LO RICONOBBERO NELLO SPEZZARE IL PANE
GIOVEDI 1 SETTEMBRE 2022 Ore 21
Esercizi spirituali parrocchiali sull’eucarestia nella
vita della comunità
Paolo Cugini
Bisogna nutrirsi di Dio per raggiungere liberamente la
divinizzazione (Vladimir Lossky).
Introduzione
Mentre
Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian,
condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio,
l’Oreb. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo
di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel
roveto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a osservare
questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?». Il Signore vide
che si era avvicinato per guardare; Dio gridò a lui dal roveto: «Mosè, Mosè!».
Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Non avvicinarti oltre! Togliti i sandali dai
piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!». E disse: «Io
sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di
Giacobbe». Mosè allora si coprì il volto, perché aveva paura di guardare verso
Dio (Es
3,1-5).
Vorrei
iniziare questo percorso di Esercizi Spirituali con questa narrazione, perché
ci aiuta ad entrare nel clima di preghiera tipico di questi momenti e,
soprattutto, ci aiuta a capire di cosa si tratta. Dio nella vita di ogni
persona si offre come un dono inaspettato, inatteso, improvviso. Per quanto ci
riguarda, per il contesto materialista nel quale viviamo, la manifestazione di
Dio nella nostra vita è uno squarcio di luce nelle tenebre, è davvero una
grandissima novità che ci obbliga, in un certo senso a pensare in modo nuovo e
cioè non più utilizzando solamente criteri economici, di efficienza, di
calcolo, che ci permette di controllare la realtà. Se ci pensiamo bene, è
questa la situazione nella quale siamo immersi, una mentalità che cerca di
avere tutto sotto controllo, per non essere sopresi da nulla e, in questo modo,
per poter vivere tranquillamente. L’esperienza di Dio, invece, significa
l’irruzione della novità nella nostra vita, per fare spazio all’amore, ai
sentimenti, alle emozioni. Dio entra improvvisamente nella nostra storia e ci
chiama per imparare a vedere il mondo e la nostra stessa vita in un modo nuovo,
con occhi nuovi, per vivere in un modo nuovo. Dio entra nella nostra esistenza
e ci scuote, ci trascina fuori dai nostri schemi, per entrare in un’altra
dimensione. Senza dubbio non c’è coercizione, violenza in questo cammino. Dio
si propone ad una coscienza libera e accetta la debolezza del rifiuto. La
storia della salvezza è piena di illustri rifiuti. Pensiamo al profeta Giona
che, una volta chiamato ad annunziare la Parola di Dio nella grande città di
Ninive, fugge (Gn 1,1s). Oppure il giovane ricco, che fa una gran bella
impressione a Gesù, ma una volta che il Signore avanza le sue esigenze radicali
per il discepolato, questo giovane se ne va triste e rifiuta l’invito fatto da
Gesù stesso. Ci sono anche dei rifiuti che avvengono durante il cammino. Basta
leggere le confessioni del profeta Geremia (Ger 15.20) per trovarci dinanzi ad
una reazione negativa alla chiamata del Signore, considerando la reazione del
popolo all’azione del profeta voluta da Dio. Che dire poi di Giuda, il
traditore, Pietro che ha rinnegato Gesù, senza poi parlare degli altri
discepoli.
Il
dono di Dio nella nostra vita, prendendo come modello la vocazione di Mosè, si
manifesta utilizzando la realtà quotidiana. Nel nostro caso si tratta di un
normalissimo roveto, che però ad un certo punto inizia ad ardere senza
bruciare. L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo
di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel
roveto non si consumava. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il
fuoco, ma quel roveto non si consumava. Dio si manifesta nella nostra
realtà con qualcosa di nuovo che dev’essere colto e, per potere cogliere la
novità, occorre guardare, osservare.
Seconda
la tradizione Mosè aveva ottant’anni quando riceve la visita di Dio. È
importante sottolineare questo dato. Spesso parliamo di vocazione come se fosse
esclusivamente un problema della gioventù. Certamente l’incontro con Dio, il
significato della nostra esistenza lo cerchiamo nella gioventù. In ogni modo
non sempre quello che troviamo nella gioventù è il Dio del Vangelo, della
parola di Dio. Spesso coloro che fin da giovani bazzicano le parrocchie quello
che trovano è un insieme di attività gratificanti, il cui insieme viene
attribuito un significato divino. Senza dubbio nelle parrocchie incontrano
qualcosa di buono, però l’incontro con Dio, con il Signore risorto è un’altra
cosa. Dio si manifesta nella nostra vita, ma non è detto che lo cogliamo. A volte
lo confondiamo con le belle cose che facciamo. Dio è un’altra cosa, perché è
novità assoluta. Per poterlo vedere, per poter cogliere la novità del dono che
è Lui, occorre lasciarsi sorprendere, occorre essere curiosi come Mosè che si
avvicina al roveto per vedere che cosa stava succedendo. Una curiosità che si
traduce nella disponibilità a lasciarsi mettere in discussione, a rinunciare
alle proprie certezze religiose. Il cammino di fede dietro al Signore inizia
quando siamo disposti ad abbandonare la religione, a lasciarci alle spalle le
nostre tradizioni religiose che abbiamo identificato con Dio. Chi può aiutarci
in questo cammino di smantellamento, di decostruzione?
Direi
che ci sono tre elementi che ci possono aiutare a percepire la presenza di Dio
nella storia, nella nostra vita. In primo luogo, l’attenzione alla realtà, alle
situazioni che viviamo, soprattutto quando provocano un indurimento della
nostra mente perché non accetta la novità. Secondo, il tempo presente, che è il
tempo in cui la realtà si manifesta nella sua molteplicità, perché è ancora un
punto puro, nel senso che non è ancora avvenuta l’operazione di
schematizzazione del reale che appare in ciò che già si conosce e nemmeno la
proiezione verso un futuro ipotizzato. Spesso sono proprio le tradizioni
religiose, quelle che abbiamo identificato con l’esperienza di Dio, a fornire
il maggior ostacolo alla percezione nel presente della realtà di Dio. Del
resto, tutto ciò non è una novità. Lo stesso Gesù ha incontrato nella religione
del Tempio l’ostacolo più duro per l’annuncio del Regno dei cieli. Famose sono
le sue parole nei confronti dei farisei che accusava di trascurare i
comandamenti di Dio per osservare le tradizioni degli uomini (cfr. Mc 7,8). Il
terzo elemento che ci può aiutare a cogliere la presenza del Signore nella
storia è la Parola di Dio, che va letta con la sete di verità nel cuore, con il
desiderio di trovare il cammino della gioia. Parola che esige di essere
ascoltata nel presente della vita, per fare in modo che penetri la realtà e la
illumini. Parola che diventa reale ogni volta che invochiamo lo Spirito Santo e
gli permettiamo di guidarci dove Lui vuole. È lo Spirito del Signore che dà la
vita e che ci fa sentire vivi, ci fa cercare la vita e, in questo modo,
abbandonare le nostre zone morte, spesso prodotte dalle tradizioni religiose,
che ci legano le mani e la mente e non ci permettono di prendere il volo e
seguire lo Spirito. Una Parola ascoltata in una comunità che desidera comprendere
la realtà e non studiarla; una comunità in cammino che desidera seguire la luce
che la Parola di Dio emana. In questo modo, è possibile uscire, camminare,
osservare attentamente la realtà, incuriosirsi su ciò che sembra strano, nuovo
e mettersi in ascolto della novità, per essere disponibili a cogliere il nuovo.
Il
cammino di fede è un dono che viene dall’incontro con il Signore, che non è
scontato: per questo è un dono. Il punto di partenza di questo incontro
misterioso è la ricerca di senso, che solitamente inizia nell’adolescenza e si sviluppa
nella giovinezza. È il giovane che cerca di dare un senso alla propria
esistenza, che cerca risposte a domane profonde sul senso della vita. Per una famiglia, una comunità cristiana il
problema pastorale dovrebbe essere posto nei seguenti termini: come possiamo
stimolare la domanda di senso nei giovani della comunità? Un’altra domanda
importante in questa prospettiva è la seguente: le nostre liturgie aiutano i
giovani a trovare risposte, o disturbano, allontanano? Il modo in cui celebriamo
l’eucarestia alla domenica facilita l’incontro con il Signore in coloro che vi
partecipano?
È
importante capire una cosa, vale a dire, che la cultura, il sistema culturale
che ha sorretto il cristianesimo per sedici lunghissimi secoli non c’è più, si
è sgretolato. Secondo il sociologo francese Guillaume Cuchet uno dei motivi
della fine della cristianità consiste nella fine della pratica obbligatoria[1]. La cristianità ha vissuto
gli ultimi sedici secoli interpretando la messa domenicale come un precetto
obbligatorio indispensabile per andare in paradiso. Per questo motivo, la
mancanza alla messa domenicale è stata considerata per secoli come un peccato
mortale. Dal Concilio Vaticano II in poi il discorso a questo proposito si è un
po' attenuato, nel senso che non è più considerato un peccato mortale, ma
grave. La percezione di questo dato, il polso della situazione di questo
sacramento, la verifico nel confessionale. Le persone dai cinquant’anni in su
confessano la mancanza al precetto domenicale, mentre le nuove generazioni,
quei pochi giovani che si accostano al sacramento della penitenza, non lo
confessano mai, perché per loro non andare a mesa alla domenica non solo non è
un peccato grave, non è proprio percepito come peccato. Si tratta di fare insieme
un percorso biblico, spirituale che ci aiuti a passare dalla mentalità obbligo,
dalla mentalità della costrizione e, di conseguenza, della coercizione, alla
necessità, al desiderio che si fonda sulla libertà della coscienza. Imparare ad
accompagnare le persone affinché scopriamo il valore della vita interiore e, di
conseguenza, il tesoro della propria coscienza: è questo il nostro grande
compito.
Parlando
con i ragazzi che bazzicano nei nostri paesini, quando chiedo loro che cosa ne
pensano della religione, della fede, del Vangelo, la risposta che mi viene data
è quasi sempre attraverso una domanda: a che cosa serve? Per chi vive la messa
come un precetto da obbedire la risposta unica che potrebbe dare sarebbe: la
messa serve per andare in paradiso. Durante questi quattro giorni di esercizi
spirituali rifletteremo su dei testi del nuovo testamento che offrono del
materiale che ci rende in grado di rispondere ai nostri ragazzi in un modo
diverso, più evangelico e, probabilmente, capace di rispondere ad alcune delle
loro esigenze.
Celebriamo
dei riti da secoli. Ne conosciamo il significato che ci è stato trasmesso. Ogni
tanto vale la pena fermarsi per capire l’origine di quel determinato rito, per
comprendere se corrisponde alle intenzioni di chi lo ha formulato. È questo il
caso dell’eucarestia, che la chiesa celebra da secoli. Rito che la chiesa ha
posto come obbligo settimanale per i fedeli, obbligo che se disobbedito, viene
valutato come peccato grave (mortale). Molte persone sopra i cinquanta/sessant’anni,
ancora oggi vivono la messa domenicale come un obbligo, un precetto da
compiere. Non solo, ma l’obbligo di confessarsi per ricevere il corpo di
Cristo, ha non solo allontanato molte persone dalla comunione eucaristica, ma
ha prodotto il ricorso alla confessione devozionale, svuotando il senso
profondo del sacramento della riconciliazione. Diventa allora, importante
tornare alle fonti, ai vangeli, alla lettura dei Padri della Chiesa, per capire
meglio il significato del rito che celebriamo.
Che
cosa ci dice la chiesa a riguardo dell’Eucarestia? Il Concilio Vaticano II
(1962-65) ha operato un vero e proprio ritorno alle fonti. Quando parliamo di
fonti ci riferiamo soprattutto a due filoni: il promo è la Sacra Scrittura, il
secondo i Padri della Chiesa. C’è un’epoca considerata d’oro per la Chiesa, è
l’epoca dei primi cinque secoli dell’era cristiana. Durante il secolo scorso
alcuni studiosi, soprattutto francesi, hanno ripreso in mano le grandi omelie
dei Padri della Chiesa, i loro discorsi, li hanno tradotti e divulgati. La
proposta del Concilio non è dunque una rottura con la Tradizione, come qualcuno
ancora oggi sostiene, ma un ritorno al passato. Il desiderio che animava i
padri conciliari, spinti dall’impulso degli studiosi ed esegeti, consisteva nel
riprendere il cammino dov’era stato interrotto, riagganciandosi al cammino
della Chiesa delle origini, portato avanti dal Magistero dei Padri della
Chiesa. Che cosa dice, allora, sul tema della liturgia il Concilio Vaticano II?
Andiamo a vedere qualche brano della Sacrosantum Concilium (SC), che è
il documento specifico elaborato dal Concilio sul tema della liturgia.
La
Liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme la fonte
da cui promana tutta la sua virtù (Sc, 10). Dicendo che la Liturgia è il culmine
significa che la Chiesa non ha nulla di più alto da offrire ai fedeli. Per
questo motivo va curata nei minimi dettagli, va preparata per fare in modo che
chi vi partecipa possa comprenderne l’altezza del valore, la profondità. Il
culmine sta nel mistero che celebra, vale a dire Gesù Cristo, la cui divinità
si è manifestata e continua a manifestarsi nella sua umanità. È questo che va
valorizzato nella comunità. Il travisamento del mistero eucaristico nell’epoca
medievale ha spostato il centro della vita liturgica dall’umanità di Gesù all’estetica,
dalla scelta di povertà di Gesù che da ricco che era si fece povero (2 Cor,
8,9), all’identificazione del sacro con la ricchezza. Il sacro viene ad un
certo punto rivestito di ori, di suppellettili pregiatissime e i sacerdoti, gli
unici che hanno accesso al sacro e che possono toccare il Santo dei santi,
rivestiti di vesti sgargianti, con pizzi e merletti. Siamo nel pieno di una
liturgia imperiale, che ha perso il contatto con i dati biblici e s’impone in
Occidente come religione dell’impero, presentando una sacralità identificata
con la ricchezza, simbolo eterno di potere. La Liturgia inoltre, è la fonte da
cui promana tutta la virtù della Chiesa. Ciò significa che è l’alimento della
vita di fede. Dove alimentiamo la nostra vita spirituale dice del nostro
cammino religioso. La fonte da cui attingere è la liturgia. L’eucarestia è
senza dubbio il culmine della liturgia e, di conseguenza è quella che alimenta
maggiormente la fede dei credenti. Sono liturgie anche le lodi, i vespri, le
veglie di preghiera. Le liturgie che celebriamo sono momenti comunitari che
coinvolgono il popolo di Dio. Non a caso, la stessa parola liturgia significa:
azione del popolo. Questa precisazione del Concilio aiuta anche a comprendere
che la preghiera personale è sempre orientata alla liturgia. Non esiste,
infatti, nella vita cristiana, una vita di preghiera che sia sganciata dalla liturgia.
Sottolineo questo aspetto perché percepisco he non è ben chiaro. La vita di
preghiera personale dovrebbe aiutare i fedeli a vivere più intensamente la
liturgia, nella quale si trova la fonte e il culmine della vita di fede.
Il
percorso degli esercizi spirituali che sto proponendo vorrebbero fornire degli
strumenti biblici e spirituali per permettervi di comprendere meglio il mistero
che celebriamo alla domenica, che il culmine e la fonte del nostro cammino di
fede.
[1] CUCHET, G. Comment
notre monde a cessé d’être chrétien. Anatomie d’un effondrement, Paris :
Seuil 2012.
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