sabato 17 dicembre 2016

GIUSEPPE, LO SPOSO DI MARIA



Paolo Cugini

-      nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza, secondo lo Spirito di santità, in virtù della risurrezione dei morti, Gesù Cristo nostro Signore (Rom 1, 2)

-      la vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiamerà Emmanuele (Is 7)


-      sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo (Mt 1)

-      “il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù”.

-      Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa "Dio con noi" (Mt 1)

Giuseppe: padre di tutte le vocazioni. Ha rinunciato a sé stesso, ad essere padre come lo sono tutti per fare spazio al piano di Dio. Si vive una sola vota e si ama una sola donna con la quale si vuole generare una vita. Ha continuato ad amare Maria, rinunciando ad esercitare la paternità secondo la carne per viverla in un altro modo. Come si fa a dire che Giuseppe ha amato Maria? Perché la sua attenzione era su di lei e non su di sé. L’amava a tal punto da sacrificare il suo desiderio di paternità per salvare la vita a Maria.

Ci sono arrivati dopo a pensare che Gesù non fosse il figlio carnale di Giuseppe. Ci sono arrivati dopo la resurrezione di suo Figlio a pensare, a capire che non esiste uomo sulla terra che possa generare un figlio così; non esiste seme mortale che possa generare un Dio. Ci sono arrivati dopo perché sin che Gesù era in vita pensavano fosse semplicemente che fosse il figlio di Giuseppe e di Maria. Infatti, Giuseppe e Maria avevano mantenuto per loro il segreto del concepimento misterioso del figlio, anche perché nessuno avrebbe potuto comprenderli. Ascoltando attentamente Paolo si capisce che nemmeno lui aveva ancora compreso il senso della nascita di Gesù. Infatti dice Paolo nella lettera ai Romani: “nato dal seme di Davide secondo la carne”. In realtà, Gesù non è nato dal seme di Davie, ma dal grembo di Maria, perché è stato concepito per opera dello Spirito Santo. Per questo Matteo, la cui redazione è realizzata circa vent’anni dopo dal testo della lettera ai Romani, quando descrive la genealogia di Gesù, dopo aver fatto la lista di coloro che erano stati i precursori di Gesù citando solamente uomini, quando Giunge a Gesù dice: “Giacobbe generò Giuseppe lo sposo di Maria dalla quale è nato Gesù” Mt 1,16). C’è quindi una lenta percezione del mistero della nascita di Gesù, Verbo del Padre, percezione che avviene dopo la sua risurrezione. Osservando poi i testi del Nuovo Testamento assieme agli scritti dei primi Padri della Chiesa, ci si accorge che la ricerca sulla nascita di Gesù arretra sempre più man mano passano gli anni. Non a caso Giovanni nel suo Vangelo non sente l’esigenza di descrivere gli eventi della nascita del Figlio di Dio, ma parla della sua preesistenza: “il Verbo era presso Di, il Verbo era Dio” (Gv 1,1).

In questa prospettiva Giuseppe rischia di essere una figura di secondo piano, un rincalzo messo lì per far numero, per far in modo che l’apparenza della famiglia sia salvaguardata. In realtà non è così. Se infatti, è vero che Gesù è nato dal seme dello Spirito Santo, è altrettanto vero che Giuseppe ha amato Maria ed ha assunto responsabilmente la paternità di Gesù. Ce lo dice il testo del Vangelo di Matteo 1. Occorre, allora, fare un passo ulteriore per scoprire il valore e la profondità della figura di Giuseppe nel piano della salvezza.

Giuseppe non ha potuto condividere con nessuno il mistero della sua vita, della sua originalissima e unica vocazione. Questo è uno degli aspetti importanti della storia di Giuseppe che ci può insegnare qualcosa. La prima è che nella vita dobbiamo maturare spiritualmente ed esistenzialmente al punto da saper portare il peso da soli delle nostre scelte. Non possiamo pensare di rimanere tutta la vita sotto il faro dei riflettori. Ci sono dei momenti nei quali siamo chiamati a realizzare delle scelte che si rivelano irreversibili e che non potremo mai cancellare. Anche perché il tempo passa e nulla può tornare indietro. Sono queste scelte che hanno una portata significativa non solo per noi, ma anche per le persone che ci sono accanto che richiedono non solo una mente fredda, ma soprattutto un cuore caldo. È l’amore che ci porta a mettere in conto nelle nostre scelte non solo il nostro interesse, ma soprattutto quello degli altri. Rinnegare sé stessi per gli altri: è questo che ha fatto Giuseppe quella notte. Ha pensato a Maria, più che a sé stesso. Sapeva che accettando quell’idea non avrebbe mai più potuto realizzare il suo sogno, quello di essere padre di figli. Un sacrificio enorme, spaventoso. Ebbene Giuseppe ha saputo rinunciare a ciò che per un ebreo è la cosa più importante, vale a dire la possibilità di essere padre. Non si fanno scelte così se dietro non c’è la logica dell’amore, che ti porta a guardare al di là di sé stessi.
Che Giuseppe amava Maria in un modo impressionante, che il suo amore era immenso per lei lo dimostra il fatto che non l’ha ripudiata, non l’ha consegnata alla lapidazione, andando contro una tradizione secolare. Non è facile andare contro le tradizioni: ci riesce solo chi è molto libero e chi ama molto, come Gesù che le ha capovolte tutte.

Che cosa c’insegna la storia di Giuseppe?
C’è un tempo, un giorno e un’ora che tocca a noi, che tocca a me, che Dio mi presenta il conto, il suo conto, la sua richiesta, quello che Lui ha pensato per noi. Spesso questo conto non corrisponde alle nostre aspettative.
Giuseppe c’insegna che ci sono cose nella vita che te le devi tenere dentro e non le puoi comunicare a nessuno. Il cammino spirituale deve aiutarci a portare il peso delle nostre scelte, soprattutto nei periodi che ci sembrano assurde, incomprensibili; soprattutto nei periodi in cui vorremmo non averle fatte quelle scelte, in cui vorremmo tornare indietro. Il cammino spirituale alla luce degli eventi della storia di Giuseppe è fondamentale per rimanere attaccati alla memoria dalle motivazioni, al ricordo di ciò che ci ha condotto a fare delle scelte definitive. Più le scelte sono radicali e senza ritorno, maggiore è la necessità di un’intensa vita spirituale, soprattutto per non farsi travolgere dalla forza poderosa della vita materiale, dalle logiche contrarie. E allora Giuseppe c’insegna che senza quella vita spirituale che si coltiva nel silenzio, si cade nella frustrazione.

Tutta l’umanità è passata per quella notte. Tutta l’umanità ha trattenuto il fiato per sapere che cosa facesse, che cosa decidesse Giuseppe. E la cosa sbalorditiva è che tutto è avvenuto in un sogno. Paradosso di Dio e delle sue Verità. È come se Dio si prendesse gioco di noi, delle nostre ansie e paure. È come se Dio volesse giocare con noi che veneriamo le verità, che adoriamo le belle parole dai grandi significati. Ebbene Dio ha nascosto tutto questo in un sogno, il sogno di Giuseppe. E poi ha avvolto questo sogno nel silenzio più totale di Giuseppe che, dopo questi eventi strabilianti, è uscito letteralmente di scena.

Maria e Giuseppe: le persone più silenziose della Bibbia. Giuseppe ancora di più di Maria. Non parla mai. Dopo gli eventi della nascita di Gesù sparisce totalmente dalla scena. Che cosa c’insegna questo stile di vita? C’insegna che la vita è una sola e uno solo è il progetto di vita che Dio ci chiama a realizzare. Occorre essere pronti a coglierlo e a rispondere. Giuseppe c’insegna che nella vita non importa l’apparire, ma l’essere; non importa quello che fai, ma quello che sei. Giuseppe, soprattutto, c’insegna che proprio questo modo essenziale e autentico di stare al mondo, non s’improvvisa, ma ci si prepara con cura.


lunedì 28 novembre 2016

IL SOGNO DI ISAIA





Che cosa esprime il testo d’Isaia 2? Il sogno dell’Umanità, di ogni uomo e donna di ogni tempo, vale a dire un mondo di armonia e di pace, dove tutto sarà trasformato in amore. È questo che il profeta Isaia tenta di esprimere con la sua visione. È il desiderio di un modo di uguaglianza, dove non esistono differenze di grado. È il mondo nel quale le persone sanno cosa devono fare, perché c’è un cammino comune, un senso nella vita. È il mondo che desideriamo. È bello iniziare in questo modo l’anno liturgico, perché il testo d’Isaia ci ricorda che il cammino della storia è nelle mani di Dio. La vita, in questa prospettiva, va vissuta con fede, ponendo fiducia nella proposta di Dio. Solo in questo modo, infatti, riusciamo a spezzare la nebbia di un mondo chiuso in se stesso che ci propone il mondo. Ci sono due realtà diverse che si scontrano. Quella del mondo che si costruisce sull’egoismo e che ha come teatro la realtà sensibile. È quello che i nostri sensi toccano e vedono. C’è però, un altro livello di realtà, che è quella che cogliamo con l’anima, con i sensi spirituali. È a questo livello di realtà che si pone la Parola di Dio e si poggia sui senesi spirituali, sulla vita interiore. E la Parola di Dio immette dentro di noi i sogni di Dio, la sua realtà. Perché è così e cioè quello che noi chiamiamo sogni o utopie oppure ideali, cose lontane da raggiungere, sono la realtà di Dio, che l’uomo ha distorto. E allora mentre noi camminiamo nel tempo realizzando i nostri progetti mondani, ci alimentiamo della realtà di Dio, per inserirla all’interno della storia, per fare in modo che le logiche di Dio dominino su quelle del mondo. Questo dominio di realtà non avviene con la forza, ma con l’assimilazione quotidiana e con l’impegno personale e comunitario.

Il testo d’Isaia dice anche che saranno i popoli ad affluire al monte del Signore. Il regno di Dio, il sogno che esce dal suo cuore, non si realizza con la forza e la costrizione, ma con l’amore che attrae. È questa, forse, una dei significati più profondi della visione, perché è in contrasto con le modalità del tempo, anzi di tutti i tempi. Che cos’è che attira i popoli verso la cima del monte del Signore? La motivazione che viene data è la seguente: “Perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare sui suoi sentieri”. È un popolo che cerca un cammino, una direzione, un senso da dare all’esistenza. Un popolo che percepisce nella Parola di Dio un contenuto che può offrire le risposte che cercano. Da dove viene questa Parola? Da Gerusalemme, o meglio, dal monte Sion sul quale è situato il tempio di Gerusalemme. La tradizione dei Padri ha individuato in questo luogo la persona di Gesù. Infatti, Gesù Cristo è morto fuori dalle mura di Gerusalemme e la sua Parola è ancora oggi fonte d’ispirazione per molte persone di molti popoli.


Forgeranno le loro spade in vomeri e le loro lance in falci, non si eserciteranno più nell’arte della guerra”. È una Parola che contiene una promessa di pace: è l’aspirazione di tutti i popoli. Una promessa di pace come conseguenza del desiderio di vita. La promessa, infatti, della profezia, è che gli strumenti di guerra siano trasformati in strumenti per produrre cibo e quindi vita. Questa dev’essere la preoccupazione di ogni persona: fare di tutto affinché la vita sia protetta e favorita. 

lunedì 31 ottobre 2016

ZACCHEO





Paolo Cugini



C’è un cammino che l’umanità deve compiere per incontrare il Signore e per lasciarsi incontrare da Lui. Zaccheo, protagonista del Vangelo di oggi, è il simbolo di questo cammino. Innanzi tutto, c’è uno sforzo che occorre compiere, un salire in alto, una ricerca costante del bene, della verità e della giustizia come spazio necessario che permette a Dio di trovare dimora dentro di noi. Inoltre, è importante durante questa ricerca, che non è né semplice né facile, incontrare una guida, qualcuno che abbia già realizzato il percorso spirituale della vita e che ci possa prendere per mano e indicare il vero Signore della vita. È questo a mio avviso, il simbolo del Sicomoro, la pianta che Zaccheo utilizza per salire.  Quando il Signore c’incontra nei sentieri della vita, ci chiede di scendere, di metterci al livello della gente, soprattutto dei più poveri. “Oggi per questa casa è venuta la salvezza”. Incontriamo il Signore nello spazio in cui viviamo, perché è Lui a venire al nostro incontro. Prepariamo questo incontro cercando il bene, condividendo quello che abbiamo con i fratelli e le sorelle più bisognose, facendo di tutto per uscire dai cammini dell’egoismo.

martedì 27 settembre 2016

SIAMO SERVI INUTILI



Paolo Cugini

Chi avesse un’idea troppo alta di sé, il Vangelo di oggi lo sistema per bene. Il Signore ci ricorda che siamo dei servi inutili, nel senso che quello che abbiamo fatto o facciamo, lo potrebbe fare un altro. Nessuno è insostituibile anche perché, come diceva quel tale, i cimiteri sono pieni di gente indispensabile. Questo discorso ci vuole invitare a considerare il valore della nostra esistenza non per le cose che facciamo o produciamo, ma per la nostra relazione con il Padre. Se siamo e valiamo qualcosa è perché siamo figli e figlie di Dio e, di conseguenza, siamo amati dal Padre.
 Se la nostra esistenza si fonda su questa relazione vitale, allora vivremo sereni e felici. Se invece, il rapporto con il Signore ci sembra poca cosa, vivremo nello stress di dover riempire la nostra vita di cose, persone, impegni. È il rapporto con il Signore che ci conduce a scoprire che il tesoro della nostra vita, lo spazio della nostra salvezza sta nel nostro vissuto quotidiano, con le persone che il Signore ci pone accanto. 
Viviamo, allora, il presente con riconoscenza per quello che il Signore ci dona, perché è nel presente della nostra vita che incontriamo il cammino che ci conduce a Lui. 

sabato 24 settembre 2016

GUAI AGLI SPENSIERATI DI SION




 Paolo Cugini


Nel Vangelo di oggi Gesù continua la riflessione iniziato domenica corsa sul rapporto dell’uomo con i beni materiali. La parabola racconta di due uomini, uno ricco e uno povero chiamato Lazzaro. Gesù dice che nella vita eterna le sorti s’invertono: chi ha trascorso il tempo nella terra cercando il lusso e una vita spensierata, nella vita eterna vivrà nelle pene. Al contrario, chi in questo mondo ha vissuto nelle sofferenze, vivrà di allegria nel cielo. Quando il ricco dopo la morte percepisce questa realtà che la fede ci comunica, vorrebbe mandare qualcuno sulla terra per allertare i propri figli, affinché non vivano come lui ha vissuto. La risposta di Gesù è molto significativa: “hanno Mosè e i profeti: ascoltino loro”. Ciò significa che l’unica possibilità che abbiamo per fare in modo che il nostro cuore non si attacchi alle cose vane è l’ascolto attento e assiduo della Parola di Dio. Ed è questo anche il compito della Chiesa: annunciare l’unica Parola capace di aprire il cuore degli uomini e delle donne affinché si convertano al Signore. 

giovedì 15 settembre 2016

INTELLIGENZA E FEDE




Paolo Cugini
Il Vangelo di oggi propone due riflessioni significative legate tra loro. Nella prima Gesù ci ricorda che la religione, il rapporto con Dio non è cosa per creduloni e fatalisti, ma coinvolge tutto l’essere della persona, compreso l’intelligenza. “Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza”. Occorre usare l’intelligenza per assimilare la proposta del Signore e portarla nelle scelte della vita quotidiana e fare in modo che contagi i nostri pensieri, le nostre relazioni con i fratelli e le sorelle. Ci vuole intelligenza per fare in modo di non essere sopraffatti dal male e non essere ingannati. Lo stesso vale per la seconda parte del Vangelo dove Gesù ci consiglia di: “farvi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a mancare, essi vi accolgano nelle dimore eterne”. Il denaro che accumuliamo ha un valore solamente se lo condividiamo con i poveri, perché saranno loro a giudicarci alla fine dei tempi. Gesù ci ricorda che nella vita siamo chiamati continuamente a scegliere e, se volgiamo seguire Lui, non c’è spazio per altri padroni. Pensiamo bene, allora, alle scelte che facciamo. Chiediamo lo Spirito del Signore affinché illumini la nostra intelligenza e ci conduca sempre nel cammino da Lui tracciato.

PERDERSI PER RITROVARSI




Paolo Cugini

Le tre parabole che ascoltiamo in questa domenica hanno un comune denominatore: il perdersi. Se è vero che il cammino del discepolato è entusiasmante perché ci offre un senso dell’esistenza, è altrettanto vero che, nonostante tutto, è possibile perdersi durante il cammino. Quando ciò avviene il problema è ritrovare la strada perduta. Le tre parabole offrono alcune soluzioni al problema. La prima e la seconda mostrano il caso di qualcuno che si accorge della sparizione (di una pecora, di una moneta). È un chiaro riferimento alla comunità che diventa soggetto responsabile dei fratelli e delle sorelle che ad un certo punto perdono il cammino. Andare alla loro ricerca diviene, allora, il segno di un’appartenenza e, allo stesso, tempo dice del valore dei rapporti personali che s’instaurano all’interno della comunità. C’è però anche un altro modo di tornare al Signore. È quello che ci vuole dire la terza parabola il cui protagonista, una volta smarrito, riesce a rientrare in sé stesso e trovare il cammino del ritorno a casa. Aiutiamo le persone a non sentirsi sole. Chiediamo al Signore il dono del Suo Spirito affinché sappiamo costruire comunità fatte di persone attente gli uni degli altri, comunità autentiche che riflettono nelle relazioni personali l’amore del Signore che riceviamo. 

sabato 28 maggio 2016

CORPUS DOMINI






La Festa del Corpus Domini che celebriamo oggi, ci aiuta a riflettere sul mistero dell’Eucarestia. San Paolo ci ricorda che nell’ultima cena Gesù ha profetizzato la sua morte in croce, offrendo ai suoi discepoli la possibilità di continuare a vivere con Lui e di Lui. “Questo è il mio corpo che è dato per voi” (1 Cor 11,24): sono parole che esprimono il significato della vita di Gesù, spesa per gli altri, donata ai discepoli. Celebrando l’eucarestia in memoria di Lui, veniamo invitati a vivere come Lui ha vissuto. Il Vangelo ci ricorda anche che il significato della vita di Gesù, che ritroviamo nell’ultima cena, ha un riflesso anche sul mondo. “Voi stessi date loro da mangiare” (Mc 9,13). Ci cibiamo, allora, del Signore, non per rimanere chiusi nel nostro intimismo, ma per aprirci al mondo, soprattutto a quel pezzo di mondo che soffre. Il Signore è venuto in mezzo a noi per mostrarci il cammino da seguire e si offre come alimento per darci la forza di vivere come lui ha vissuto.

venerdì 13 maggio 2016

PENTECOSTE




Paolo Cugini

C’è una relazione strettissima tra la Parola di Dio e lo Spirito Santo. Ce lo ripete in varie circostanze il Vangelo che abbiamo ascoltato (Gv 14,15-16.23-26). “Il Paraclito, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, Lui v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto”. Lo Spirito Santo, che continua nella storia la missione del Figlio, agisce in noi aiutandoci a ricordare le modalità che Gesù utilizzava per affrontare i problemi. Se C’è un dato che ritorna come un ritornello nel Vangelo di Giovanni è proprio questo: Gesù ha cercato in ogni momento della sua vita di fare la volontà del Padre e non la sua. Gesù desidera fare la volontà del Padre per il fatto che lo ama e ha da sempre avvertito su di sé il suo amore. “Perché l’amore con il quale mi hai amato sia in essi” (Gv 17,26). L’amore del quale Gesù sempre parla non è appena uno sforzo, un andare verso, ma anche e, forse, prima di tutto, un ricevere che proviene dall'esperienza di essere amati. E’ questa la forza della vita, che dà le motivazioni del nostro agire e cioè la pressa di coscienza di essere amati, voluti bene da qualcuno.  Quando questo avviene il desiderio non è più quello si soddisfare se stessi, ma colui che ci ama. Ebbene, la vita spirituale è esattamente questo, la percezione di essere importanti per qualcuno, percezione che immediatamente ci apre verso gli altri e il mondo. Lo Spirito Santo agisce in noi ricordandoci in che modo Gesù amava il Padre e come riusciva a portare questo amore dentro la storia degli uomini e delle donne che Lui incontrava.

Il problema che si pone a questo punto è il seguente. Che tipo di azione lo Spirito Santo può realizzare nella coscienza di un credente che è pieno di devozioni e vuoto di conoscenza della Parola? E’ chiaro che lo Spirito Santo agisce come vuole e può fare quello che vuole e quindi, suscitare la fede anche attraverso a delle devozioni umane.  Il punto, però, è un altro e cioè dare valore e peso alle parole pronunciate da Gesù nel conteso dell’ultima cena. Se lo Spirito Santo agisce facendosi ricordare quello che Gesù ha detto, per fare in modo che possiamo agire nelle scelte della nostra vita conforme ai suoi insegnamenti, se non c’è un rapporto quotidiano con la sua Parola, lo spirito Santo non trova molti appigli. Probabilmente questo tipo di osservazioni erano inutili nella chiesa dei primi secoli. Sappiamo, infatti, dalle predicazioni dei Padri giunteci sino a noi, quanto importante era l’interiorizzazione della Parola di Dio nell'esperienza di fede dei primi cristiani. E’ stata la devozione moderna, diffusasi soprattutto in Occidente sotto tante forme variegate, a deturpare questo rapporto privilegiato dei fedeli con la Parola di Dio. A cosa serve, infatti, sapere tutti i discorsi (?) di Maria pronunciati da qualche parte del mondo e non conoscere nulla o quasi del Vangelo? Le devozioni spesso e volentieri sono deturpazioni del messaggio evangelico. Mentre, infatti, il Vangelo spinge alla comunione e alla relazione con gli altri, la devozione spinge all'individualismo e alla chiusura su di sé.


La Pentecoste che stiamo celebrando dovrebbe risvegliare in noi il desiderio di riprendere in mano la Parola di Dio, così come ci ha consigliato la Chiesa nel Concilio Vaticano II. Lo Spirito Santo, allora, troverebbe dentro di noi gli agganci per condurci verso gli altri, realizzando il sogno del Padre manifestato nella vita pubblica del suo Figlio Gesù: un’umanità nuova, non ripiegata su se stessa, ma aperta all'incontro dell’altro, disponibile a continuare il cammino della giustizia e dell’amore inaugurato da Cristo. 

lunedì 21 marzo 2016

PASQUA 2016




PASQUA SEGNO DI SPERANZA
Paolo Cugini

Se volessimo raccogliere per noi e per il nostro cammino comunitario un contenuto che la Pasqua ci dona, potrebbe essere quello della speranza. Gesù nel Vangelo ci dice che: “Chi mette in pratica la Parola di Dio non vedrà la morte in eterno”. A questa affermazione i farisei rispondono che i profeti ed Abramo hanno ascoltato la Parola di Dio e sono morti. Che cosa significa allora quello che Gesù ha detto? La risposta è la Pasqua. Gesù è la Parola di Dio, la sua vita si è sviluppata in obbedienza e docilità al Padre, e proprio per questo la morte è riuscita ad afferrare Gesù, ma per poco, non lo ha imprigionato. E’ questo che la Pasqua vuole annunciare: una potenza di vita che si è rivelata più forte della potenza della morte. Gesù ha percorso questo cammino indicando la direzione di una vita che non rimane afferrata dalla morte, cammino che ogni uomo e ogni donna può compiere. E’ per questo che Gesù è venuto in mezzo a noi, con una carne simile alla nostra, per mostrare che è possibile con il suo aiuto e vivendo in docilità al Padre, ascoltando e vivendo il Vangelo, passare da questo mondo al Padre. Gesù ha aperto a tutta l’umanità il cammino della vita. Il cammino dell’esistenza umana può diventare un cammino di vita, allora, quando ascoltiamo e mettiamo in pratica il Vangelo che esprime l’amore di Dio per noi e che chiede all’uomo e alla donna l’amore fraterno. L’amore del Signore per noi che ascoltiamo nel Vangelo è una logica che viene da fuori del mondo, viene cioè dall’amore infinito di Dio creatore. E allora una vita vissuta in questo modo non può che avere come traguardo Dio. Certamente tutti pagheremo il dazio della morte, ma non si tratta di una sconfitta per sempre, né una perdita definitiva dell’esistenza. Gesù il terzo giorno è risuscitato dai morti: la morte ha avuto potere su di Lui solo per un periodo limitatissimo di tempo: la vittoria della vita è invece definitiva. Questo è l’annuncio della Pasqua e questa è la nostra speranza, che si traduce in un invito a prendere il Vangelo come regola di vita, perché quando lo facciamo il cammino della nostra vita tende verso Dio, verso la vita piena. L’amore di Dio Che si è manifestato in Gesù risuscitandolo dai morti, sia per tutti noi motivo di consolazione e di speranza. Buona Pasqua a tutti e buon cammino. 

lunedì 29 febbraio 2016

NESSUNO TI CONDANNA




Domenica. V di Quaresima, C
(Is 43, 16-21; Sal 125; Fil 3,8-14; Jo 8,1-11)

Paolo Cugini

1. Ci stiamo avvicinando alla celebrazione della Pasqua del Signore, del mistero della sua morte e Risurrezione, e la liturgia dell Parola ci spinge verso un ultimo passo del cammino di quaresima. Dopo essersi soffermata a mostrarci la realtà della nostra umanità e della possibilità che in Cristo abbiamo di riscoprire la nostra dignità di figli, oggi abbiamo ascoltato che cosa l’incontro con Cristo dovrebbe produrre in noi. Discepolo  e discepola è colui e colei che incontra Cristo e accetta di seguirlo sino alla morte, scoprendo che, oltre la morte spirituale dei nostri peccati, c’è una possibilità nuova di vita, un superavit di significato, che richiede alcune condizioni.

2. Che cosa significa che storia ascoltata nel Vangelo? Tante cose. Senza dubbio ci rimette dinnanzi alla nostra condizione di peccatori: fa sempre bene alla salute spirituale ricordarci chi siamo e da dove veniamo. C’è, comunque, in questo testo che narra l’incontro di Gesù con la donna sorpresa in adulterio, qualcosa di nuovo che diventa estremamente importante nel nostro cammino di fede. Questo qualcosa di nuovo è l’atteggiamento di Gesù dinanzi alla donna adultera. Gesù, infatti, non esprime nessun giudizio morale che possa in un certo modo umiliare la donna, metterla a disagio, farla sentire in colpa. Al contrario, nella scena narrata, Gesù diventa l’ancora di salvezza per questa donna, dinanzi ad un’umanità inferocita per il suo peccato. E questo è, allo stesso tempo, un quadretto abbastanza ridicolo, ironico. Non è Gesù che si scandalizza e fa della morale per il peccato commesso dalla donna, ma sono gli uomini che condividono la stessa condizione di peccato a giudicare, condannare la donna, esprimendo, in questo modo, un clamoroso autogol, come poi si rivela nel resto del racconto. Gesù non condanna, non giudica, ma fa silenzio. É questo senza dubbio un grandissimo insegnamento evangelico, del quale dovremmo fare tesoro in questo cammino di quaresima. Se abbiamo interiorizzato un pò le letture di queste domeniche, allora avremmo dovuto capire che solo Dio é santo e noi siamo tutti peccatori. La verità di questa presa di coscienza spirituale, la dovremmo esprimere con il nostro silenzio sul peccato degli altri, la sospensione del nostro giudizio che si trasforma in condanna, allontanamento, discriminazione. Infatti, tutti noi sappiamo molto bene quanto sia difficile liberarci dal peccato, vincere la tentazione,camminare nella fedeltà. La consapevolezza della difficoltà di vivere coerentemente il nostro rapporto con il Signore, dovrebbe aiutarci a diventare maestri di umanità, per avere verso gli altri la stessa compassione che il Signore ha avuto e continua ad avere con noi. E allora, perché Gesù tace? Perché dinnanzi alla stupidità manifestata dai giudizi sul peccato altrui, è meglio tacere.  Silenzio come mezzo per aiutare tutti quanti a compiere una sana riflessione introspettiva e capire che, la differenza tra la donna e noi, non è poi così grande. E siccome c’è somiglianza nella condizione di peccato, é meglio chinare la testa e filarsela alla svelta. Gesù non giudica né la donna né la gente che voleva ucciderla: offre a tutti la possibilità di guardarsi dentro e, in questo modo, prendere una decisione più serena e obiettiva. Gesù è la pace che aiuta l’umanità a tornare in se stessa, a prendere tempo, a guardarsi dentro, a conoscersi meglio per maturare decisioni più libere e consapevoli, non dettate da passioni immediate o accecate da leggi fatte da uomini. Gesù è il Figlio che ci ama come fratelli e sorelle, tutti quanti allo stesso modo, e siccome ci vuole bene ci accoglie in questa relazione fraterna per condurci a guardare nell’altro, nell’altra non un nemico da uccidere, ma un fratello, una sorella da amare, abbracciare, accogliere. Sono questi atteggiamenti che manifestano la natura divina di Gesù. È questa umanità sovraccarica di amore,che riesce a intravedere una possibilità di vita là dove l’umanità vede solo morte, che ci conduce ad affermare la divinità di Cristo.

3. Essere Cristiani significa seguire il Signore e, mentre lo seguiamo veniamo trasformati dal suo Spirito per conformarci a Lui. É una riflessione che abbiamo già fatto nella seconda domenica di quaresima, quando tentavamo di penetrare il mistero della trasfigurazione del Signore.  Che cosa significa ciò? Quando è che avviene in noi quella capacità di vedere negli altri dei fratelli e delle sorelle? Che cosa ci succede quando cominciamo ad avere lo stesso sguardo di Cristo sulla realtà?
Ci sbarazziamo del passato. Ce lo ricorda san Paolo nella seconda lettura e anche Isaia nella prima. “Per causa Sua ho perso tutto. Considero tutto come spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere incontrato unito a Lui” (Fil 3,8).

É quando attribuiamo la nostra forza, la nostra identità alle cose che ci sentiamo in diritto di giudicare gli altri . Quando Cristo, la nostra pace, entra nella nostra vita, produce in noi questo sentimento di libertà, di apertura totale agli altri, desiderio che si realizza nella collaborazione alla costruzione del Regno dei cieli. Quando il Signore entra davvero nella nostra vita –ed è questo che dovrebbe succedere a Pasqua- allora tutto quello che eravamo non serve più, lo possiamo gettare via, perché appartiene all’uomo vecchio, alla donna vecchia, appartiene a quel passato egoista che ci conduceva a sentirci superiori agli altri e, di conseguenza, a giudicarli.  Solo che, in Cristo siamo divenuti creature nuove ( cfr. 2 Cor 5,17) e le creature nuove camminano guardando avanti, al futuro,senza rancori e invidie, ma con l’anima ripiena di compassione e misericordia.

“Non ricordate le cose passate, non guardate per i fatti antichi. Ecco che io faccio nuove tutte le cose e già stanno sorgendo: per caso non le riconoscete?” (Is 43,18-19).

Nel Battesimo siamo divenuti creature nuove e come tali siamo stati resi capaci di cogliere la novità del Signore presente nella storia. Una storia che Gesù ha scritto con la propria sofferenza e con il proprio sangue: una storia che continua in questo stesso modo. Vediamo le cose nuove che Dio sta realizzando, quando siamo disposti ad amare sino alle estreme conseguenze, quando siamo disposti a morire al nostro egoismo, che si trasforma nell’umana tentazione di eliminare l’altro, affinché, al contrario, possa incontrare spazio, amore, accoglienza. Riusciamo a vedere le cose nuove del Signore quando apprendiamo ad offrire ai fratelli e alle sorelle che il Signore pone sul nostro cammino, non un giudizio negativo di condanna, ma una nuova possibilità di vita. É di cristiani così aperti e nuovi che il mondo ha bisogno: di bacchettoni, possiamo anche farne a meno.

4. “Meraviglie ha fatto con noi il Signore, esultiamo di allegria!”.
 Questa esplosione di gioia che abbiamo manifestato con il salmo, possa essere espressa durante tutta la settimana attraverso quegli atti nuovi, quegli sguardi nuovi dei quali Dio Padre ci ha resi capaci attraverso il suo Figlio Gesù.




GLI CORSE INCONTRO




DOMENICA IV DI QUARESIMA/C
(Gs 5, 9-12;Sal 34; 2 Cor 5, 17-21; Lc15,1-3.11-32)

Paolo Cugini

1. Le letture della scorsa domenica ci invitavano a non rimandare il tempo della nostra conversione, ma a considerare il tempo presente come il momento favorevole per il nostro incontro con il Signore. Oggi, nella quarta domenica del tempo di quaresima, la liturgia della Parola viene al nostro incontro cercando di spiegarci il contenuto di questa conversione. Le domande che possiamo prendere come sfondo della liturgia di oggi potrebbero essere le seguenti: in definitiva che cosa significa convertirsi al Vangelo? Che cosa esige il Signore da noi? Quali sono i passi che dobbiamo realizzare nel presente della nostra esistenza, per rendere vera ed autentica la nostra adesione al Signore?

2. La prima risposta che possiamo dare a queste domande è che davanti alla proposta del Signore non possiamo rimanere neutrali. Il Vangelo di oggi, infatti, apre proprio con questa immagine. Davanti a Lui ci sono da una parte i farisei che lo criticano e, dall’altra i peccatori che si avvicinano per ascoltarlo. Chi in questa quaresima si sente troppo giusto, probabilmente avrà già iniziato a prendere le distanze dalla sequela di Gesù giudicandola sorpassata o troppo radicale. Chi, al contrario, sta lasciando la Parola del Signore penetrare dentro di sé, non starà sentendosi troppo bene. E allora sentirà l’esigenza di approfondire il discorso, di capire meglio quello che Gesù intende dire. Chi decide di prendere a serio la propria vita e quindi di smetterla di nascondersi dietro le maschere costruite nel tempo, per non stare male tutta la vita e intravedendo nella proposta di Gesù una possibile via di uscita positiva, cercherà di ascoltarlo. Umiltà è la base per un cammino spirituale e umiltà si misura dall’idea che abbiamo di noi stessi. Se davanti al Vangelo ci sentiamo a posto, significa che siamo messi male, che il nostro cammino spirituale é veramente arrivato alla frutta. Solo Cristo é infatti il Santo di Dio e, dinnanzi al Santo, tutti siamo peccatori e bisognosi di una salvezza che non ci possiamo dare con le nostre mani, ma che viene dall'alto per puro e gratuito dono di Dio (Cfr. Rom 3). Se, al contrario, davanti ad una pagina del Vangelo ci sentiamo male, significa che stiamo ancora bene, perché siamo ancora in contatto con la realtà di noi stessi che è la percezione di qualcosa che deve essere modificato nella nostra esistenza. Se ascoltando questi primi versetti del Vangelo ci siamo identificati con i pubblicani e i peccatori, possiamo procedere nell’ascolto, perché Gesù ci rivelerà qualcosa d’importante per il nostro cammino di conversione. Se, al contrario, ci siamo identificati con i farisei, con coloro cioè che pensano di saperla più lunga di Gesù, possiamo tranquillamente chiudere il Vangelo ed uscire dalla Chiesa: il Vangelo non è roba per esseri superiori, ma per i piccoli.

3. Per noi che siamo rimasti in Chiesa, perché ci sentiamo piccoli, peccatori e bisognosi della misericordia del Signore, che cosa ha da dirci il seguito del Vangelo? Ci rivela qualcosa di noi e qualcosa di Dio.
Ci rivela, innanzitutto, qualcosa di noi nella figura dei due fratelli. Ci dice, infatti, da un lato che abbiamo la testa così dura, il cuore così chiuso dal nostro orgoglio e l’anima così piena di noi stessi e del nostro egoismo, che per capire che stiamo sbagliando strada, abbiamo bisogno di cadere nel fosso. Il figlio che abbandona la casa paterna e parte pensando di realizzare la propria vita, siamo noi tutte le volte che vogliamo fare di testa nostra, che pensiamo di essere i protagonisti assoluti della nostra vita e non vogliamo ascoltare niente e nessuno. Tutte le volte che agiamo in questo modo, stiamo compiendo un passo in più verso il baratro del non senso e dell’insignificanza della vita. E allora, mentre pensiamo di realizzare una vita piena di successo, in realtà la stiamo distruggendo riempendola di nulla. E così, improvvisamente, in mezzo al cammino della nostra vita, ci sentiamo stranamente vuoti, senza nulla dentro. Chi riesce, in questa situazione esistenzialmente catastrofica, entrare in sé stesso, riconoscere i propri errori assumendo la responsabilità del proprio fallimento e chiedendo aiuto a Dio, potrà rialzarsi e con fatica rimettersi in cammino. Chi, al contrario, continua a non accettare il proprio fallimento di una vita auto-centrata e egoista, cercando da tutte le parti punti di riferimento sui quali scaricare la propria rabbia, ha bisogno di mangiare ancora qualche chilo di ghiande insieme ai porci.

4.  Il figlio più vecchio che, invece di gioire con il padre per il ritorno del fratello, si arrabbia al punto di non voler entrare nella festa,  è il simbolo di una vita religiosa non gratuita ma interessata. La storia di questo figlio più vecchio dovrebbe condurci ad interrogarci: perché andiamo in Chiesa? Che cosa stiamo cercando tra le mura della parrocchia? Se non abbiamo ancora capito che in Cristo, Dio ci ha donato tutto se stesso e che nella Chiesa incontriamo tutti i mezzi della salvezza e, nonostante ciò abbiamo sempre da ridire qualcosa, da criticare, da giudicare tutto e tutti, vuole dire che il nostro cammino spirituale é un poco materiale, interessato, non è cioè molto chiaro e autentico. Il tempo di quaresima diventa, allora per noi il tempo privilegiato per liberarci da tutte le nostre pretese religiose, da tutto il nostro materialismo spirituale, per camminare più liberi e sereni dietro al Signore.

5. Che cosa ci dice e c’insegna su Dio questa pagina del Vangelo? Lo abbiamo senza dubbio già capito e cioè che Dio è un Padre immensamente buono, che fa venire la voglia di corrergli incontro per abbracciarlo. É un Padre che non guarda mai il lato negativo del figlio, ma che confida nella sua possibilità di realizzare il bene. É un Padre che non giudica, che non condanna, ma che spera con pazienza che noi suoi figli corriamo tra le sue braccia misericordiose. Contare con un Padre così è veramente una grazia immensa. É il suo amore infinito che distrugge di colpo tutti i nostri falsi idoli, tutte le nostre idee strampalate di Dio. Come si fa, infatti, ad aver paura di un Dio così? Chi ci ha messi in testa che dobbiamo avere paura di Lui? É bello ed è fantastico poter contare su un Dio così  che ci aspetta sempre, che con pazienza perdona tutte le nostre colpe, che non si scandalizza dei nostri peccati, che avvolge le nostre ombre con la sua luce, che copre il nostro egoismo con il suo immenso amore. Mettiamoci in ginocchio, allora e preghiamo. Gettiamoci in ginocchio e piangiamo la nostra stupidità. Gettimoci in ginocchio e ringraziamo il Padre del suo immenso amore per noi. Gettiamoci in ginocchio chiedendo al Padre umiltà di non abbandonarlo mai più.



giovedì 25 febbraio 2016

RIFLESSIONI SUL SALMO 103




Riflessioni di Paolo Cugini

Il tema fondamentale del salmo è la benedizione. Benedire significa riconoscere Dio come sorgente della vita, della gioia, della salvezza, del benessere che possono accompagnare la vita dell’uomo.
Il salmo inizia con un’esperienza personale: Benedici il Signore anima mia. La conclusione è: benedite.

Non dimenticare tanti suoi benefici. Il modo concreto di benedire il Signore è il ricordo, il non dimenticare, il raccontare quello che Dio ha fato per noi. Questo è uno dei comandamenti fondamentali dell’esperienza d’Israele. Non dimenticare (Dt 9,7); guardati dal dimenticare (Dt 6,12). Vuole dire: ricorda quello che hai conosciuto e sperimentato e scrivilo, imprimilo e incidilo dentro al tuo cuore.

Quali sono questi benefici che il Signore ha fatto?
vv. 3-5: perdona, guarisce, salva, corona, sazia.
6-7: concretezza del perdono.
Agisce con giustizia: si dice delle grandi opere che Dio ha compiuto nella storia d’Israele sono opera di giustizia perché esprimono la fedeltà di Dio. Agendo in questo modo Dio ha mostrato a Mosè le sue vie e ai figli d’Israele le sue opere (v.7).

Lento all’ira: è l’espressione di un Dio che interviene nella storia con il suo giudizio e la sua condanna. Se non ci fosse l’ira di Dio anche la sua bontà non avrebbe valore. Se non Dio non fosse giudice la nostra povera storia diventerebbe senza equilibrio e senza giustizia. L’ira di Dio è la reazione di Dio alla corruzione, cioè a tutto quello che minaccia la ita. L’ira di Dio è un’espressione biblica forte per mostrare la presa di posizione di Dio dinanzi a ciò che minaccia la vita. Se ciò non avvenisse ci troveremmo dinanzi ad un Dio apatico, che non s’interessa di noi, che pensa solo agli affari suoi, un Dio impersonale, com’era quello aristotelico. Ci sono delle forze che minacciano la vita e non si può rimanere indifferenti di fronte a quelle realtà, altrimenti è la vita stessa che viene messa in pericolo. L’ira di Dio è questo: c’è una giustizia che alla fine trionfa e s’impone sopra il corso degli avvenimenti umani.

L’ira di Dio dura un istante, mentre il suo amore dura per sempre. L’ira di Dio risponde al peccato dell’uomo e quindi ha la brevità del nostro peccato. L’amore di Dio è l’espressione della sua identità.
Cfr. San Paolo Ef 4,26-27: nell’ira non peccate. Quando siamo dinanzi ad una situazione di male anche a noi è lecito reagire; stiamo attenti però a fare in modo che l’ira, reazione sana, non diventi peccato.

V. 9: il Signora contesta, ma non per sempre; per questo non ci tratta secondo i nostri peccati, non ci ripaga secondo le nostre colpe. La bontà del Signore prevale.

Il salmista usa tre immagini per farci capire questo concetto:
1.      Come il cielo è alto sulla terra, così è grande la sua misericordia su quanti lo temono. Dio supera la più grande verticale possibile che possiamo immaginare.
2.      Distanza orizzontale: come dista l’Oriente dall’Occidente. Allontana da noi le nostre colpe. Isaia dice che il Signore le nostre colpe se le getta alle spalle (Is 38,17). Miche dice che Dio getta le nostre colpe nel profondo del mare (Mic 7,19).
3.      Come un padre ha pietà dei suoi figli: viene in mente la parabola del Figliol prodigo. L’amore paterno va al di là di una riflessione razionale. L’amore paterno è creativo, crea un affetto e un legame dove umanamente sembrerebbero non più presenti. Nella liturgia della messa troviamo questa espressione: o Dio che manifesti la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono… Non cerchiamo l’onnipotenza di Dio nella creazione del cosmo, ma quando Dio cambia il male in bene: qui si manifesta l’onnipotenza di Dio.

Le grandi opere di Dio sono legate alla fragilità e alla condizione dell’uomo.
Perché Dio agisce in questo modo?
Dio è pronto a perdonare l’uomo perché è infinitamente buono e misericordioso.
Perché egli sa di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere. Dio usa misericordia verso di noi perché ci conosce, sa qual è la nostra condizione.
Due immagini:

1.      La nostra vita dura poco: come si fa ad essere duri con una creatura così debole come l’uomo e al donna? Come si fa ad essere duri con dei condannati a morte? Come si fa a sparare su di un morto? Siamo polvere: ce lo ricorda già il primo libro della Bibbia (Gen 2,7). Il materiale di uci siamo fatti è un po’ di fango sul quale Dio ha soffiato il suo spirito di vita. Proprio perché siamo fatti così, il nostro materiale è incline al male. La percezione della fragilità dell’uomo è un motivo che dà forza alla misericordia di Dio.
2.      Il Signore ha stabilito in cielo un trono. La sovranità del Signore sopra il mondo e la storia.



RIFLESSIONI SUL SALMO 22





SALMO 22


Riflessioni di Paolo Cugini


E’ UN SALMO DI SUPPLICA E DI RINGRAZIAMENTO.
 Sono parole di una persona che ha sperimentato la sofferenza e nella sofferenza si dirige al Signore con il grido della supplica ricevendo risposta positiva. Per questo trasforma il suo lamento in un rendimento di grazie.
Caratteristica: si tratta di una sofferenza che ha condotto il salmista sino alle soglie della morte (v. 16). La liberazione dalla sofferenza ha assunto i toni di una risurrezione. Misericordia di Dio che dà vita, che rimette in piedi.
Il salmo è diviso in due parti:
Prima: appello a Dio
Seconda: ringraziamento.
In mezzo: immaginiamo la salvezza, l’intervento del Signore

PRIMA PARTE
2. Si deve immaginare questa richiesta al termine di una lunga preghiera. Per giorni il salmista ha invocato il Signore e adesso sembra al limite della sopportazione. C’è una formula paradossale: Dio mio, esprime legame. “Perché mi hai abbandonato”: è un’accusa.

Tu sei lontano dalla mia salvezza: in alcuni salmi Dio viene definito come mia salvezza. In questo caso Dio sembra lontano dalla sua stessa identità. Questa è l’esperienza più difficile della fede (cfr. Giobbe): trovarsi di fronte ad un Dio che non immaginiamo. Vediamo l’esperienza grande della fede quando Dio sembra dimenticare o trascurare l’uomo. Pensiamo alla fede come una scelta fatta da noi. Nella concezione biblica è Dio che ha costruito il legame con me. Mi posso ribellare, ma non posso cancellare il legame con Lui. Dio sta prima di me: da Lui non mi posso allontanare. Nel nostro salmo spariscono le concezioni tipiche che abbiamo di Dio, di colui che risponde alle invocazioni (Sal 118,5: nell’angoscia ho invocato il Signore; mi ha risposto il Signore e mi ha tratto in salvo).
4-6: ricorso all’esperienza dei padri, il ricordo va alla storia d’Israele: Dio ha liberato e salvato i nostri padri, hanno potuto sperimentare la potente misericordia del Signore.

7-9: dice tutta la distanza tra la salvezza del passato e l’angoscia presente. C’è tutta l’esperienza dell’esclusione: il salmista si sente escluso e rifiutato dal suo popolo.

10-11: ricordo della propria esperienza personale: sei tu che mi hai tratto dal grembo. Se andiamo indietro nell’esperienza della nostra vita non riusciamo a trovare un momento senza la vicinanza, la premura e la tenerezza di Dio. Nei momenti di sconforto occorre avere la lucidità di non permettere che il male presente offuschi la luce del bene vissuto nel passato. Dovrebbe invece avvenire il contrario. Il ricordo positivo della misericordia di Dio nella nostra vita, deve darci la forza di sopportare la sofferenza presente. Dal grembo di mia madre tu sei il mio Dio.

12: il salmista vive una situazione per cui non può cercare aiuto nella società, negli altri, nella famiglia. Il salmista si trova come circondato da persone e situazioni che vogliono il suo male: 13-14. E’ difficile comprendere che a che cosa il salmista si riferisce; senza dubbio sono parole che esprimono una grande paura.
15: il salmista esprime la sua condizione attuale con delle immagini.
La prima immagine è dell’organismo umano che si disfa. Le ossa non riescono più a tenere in piedi il corpo e gli organi perdono la loro identità.
Immagine dell’acqua: aridità della vita senza acqua.

Su polvere di morte mi hai deposto: in realtà come abbiamo letto, sono gli uomini che lo stanno minacciando. Ma il salmista legge questi eventi come voluti da Dio. E allora se da Dio dipende la condizione di morte da Dio dipenderà anche la possibilità di salvezza.
 17-21: il clima diventa ancora più negativo.
20-22: supplica. Prima il salmista aveva chiesto di essere salvato dalla morte, adesso chiede di essere liberato dai nemici. Il Signore, se vuole, può ricondurci alla salvezza, alla pienezza di vita.


SECONDA PARRTE
23-25: ALL’IMPROVVISO IL SALMO CAMBIA DI TONO. C’è stato senza dubbio un intervento di Dio, che è lasciato all’immaginazione. Il salmo era iniziato con espressioni di angoscio e dolore, adesso il Signore si è fatto conoscere, vedere, sentire toccare dal salmista.

Annunzierò il tuo nome ai fratelli: è la prova che è avvenuto qualcosa, che c’è stato un incontro, che il salmista ha percepito il passaggio di Dio nella sua vita. Si è sentito ascoltato, guardato. La prova di questo incontro è la disponibilità e il desiderio di comunicarla (cfr. Isaia, Pietro, ecc.).

Nome del Signore: esprime l’identità del Signore conosciuto dentro un’esperienza. Il nome del Signore è quello che il Signore ha fatto. Se diciamo “Il nome del Signore è il salvatore”, come affermiamo nel Magnificat, non stiamo esprimendo un concetto, una riflessione, ma il contenuto di un’esperienza. Se Dio è salvatore è perché mi ha salvato. Ebbene quando sperimentiamo Dio in questo modo non riusciamo a trattenerlo per noi, ma desideriamo comunicarlo immediatamente. Il nome di Dio è quello che di Dio abbiamo sperimentato, per questo quando pronunciamo il suo nome ci viene in mente qualcosa, un ricordo, una storia, un legame speciale.

 “Annunzierò il tuo nome”, quello che ho conosciuto di te, in mezzo all’assemblea. Prima, all’epoca della sofferenza causata dagli insulti, era fuggito dall’assemblea, dal contesto sociale: ora vi ritorna e coinvolge tutto il suo popolo. Ciò significa che l’esperienza di salvezza del salmista non è appena individuale, non rimane e non può rimanere dentro di lui, ma deve uscire, coinvolgere tutto il popolo nel rendimento di grazie e nella lode.

26-27: il ringraziamento si allarga in particolare ai poveri
28: Il cerchio si allarga all’umanità intera. Perché il regno di Dio è universale e riguarda l’umanità intera.

Il regno di Dio: salvezza di Dio, la sua provvidenza, l’amore e la giustizia di Dio, che riguardano tutti gli uomini. La prospettiva universale è così grande che il salmista giunge ad esprimere qualcosa che prima non si era mai sentito:

30: nella concezione della religiosità di Israele e nei salmi i morti non lodano il Signore. Sono i viventi che sperimentano il dono della benedizione di Dio. Nel nostro salmo sono coinvolti anche loro e quindi il rendimento di grazie del nostro salmo supera anche la soglia che sino ad allora era impensabile, vale a dire la morte, il regno dei morti.

31-32: E io vivrò per lui. Conclusione stupenda del salmista.