Paolo
Cugini
“Voglio
l’amore e non il sacrificio, La conoscenza di Dio più degli olocausti”
(Os 6,6).
Entrare in un rapporto personale con
Te al punto di sentirti, di percepire la tua presenza d’amore: forse è l’unico
modo per sfuggire dalla religione della forma, che serve solo a tranquillizzare
la coscienza. È terribile quando la religione diventa un’abitudine, ma ancora
di più è terribile quando questa abitudine diventa necessaria, perché i suoi riti
sono divenuti parte essenziale del vivere e, se non si celebrano nel modo
consueto, la persona si sente disorientata. Tutta la religione del mondo ha
come unico obiettivo quello di aiutare le persone a vivere l’amore, a realizzare
la propria vocazione originaria che consiste, per l’appunto, nell’amore. Il
rito, in questa prospettiva, dovrebbe aiutare le persone, sia singolarmente che
comunitariamente, a percepire la presenza del Signore.
Leggo Osea capitolo sei e penso: lo dicevano
già i profeti nell’ottavo secolo prima di Cristo! Come facciamo ad essere
ancora a questo punto? Forse è un problema strutturale dell’antropologia umana,
che vive la religione come struttura di dovere, più che come esperienza di
relazione vitale, che dà senso all’esistenza e la orienta. Viveri i riti come
dovere per avere in cambio qualcosa da Dio significa entrare nell’esperienza
religiosa con la logica del merito e non della gratuità.
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