interiorizzando la
sua Parola, alimentandoci quindi, di Lui, e il frutto che produce questa
relazione unica consiste nella capacità di andare verso l’altro con gratitudine
e disinteresse, in qualsiasi circostanza ci troveremo nella vita. Siamo fatti per
amare e amare in modo autentico, disinteressato, creando spazio per le persone che
incontriamo, aiutando tutti a vivere in pienezza di vita e libertà. Quando ciò
avviene, significa che abbiamo incontrato il risorto e viviamo di Lui e con Lui.
Si tratta, dunque, di una relazione interiore, libera, che esige libertà di
scelta. Gesù prometto la realizzazione di una vita piena in chi lo cerca, lo
trova e rimane in relazione con Lui. La luce della resurrezione esplosa nella
mattina di Pasqua, continua ad illuminare il mondo attraverso i sui discepoli e
discepole che vivono in Lui e di Lui.
“Carissimi,
se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio” (1 Gv
3, 21). È la coscienza personale l’ambito in cui verifichiamo il nostro cammino.
Come facciamo a capire se le nostre relazioni sono autentiche, nello stile
indicato da Gesù, vale a dire gratuite e disinteressate? È nella coscienza che
si manifesta la volontà del Padre perché, come ci ricorda il Vaticano II nel
documento Gaudium et Spes: “la coscienza è il nucleo più segreto e il
sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità”
(GS, 16). Se è vero che il legame con il Risorto ci spinge costantemente al di
fuori di noi stessi, per tessere rapporti nuovi con le persone che incontriamo,
al punto che questo nuovo tessuto esistenziale diviene segno della presenza del
Risorto nel mondo, è altrettanto vero che è sempre necessario fare ritorno in
noi stessi, per non correre il rischio di disperderci e per verificare la bontà
del nostro cammino. C’è, dunque, un dinamismo tra interno ed esterno che
caratterizza il cammino di fede, cammino che è minacciato dal pericolo di una
vita troppo esposta nel sociale, o troppo chiusa nell’intimismo. Sarà l’apertura
al Mistero di Dio che ci permetterà, con il tempo, do trovare il giusto
equilibrio.