(Is 49, 3. 5-6; Sal 39; 1
Cor 1, 1-3; Gv 1, 29-34)
Paolo Cugini
Dopo le feste del tempo
di Avvento e Natale, che ci ha aiutato ad immergerci nel mistero dell’Incarnazione
del Verbo, ritorniamo al tempo ordinario, che dovrebbe aiutarci a vivere il cammino
di fede nel vissuto quotidiano. Recuperare la dimensione quotidiana della fede
è fondamentale, perché anche la vita è fatta di quotidianità e gli eventi
straordinari sono solo occasionali. Chi rimane troppo concentrato a ricercare
la straordinarietà rischia di vivere sentimenti di delusione e di frustrazione.
Imparare a valorizzare il proprio vissuto quotidiano significa aver compreso
che la possibilità di conoscere il Signore della storia avviene proprio in quel
frammento di vita che abitiamo tutti ii giorni. La bellezza della vita, allora,
è proprio in ciò che viviamo nella dimensione quotidiana dell’esistenza.
Semplicità, normalità, ripetitività di gesti lungi dall’essere segno di
monotonia, diventano, invece, i luoghi privilegiati dell’incontro con Dio. Del
resto, abbiamo contemplato proprio questo mistero nelle festività del Natale
appena trascorse: il tutto di Dio nelle fattezze di un bambino e nella vita
semplice e povera di una famiglia. Ascoltiamo, allora, che cosa ci dicono le
letture e quali indicazioni ci offrono per il nostro cammino di fede
quotidiano.
Ora ha parlato il Signore
che mi ha plasmato suo servo dal seno materno (Is 49, 1). Ci sono delle pagine dei
profeti che sono estremamente illuminanti. Come quella che abbiamo ascoltato
nella prima lettura. Is 49,1-6 è il secondo canto del servo di JHWH, quel
personaggio misterioso che, però, in questo caso, dagli studiosi viene
identificato con lo stesso profeta Isaia. Il contenuto che esprimono questi pochi
versetti è molto profondo e offre notevoli spunti anche per noi. C’è, infatti,
la percezione che la vocazione precede la stessa consapevolezza che abbiamo
nell’andare del tempo. L’esperienza di Isaia è la stessa di Geremia (Ger 1,4s),
la percezione che siamo scelti quando ancora siamo incapaci di rendercene
conto, prima di essere creati. Secondo questi versetti c’è uno sconvolgimento
della logica esistenziale: prima siamo chiamati e poi creati. Sono intuizioni
che indicano il valore profondo di ogni esistenza, amata inquanto pensata prima
di ogni cosa: venuti al mondo perché pensati, chiamati. Scoprire il senso di
questa chiamata è l’obiettivo dell’adolescenza e della giovinezza, che si
traduce nell’attenzione a ciò che siamo realmente, ad entrare in noi stessi per
cogliere la nostra originalità e non correre così il rischio di spendere la
nostra vita per essere ciò che non siamo.
Invano ho faticato, per
nulla e invano ho consumato le mie forze (Is 49,4). È il versetto che è stato omesso
nella lettura di oggi, ma che è fondamentale per cogliere la conclusione del
brano. È un versetto, infatti, che esprime il senso di fallimento del profeta,
che non vede i frutti sperati del suo impegno per la missione. In ogni modo,
nella prospettiva del cammino di fede, è quella crisi necessaria che permette
di cogliere un dato fondamentale: la percezione che per vivere la missione
affidataci dal Signore, occorre imparare a non puntare solo sulle proprie
forze, ma affidarsi a Lui, al Mistero di una vita e di un dono che viene
altrove. Non a caso, proprio a partire da questa crisi, il profeta percepisce
il nuovo percorso della sua missione che, nel caso specifico, consiste nell’annunciare
agli esiliati, il ritorno di Dio in Sion. È passando attraverso il fallimento
esistenziale senza, però abbattersi, ma ascoltandolo interiormente, che il
profeta fa l’esperienza del Mistero nella sua vita: il mio Dio è stato la
mia forza (Is 49,5).
Paolo, apostolo di Gesù
Cristo per volontà di Dio (1
Cor 1,1s). La stessa percezione di una vita anticipata dalla chiamata di Dio
che abbiamo visto in Isaia, ce l’ha Paolo. Conosciamo la storia della vocazione
di Paolo. Nella sua vita c’è un evento eclatante che gli permette di cogliere
il senso della propria esistenza. A partire da questo evento Paolo vive ogni
giorno sforzandosi di vivere la sua missione. In Paolo è visibile che la
comprensione della propria vocazione non significa rispettare un manuale, il ripetere
pedissequamente ciò che è scritto per quella specifica vocazione, ma esige il
proprio impegno quotidiano per viverla.
Io
non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell'acqua mi
disse: Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che
battezza nello Spirito Santo. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il
Figlio di Dio» (Gv
1, 33-34).
Sulla stessa linea di
quello che abbiamo appena detto si muove il Vangelo ascoltato. Giovanni
Battista afferma di aver colto la presenza del messia quando ha visto una
colomba posarsi su Gesù. L’intuizione che Giovanni aveva avuto non parlava di una
colomba, ma di Spirito Santo. È stato lui ad interpretare la colomba come segno
dello Spirito Santo sceso su Gesù. Questo, a mio avviso, è un dato interessante,
perché ci dice che la manifestazione del Mistero nella storia avviene attraverso
elementi umani, che sono nell’orizzonte della nostra comprensione e, quindi, si
tratta sempre di una mediazione della realtà immanente. Questa mediazione esige
un’interpretazione, che è sempre un dato soggettivo, frutto del cammino
personale.
Mettersi in cammino per
cogliere il Mistero presente nella storia che ci parla e ci indica il senso
della nostra esistenza: è questo il compito che ci attende.
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