lunedì 9 gennaio 2023

II DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO A

 




(Is 49, 3. 5-6; Sal 39; 1 Cor 1, 1-3; Gv 1, 29-34)

Paolo Cugini

 

Dopo le feste del tempo di Avvento e Natale, che ci ha aiutato ad immergerci nel mistero dell’Incarnazione del Verbo, ritorniamo al tempo ordinario, che dovrebbe aiutarci a vivere il cammino di fede nel vissuto quotidiano. Recuperare la dimensione quotidiana della fede è fondamentale, perché anche la vita è fatta di quotidianità e gli eventi straordinari sono solo occasionali. Chi rimane troppo concentrato a ricercare la straordinarietà rischia di vivere sentimenti di delusione e di frustrazione. Imparare a valorizzare il proprio vissuto quotidiano significa aver compreso che la possibilità di conoscere il Signore della storia avviene proprio in quel frammento di vita che abitiamo tutti ii giorni. La bellezza della vita, allora, è proprio in ciò che viviamo nella dimensione quotidiana dell’esistenza. Semplicità, normalità, ripetitività di gesti lungi dall’essere segno di monotonia, diventano, invece, i luoghi privilegiati dell’incontro con Dio. Del resto, abbiamo contemplato proprio questo mistero nelle festività del Natale appena trascorse: il tutto di Dio nelle fattezze di un bambino e nella vita semplice e povera di una famiglia. Ascoltiamo, allora, che cosa ci dicono le letture e quali indicazioni ci offrono per il nostro cammino di fede quotidiano.

Ora ha parlato il Signore che mi ha plasmato suo servo dal seno materno (Is 49, 1). Ci sono delle pagine dei profeti che sono estremamente illuminanti. Come quella che abbiamo ascoltato nella prima lettura. Is 49,1-6 è il secondo canto del servo di JHWH, quel personaggio misterioso che, però, in questo caso, dagli studiosi viene identificato con lo stesso profeta Isaia.  Il contenuto che esprimono questi pochi versetti è molto profondo e offre notevoli spunti anche per noi. C’è, infatti, la percezione che la vocazione precede la stessa consapevolezza che abbiamo nell’andare del tempo. L’esperienza di Isaia è la stessa di Geremia (Ger 1,4s), la percezione che siamo scelti quando ancora siamo incapaci di rendercene conto, prima di essere creati. Secondo questi versetti c’è uno sconvolgimento della logica esistenziale: prima siamo chiamati e poi creati. Sono intuizioni che indicano il valore profondo di ogni esistenza, amata inquanto pensata prima di ogni cosa: venuti al mondo perché pensati, chiamati. Scoprire il senso di questa chiamata è l’obiettivo dell’adolescenza e della giovinezza, che si traduce nell’attenzione a ciò che siamo realmente, ad entrare in noi stessi per cogliere la nostra originalità e non correre così il rischio di spendere la nostra vita per essere ciò che non siamo.

Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze (Is 49,4). È il versetto che è stato omesso nella lettura di oggi, ma che è fondamentale per cogliere la conclusione del brano. È un versetto, infatti, che esprime il senso di fallimento del profeta, che non vede i frutti sperati del suo impegno per la missione. In ogni modo, nella prospettiva del cammino di fede, è quella crisi necessaria che permette di cogliere un dato fondamentale: la percezione che per vivere la missione affidataci dal Signore, occorre imparare a non puntare solo sulle proprie forze, ma affidarsi a Lui, al Mistero di una vita e di un dono che viene altrove. Non a caso, proprio a partire da questa crisi, il profeta percepisce il nuovo percorso della sua missione che, nel caso specifico, consiste nell’annunciare agli esiliati, il ritorno di Dio in Sion. È passando attraverso il fallimento esistenziale senza, però abbattersi, ma ascoltandolo interiormente, che il profeta fa l’esperienza del Mistero nella sua vita: il mio Dio è stato la mia forza (Is 49,5).

Paolo, apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio (1 Cor 1,1s). La stessa percezione di una vita anticipata dalla chiamata di Dio che abbiamo visto in Isaia, ce l’ha Paolo. Conosciamo la storia della vocazione di Paolo. Nella sua vita c’è un evento eclatante che gli permette di cogliere il senso della propria esistenza. A partire da questo evento Paolo vive ogni giorno sforzandosi di vivere la sua missione. In Paolo è visibile che la comprensione della propria vocazione non significa rispettare un manuale, il ripetere pedissequamente ciò che è scritto per quella specifica vocazione, ma esige il proprio impegno quotidiano per viverla.

Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell'acqua mi disse: Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio» (Gv 1, 33-34).

Sulla stessa linea di quello che abbiamo appena detto si muove il Vangelo ascoltato. Giovanni Battista afferma di aver colto la presenza del messia quando ha visto una colomba posarsi su Gesù. L’intuizione che Giovanni aveva avuto non parlava di una colomba, ma di Spirito Santo. È stato lui ad interpretare la colomba come segno dello Spirito Santo sceso su Gesù. Questo, a mio avviso, è un dato interessante, perché ci dice che la manifestazione del Mistero nella storia avviene attraverso elementi umani, che sono nell’orizzonte della nostra comprensione e, quindi, si tratta sempre di una mediazione della realtà immanente. Questa mediazione esige un’interpretazione, che è sempre un dato soggettivo, frutto del cammino personale.

Mettersi in cammino per cogliere il Mistero presente nella storia che ci parla e ci indica il senso della nostra esistenza: è questo il compito che ci attende.

 

 

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