[Annotazioni
di Paolo Cugini]
Con
il cap.7 si apre una nuova sezione che comprende i capp.7-9; capitoli che pur
formando unità narrative a sé stanti e ben circoscritte, sono tuttavia legati
tra loro da una continuità narrativa geografica e temporale. Quanto all'aspetto
geografico l'azione si svolge in tutti tre i capitoli a Gerusalemme (7,10). Nei
primi due essa si svolge nel tempio, ma in due giorni successivi. Il cap. 7,37a
infatti attesta che era l'ultimo giorno della festa delle Capanne, il più
grande, mentre il cap.8,2a si apre affermando che “Sul far del giorno, giunse
nuovamente al tempio”, da cui esce al termine del cap.8,59b. Il cap.8 pertanto
è circoscritto da un'inclusione data da un movimento uguale e contrario:
entrata e uscita dal tempio. Quanto all'aspetto temporale il cap.7 è
incorniciato all'interno della festività delle Capanne (7,2.8.10.11.14.37),
mentre i capp.8-9 si collocano il giorno successivo a quello dell'ultimo giorno
della festa delle Capanne, il giorno che Lv 23,36b definisce come l'ottavo
giorno. Questo costituisce una sorta di transizione tra il periodo della festa
delle Capanne, la cui durata era di sette giorni (Lv 23,36a), e il normale
periodo feriale che sanciva il ritorno alle attività quotidiane. L'ottavo
giorno quindi non appartiene più alla festa delle Capanne propriamente detta;
anche la quantità dei sacrifici, che dal primo al settimo giorno si ripetevano
in 13 giovenchi, 2 arieti e 14 agnelli; giovenchi che scalavano uno per giorno
fino a giungere a sette giovenchi al settimo giorno (Nm 29,12-33), all'ottavo
giorno essi diventavano “un giovenco, un ariete e sette agnelli” (Nm 23,36);
anche il ritmo narrativo che si ripete costante dai vv.12-35, giunti all'ottavo
giorno (Nm 23,35) cambia improvvisamente e compaiono nuove regole rispetto a
quelle della precedente settimana. Quanto al cap.9, in cui si colloca il
racconto del cieco nato, esso si svolge sempre nell'ottavo giorno; Gesù,
infatti, uscito dal tempio (8,59b) si imbatte in un uomo cieco dalla nascita
(9,1).
Il
cap.7 potremmo definirlo come il capitolo delle incomprensioni, degli
interrogativi, dei contrasti e delle divisioni che si addensano attorno alla
figura di Gesù. Ben 18 sono gli interrogativi che percorrono l'intero capitolo provenienti dalle folle e dai Giudei su Gesù e da quest'ultimo verso la gente e
verso i Giudei; interrogativi spesso senza risposta o volutamente retorici e
sottesi talvolta da una venatura polemica. Questo denso amalgama di tese
relazioni umane è percorso dal filo rosso della morte che si sta lentamente
avvolgendo attorno a Gesù a partire da questo capitolo e in modo sempre più
evidente con l'andare del racconto evangelico. A questo si contrappone il tema
dell'ora che non è ancora giunta e che per questo ogni tentativo di
sopraffazione viene vanificato; ma ciononostante è l'ora verso la quale Gesù è
ineluttabilmente avviato. Tuttavia, in Giovanni il tema della morte non è mai
angosciante come invece appare nel racconto lucano (Lc 22,44) e in quelli
matteano e marciano (Mt 26,38; Mc 14,34). Per Giovanni, infatti, il cammino di
Gesù verso l'ora è colto come un percorso verso la sua intronizzazione regale e
verso la sua glorificazione. Il Gesù giovanneo è sempre presente a se stesso e
appare in ogni circostanza come il dominatore degli eventi, che si stanno
compiendo attorno a lui. Preso nel suo insieme questo capitolo genera un clima
di forte tensione e segna una svolta decisiva, una sorta di sterzata
all'interno della narrazione del vangelo, che punta diritta verso il Golgota.
Infatti, se fino a tutto il cap.6 emergeva prevalentemente l'incredulità, lasciando sullo sfondo il tema del morire, dal cap.7 in poi
queste si trasformano in atteggiamenti aggressivi, che ben presto diventano
progetti di morte, sempre più appariscenti e sempre più determinati, da parte
delle autorità giudaiche. In altri termini dal cap.7 la tensione sale e le
diatribe si fanno sempre più frequenti, mentre il tema della passione e della
morte si fa sempre più dominante. L'ora che fino al cap.8 non era ancora
venuta, a partire dal cap.12 si dirà che essa è giunta.
L'idea
che nasce da questo concentramento di diatribe, che lasciano più spazio alla
storia che alla teologia, sembra essere quella di raccogliere in un unico
capitolo quegli aspetti storici da cui traspare la forte tensione che aleggiava
attorno a Gesù. In un colpo solo quindi l'autore informa il suo lettore del
clima storico e sociale in cui si svolgeva l'azione missionaria di Gesù e in
cui si collocava la sua stessa persona; un clima che prelude alla sua fine
drammatica, quale sua logica conseguenza. È certamente questo un capitolo che
dà una svolta decisiva all'intero racconto giovanneo, indirizzandolo verso
l'ora della glorificazione di Gesù. In conclusione, il cap.7 è una sorta di
piccola antologia, formata da nove brevi unità narrative giustapposte l'una
accanto all'altra, tenute assieme sia dalla festività delle Capanne, sia da una
forte tensione e dal tema del morire che le accomunano tutte e da cui ne esce
un Gesù molto contrastato: da un lato accolto come persona buona ed
onnisciente, riconosciuta nella sua identità di profeta e di Cristo; dall'altro
incompreso, rifiutato e perseguitato; una figura che certamente creava attorno
a sé divisioni e discordie e che comunque non lasciava indifferente la gente.
1-13:
Questi primi due versetti danno il tono all'intero capitolo. Il v.1 mette
subito in evidenza la grave situazione che si era venuta a creare attorno a
Gesù dopo la guarigione del paralitico presso la piscina di Betzatà (5,1-9a) in
giorno di sabato (5,9b), la quale cosa gli costò i propositi omicidi delle
autorità religiose, non solo per aver violato il sabato (5,16.18a), ma anche
perché si era giustificato appellandosi alla sua figliolanza divina, ponendosi
alla pari di Dio (5,17.18b). Le arie, dunque, per Gesù non erano buone in
Giudea, meglio rimanersene in Galilea, sua terra di origine e dove, a Cafarnao,
secondo il racconto matteano, aveva stabilito la sua dimora (Mt 4,13). La
seconda parte del v.1 vede contrapposte tra loro due regioni: la Galilea e la
Giudea; la prima è la terra familiare di Gesù, da cui è originario (Mt 2,22; Lc
4,16a) e dove egli è stato anche bene accolto dai suoi concittadini (4,45) e
dove si sente sicuro (7,1b.9). È qui in Galilea che egli ha compiuto i primi
due segni, quello delle nozze di Cana (2,1-12) e la guarigione del figlio del
funzionario regio (4,46-54), ottenendo qui i primi successi della sua missione
(2,11; 4,53); qui, dopo il suo duro discorso sul pane, ottiene la piena
solidarietà e la piena adesione dei Dodici (6,67-69), i suoi intimi, anche se
accompagnata amaramente dalla defezione di molti suoi discepoli (6,66). Qui, in
Galilea, secondo la tradizione sinottica, egli aveva dato inizio alla sua
missione e della Galilea erano i suoi primi discepoli. Galilea, dunque,
ambiente familiare e caro a Gesù dove egli suole rifugiarsi nei momenti di
difficoltà (Mt 4,12; Gv 4,1-3). Di tutt'altro tenore è la Giudea dove egli si
scontrerà con la pervicace chiusura dei Giudei, che in Giovanni sono divenuti
sinonimo di inintelligenza e incredulità invincibili; e dove i ripetuti scontri
con le autorità religiose, fautrici di tentativi di arresto (7,30.32.44) e di
progetti omicidi, lo porteranno, infine, sul Golgota. La contrapposizione è
rilevata anche dai due verbi, che accompagnano le due regioni: “camminava” in
Galilea e “non voleva camminare” in Giudea.
la
festa delle Tende, terza festività del pellegrinaggio, assieme a quella della
Pasqua e della Pentecoste, è strettamente legata al Tempio; Dt 16,16-17
stabilisce infatti che tre volte all'anno, nella festa degli azzimi, delle
settimane e delle capanne ogni maschio dovrà presentare una propria offerta al
Signore “nel luogo che egli avrà scelto”, cioè nel tempio. Non a caso, poi,
tutte le vicende e i grandi discorsi di Gesù riportati nei capp.7 e 8 sono
incorniciati non solo all'interno della festività, ma anche del Tempio, che
formerà da sfondo all'intero cap.8. Festa delle Tende e Tempio, quindi, sono
due aspetti che non vanno scissi, se pensiamo, ancora una volta, come il primo
Tempio, quello di Salomone, fu inaugurato solennemente proprio durante la festa
delle Capanne (1Re 8,2.65-66), creando una sorta di connubio che non poteva
essere dimenticato e che certamente la festa delle Capanne in qualche modo
richiamava. Il primo Tempio, poi, fu costruito in sostituzione della Tenda in
cui dimorava l'Arca dell'Alleanza (2Sam 7,1-3; 1Re 8,17-21), che aveva
accompagnato Israele nel suo lungo peregrinare nel deserto. Una Tenda e un
Tempio che Jhwh aveva riempito della sua presenza (Shekinah), della sua
presenza gloriosa (Es 33,9-10; Ez 10,4). Tenda, Tempio e festa delle Tende
costituiscono pertanto nel cuore dell'israelita un trinomio sacro e
inscindibile.
Chi
sono questi fratelli di Gesù e a quali discepoli essi alludono? Quanto ai
fratelli essi vanno intesi in senso carnale. Il termine adelfós, infatti,
compare nel N.T. 343 volte e in tutti i casi il termine indica soltanto due
tipologie di persone: i fratelli in senso carnale e, a seconda del contesto,
indica i fratelli di fede. In nessun caso, comunque, viene usato per indicare
la parentela né in senso stretto né in quello più generico. Del resto, il greco
possiede una ventina di termini specifici per indicare le varie sfumature dei
diversi gradi di parentela, non si comprenderebbe quindi perché l'evangelista,
che scrive in greco, debba usare il termine per indicare la parentela di Gesù
(cfr. G. Lonardi, commento al V. di Giovanni).
v.
4: La coscienza della propria identità nasce sempre attraverso un processo
piuttosto complesso di confronto-scontro tra il sé e l'altro da sé; ma in quale
modo Gesù è pervenuto alla coscienza della sua divinità e della missione da
compiere quale inviato diretto e personale del Padre? Forse il confronto con le
Scritture? La lettura dei Profeti? Il suo relazionarsi al Padre attraverso la
preghiera? Tutte cose queste che forse provocavano in lui forti vibrazioni o
strane sensazioni, aprendogli un po' alla volta la mente e facendogli nascere
lentamente dall'interno la coscienza della sua appartenenza divina.
v.
6: Non si tratta del tempo comunemente inteso, quello scandito dal calendario e
dall'orologio, per il quale il greco usa il termine (crónos), ma di un
particolare tempo definito dal suo contenuto. Si tratta di un tempo giusto,
opportuno, la buona occasione, il momento propizio. Questo tempo è qualificato
da due aggettivi possessivi tra loro contrapposti “il mio”-”il vostro”, che
collocano questo tempo in due campi avversi, perché diversi sono i contenuti di
questo tempo: quello di Gesù è scandito dal disegno salvifico del Padre, che
Gesù sta attuando nella sua stessa persona. Il tempo di Gesù, dunque, è quello
del Padre; un tempo che non gli appartiene, per questo Gesù non può muoversi
secondo le logiche umane. I tempi in cui Gesù si sta muovendo sono scanditi dal
progetto del Padre, che ha preso forma in lui e in lui si sta attuando. Per
questo il mondo non si riconosce in Gesù e lo disprezza, perché non gli
appartiene; eppure, ricorda l'autore, in un gioco di doppi sensi non privi di
una sottile ironia, egli era nel mondo (luogo fisico) e il mondo fu fatto da
lui (creazione), ma il mondo (uomini) non lo riconobbe (1,10).
10-13:
Questa breve pericope ha la funzione narrativa di presentare il clima di
tensione che si percepiva attorno a Gesù: da un lato i Giudei si interrogano
sul “Dov'è quello” (v11); un interrogativo che in qualche modo allude allo
smarrimento delle autorità giudaiche, che non sanno dove collocare Gesù nel
quadro sociale e religioso che caratterizzava il giudaismo; esse, infatti, non
sanno dove “quello” si trovi. L'uso del pronome al posto del nome dice proprio
questa loro inintelligenza circa la persona di Gesù; dall'altro, si hanno le
folle (v.12), nome collettivo anonimo, che dice la generalità della gente, che
si presenta come una società nettamente divisa su Gesù: “è buono”-“è un
ingannatore”. Questa genericità delle definizioni di Gesù e l'anonimato delle
folle danno l'idea di una sorta di statistica, di sommario generale sulla
situazione che si era venuto a creare attorno a Gesù. Infine, sullo sfondo
l'autore annota che il tutto si muove in un clima di paura delle autorità
giudaiche (v.13), che avevano decretato l'espulsione dalla sinagoga chi avesse
riconosciuto Gesù come il Cristo (9,22; 12,42); quindi anche il parlarne poteva
essere sospetto. Questo clima di tensione, al cui interno si muovono
inintelligenza e divisioni, anticipa e introduce in qualche modo i singoli
quadri seguenti, che ne diventano una sorta di illustrazione dettagliata.
14-18:
Gesù, la conoscenza e l'insegnamento che vengono da Dio
La
finalità di questo breve racconto è mettere in rilievo come il dire di Gesù è
lo stesso dire del Padre (v.16), creando una sorta di identificazione tra Gesù
e il Padre, che rimanda in qualche modo a 14,9-11, dove Gesù, rispondendo alla
curiosità di Filippo, gli dice: “Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai
conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire:
Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le
parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le
sue opere. Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo
per le opere stesse”.
Va
posto un chiarimento sull'espressione, che può risultare equivoca: “Come costui
conosce le Scritture non avendo studiato?”. Il termine “grammata” (grámmata), tradotto “Scritture”, significa di per sé “scritti, libri, trattati,
leggi scritte” e simili; di conseguenza sembrerebbe che la gente si interroghi
sul sapere umano di Gesù, come dire come fa costui ad essere così dotto se non
ha nessun titolo di studio. Anche se l'espressione porta a comprendere questo,
tuttavia il contesto storico dice una cosa ben diversa. Il sistema scolastico
obbligatorio ai tempi di Gesù era già funzionante. Per essere un buon ebreo
osservante era necessario che questi sapesse leggere e comprendere la Torah. In
tal senso Rabbì Simeon ben Shetach (120-40 a.C.), studioso fariseo e capo del
sinedrio sotto il regno di Alessandro Ianneo (103-76 a.C.), favorì la
fondazione nelle grandi città di scuole primarie con indirizzo religioso, in
cui si insegnava a leggere e a scrivere ai fini dell'apprendimento della Torah
e della sua pratica. Fino a quel tempo, anche se si mantenne successivamente,
l'insegnamento della Torah era affidato esclusivamente al padre secondo le
disposizioni della stessa Torah, su di lui incombeva il dovere
dell'istruzione. Poiché non tutti i padri erano in grado di assumersi l'onere
di un adeguato insegnamento, né tutti i cittadini erano in grado di pagarsi un
tutore, si avvertì ben presto la necessità di avere una struttura pubblica che
assolvesse a tale compito educativo in modo diffuso e uniforme. L'insegnamento
era esclusivamente orientato ai testi religiosi. Si trattava di imparare a
leggere e a comprendere i testi sacri. I bambini erano obbligati alla frequenza
dall'età di sei/sette anni. Successivamente alla formazione della Mishnah (II
sec. d.C.), il trattato pirqé Abot (5,21) scandiva le tappe fondamentali
dell'educazione pubblica dei fanciulli: “a cinque anni alla Bibbia, a dieci
anni alla Mishnah, a tredici anni ai comandamenti, a quindici anni al Talmud, a
diciotto anni al matrimonio”. Benché questa specie di calendario formativo sia
databile intorno al II sec. d.C. e quindi molti decenni dopo la venuta di Gesù,
tuttavia, esso riporta e codifica in sé antiche tradizioni. È quindi pensabile
che Gesù avesse frequentato questa scuola dell'obbligo che si teneva presso la
sinagoga locale e pertanto sapesse leggere e scrivere e avesse almeno una
rudimentale conoscenza generica della Torah e dei doveri che essa imponeva. Lo
stupore per la sua conoscenza “senza aver studiato” non va riferita pertanto al
suo livello culturale primario o di base, comune alla generalità degli ebrei,
ma alla sua capacità d'insegnamento delle Scritture (cfr. G. Lonardi, commento
al V. di Giovanni).
19-24:
Ricomprendere la Legge a favore dell'uomo
Che Gesù non fosse un fanatico delle
osservanze giudaiche, del sabato o delle regole sulla purità e sui digiuni lo
si arguisce molto bene dai vangeli; così come questi ci attestano che egli non
vedeva di buon occhio la miriade di commenti che formavano la Torah orale e
scandivano, normandolo minuziosamente, quasi in modo ossessivo, il vivere
quotidiano del pio ebreo; così che Gesù definì tutta questa elaborazione
dottrinale, “precetti di uomini” (Mt 15,9; Mc 7,7) e pesi inutili e
insostenibili, accusando le stesse autorità religiose di inosservanza (Mt 23,4).
Il deciso e duro intervento di Gesù presso il tempio di Gerusalemme, malmenando
i venditori di colombe e i cambiavalute, aumentò non poco la forte tensione tra
lui e la classe sacerdotale, che su questi commerci alimentava le proprie
entrate. Il gesto simbolico e profetico del rovesciamento dei banchi dei
venditori alludeva simbolicamente al rovesciamento e al rinnovamento cultuale
che egli era venuto a portare (Mt 23,37). Il suo stesso rapporto con le
autorità religiose, rappresentanti e conservatrici del sistema religioso,
imperniato sulla rigida e formalistica osservanza della Legge mosaica, non fu
tra i più distensivi. Lo scontro quindi tra Gesù e il giudaismo verté
essenzialmente sull'autenticità e sul rinnovamento del culto, che per l'ebreo
aveva delle forti risonanze sul proprio modo di vivere e di rapportarsi a Dio.
25-30:
Due conoscenze a confronto: quella del giudaismo e quella di Gesù
La
struttura della pericope è scandita in due parti: la prima (vv.26-27) riguarda
il sapere proveniente dalla tradizione giudaica circa la venuta del Messia, del
tutto insufficiente per identificare Gesù; la seconda parte (vv.28-29) indica
la provenienza del suo sapere, sconosciuto al giudaismo, troppo legato a Mosè;
un legame che gli impedisce di andare oltre.
31-36:
timori e interrogativi
37-44:
L'annuncio di tempi nuovi crea tra la folla disaccordi sull'identità di Gesù
Il
racconto di questa pericope si colloca all'interno della festa delle Capanne,
che ha avuto una evoluzione teologica e un arricchimento di significati con
l'andar del tempo. Quella delle Capanne è una festa carica di storia e densa di
significati. Il Gesù che si erge nel momento più solenne di questa festa e
lancia il suo proclama dottrinale e rivelativo, riassume in se stesso tutto ciò
che di sacro e di solenne porta con sé questa festività, divenendone di fatto
il compimento. Da un punto di vista strutturale la pericope in esame è scandita
in due parti: la prima (vv.37-39), il cui tenore è rivelativo e dottrinale, è
teologicamente molto densa e nel contempo alquanto complessa; la seconda parte
(vv.40-44) presenta la reazione della folla al breve proclama di Gesù. Torna
nuovamente qui il tema della messianicità di Gesù, che percorre l'intero cap.7
(vv.26-27; 31; 41-42), quasi a rispondere alle attese messianiche che
caratterizzavano la festività delle Capanne.
45-53:
Contrasti e divisioni all'interno delle autorità giudaiche
Narrativamente
questa pericope riprende il racconto iniziatosi ai vv.31-32 in cui i Farisei e
i sommi sacerdoti all'udire tra la folla insinuazioni messianiche su Gesù, ne
dispongono l'arresto. Tra l'ordine di arresto, impartito nel contesto del v.14,
allorché la festa era giunta a metà, e il ritorno dei servi a mani vuote,
avvenuto nel contesto dell'ultimo giorno della festa (v.37) dovrebbero essere
passati all'incirca quattro giorni, un lasso di tempo eccessivo per eseguire un
ordine di cattura nei confronti di una persona che era pubblicamente esposta. Tuttavia,
in questo caso la tempistica giovannea non sembra avere rilevanza teologica e
probabilmente il particolare è sfuggito anche al suo redattore finale. La
struttura della pericope è scandita in due momenti: a) il rapporto dei servi
sul mancato arresto di Gesù con la conseguente reazione stizzita delle
autorità; b) la spaccatura all'interno del gruppo delle autorità per
l'intervento a favore di Gesù operato da parte di Nicodemo, che causa lo
scioglimento del gruppo stesso (v.53), decretandone il fallimento. Il lettore,
già edotto dal v.30b, sa che niente può ancora succedere contro Gesù, perché
non è ancora giunta la sua ora. Elemento di congiunzione e di passaggio tra le
due parti è il giudizio che l'autore mette in bocca alle autorità giudaiche al
v.49, posto non casualmente al centro della pericope e che ricadrà proprio
sulle teste delle autorità stesse.
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