venerdì 29 dicembre 2023

CHI AMA VEDE

 




Paolo Cugini

Chi dice di essere nella luce e odia suo fratello, è ancora nelle tenebre. Chi ama suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui occasione di inciampo. Ma chi odia suo fratello, è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi (1 Gv 2,10-11).

 Il Vangelo è tutto qua. Giovanni lo ripete spesso, anzi, sembra l’unica cosa davvero importante che valga la pena trasmettere. La grande novità di Gesù è la sua capacità di amare tutti, persino i nemici. L’umanità di Gesù è così trasparente che il Lui c’è solo amore, perdono, misericordia. Per questo la sua esistenza è come una tenda in cui tutti e tutte possono trovare riparo. È questa la luce che è venuto a portare. È come se ci dicesse che il senso dell’esistenza non è complicato da vivere, non richiede titoli, né posizione sociale. L’odio rivela una vita ancora segnata dall’istinto di sopravvivenza, che stimolo l’orgoglio e la conseguente chiusura in se stessi. Il Vangelo è un principio di vita nuovo che, una volta assimilato, ci fa essere nel modo in cui siamo stati pensati dall’inizio dei tempi, vale a dire, nati per amare. L’amore è l’essenza della nostra vita, dice di noi, di ciò che siamo, di quello che dobbiamo essere.

 Gesù nella sua vita ha espresso benissimo questo dato: era solo amore. Il cammino di fede ha come unico obiettivo questo: diventare capaci di amare come Lui ci ha amati. Per questo riceviamo il suo Spirito, che è capace di trasformarci in Lui, per essere e vivere come Lui. Ogni volta che abbiamo sentimenti negativi nei confronti di qualcuno è come se fosse un segnale che ci dice su che cosa dobbiamo lavorare. Non possiamo permettere all’odio, al rancore, al disprezzo dell’altro di germinare dentro di noi: ci distrugge. In questo senso Gesù è il nostro salvatore: ci salva da tutti i cammini di autodistruzione che mettiamo in atto quando viviamo conforme l’istinto di sopravvivenza.

Gesù viene al nostro in contro con la sua Parola, il suo esempio e agisce dentro di noi con il suo Spirito per trasformarci in Lui.

 

mercoledì 27 dicembre 2023

CIO' CHE LE NOSTRE MANI TOCCARONO

 



Figlioli miei, quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita - la vita infatti si manifestò, noi l'abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi -, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia piena (1 Gv 1, 1-4).

Sono parole sconvolgenti quelle dell’Apostolo Giovanni. Lui è totalmente convinto di aver toccato Dio, di averlo ascoltato con le sue orecchie, di averlo visto con i propri occhi. Sono affermazioni sconvolgenti, ma che rivelano un dato fondamentale: c’è qualcuno che ha toccato Dio, l’ha vito e udito, l’ha incontrato nella propria vita e gli ha potuto parlare come si parla con qualsiasi persona. Questo è il cuore della fede cristiana che passa attraverso un’esperienza sensibile. Giovanni ha creduto perché ha visto e il suo annuncio è basato sulla propria esperienza personale, anche perché, chi ha potuto fare un’esperienza simile, non riesce a restare con le mani in mano, ma sente l’esigenza impellente di condividere. Giovanni è convinto che quell’uomo chiamato Gesù Cristo, con il quale ha vissuto per tre anni, è il Verbo della Vita. Quella vita, quel senso della vita che ogni persona cerca continuamente è venuta al nostro incontro, si è data a conoscere in modo semplice e immediato al punto che ogni persona può accoglierla gratuitamente.

 Chi desidera vivere in modo degno, d’ora innanzi, non ha altra possibilità che accogliere il Verbo della Vita, Gesù Cristo, ascoltando e interiorizzando la sua Parola per viverla. Ed è proprio vivendo quello che Lui ha detto e fatto che sperimentiamo misteriosamente la sua presenza, perché, di fatto, Lui è vivo, è qui in mezzo a noi e in noi. La vita, infatti, quella vera, quella che si è manifestata e fatta visibile in Gesù non muore mai. Questa dinamica della fede in Gesù che passa attraverso l’esperienza sensibile di Lui, quell’esperienza che ha vissuto Giovanni, dovrebbe riprodursi anche oggi. Infatti, nessuno crede in ciò che non vede. Nessuno imposta tutta una vita su una storia passata.

Ci dev’essere qualcosa di forte, di sensibile, che coinvolge tutta la persona in un’esperienza unica, come può essere l’incontro con una persona che comunica una forza vitale incredibile.

 

martedì 26 dicembre 2023

CHI PERSEVERERA' SINO ALLA FINE?

 



Paolo Cugini

 

Mt 10,17-22- La prospettiva che Gesù presenta per i suoi apostoli in questo passaggio del Vangelo è drammatica. Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe, e sarete condotti davanti a governatori e re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. C’è un clima di persecuzione e violenza che caratterizza la vita di tutti coloro che decidono di seguire le orme del Maestro. Persecuzione che non avviene solamente all’esterno, nella società civile, ma anche tra le mura della propria casa: Il fratello farà morire il fratello e il padre il figlio, e i figli si alzeranno ad accusare i genitori e li uccideranno. Situazione drammatica, dunque, che può provocare la desistenza in coloro che intraprendono il Cammino.

Verso la fine del discorso Gesù aumenta la dose: sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Che cosa fare dinanzi a questa prospettiva drammatica? Non è un caso se spesso le comunità riducono la loro attività al servizio interno, fatto di liturgie, culto e catechesi. Il testo ascoltato ci rivela che, quando una comunità cerca di vivere quello che ha accolto ed ascoltato, vale a dire il Verbo della vita, provoca una tensione fortissima con il mondo circostante. Abitare la tensione senza farsi travolgere dal male è la grande sfida della vita spirituale ispirata dal Vangelo. Il dato che emerge è che l’annuncio della Parola di Gesù passa necessariamente attraverso questa tensione. È questa una verità che non è facile da digerire. Gesù conclude il discorso di oggi con una prospettiva positiva, anche sofferta: chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvo.

La salvezza proposta da Gesù passa attraverso la resistenza al male che il mondo realizza su coloro che vivono il Vangelo e si affidano solamente al Signore. Del resto, se riflettiamo attentamente in questi giorni in cui la Chiesa ci propone gli eventi che hanno segnato la nascita di Gesù, è proprio questa tensione che Lui ha vissuto, sin dalla nascita. Non ci resta che invocare il suo Spirito e farci coraggio.

 

sabato 23 dicembre 2023

NATALE: C'E' SPERANZA NEL MONDO

 




VIGILIA DI NATALE 2023

Is 62, 1-5; Sal 89; At 13, 16-25; Mt 1, 1-25

 

Paolo Cugini

Per amore di Sion non tacerò, per amore di Gerusalemme non mi concederò riposo, finché non sorga come aurora la sua giustizia e la sua salvezza non risplenda come lampada. Allora le genti vedranno la tua giustizia (Is 62, 1.2). È un desiderio di giustizia che viene espresso dai versetti di Isaia che abbiamo ascoltato in questa notte santa. Le prime parole del Natale che la presenza di Gesù manifesta nel mondo è proprio questa: una grandissima voglia di giustizia, che rivela la pesantezza di una vita segnata dall’ingiustizia degli uomini. Ingiustizia che si manifesta nelle tante situazioni di povertà e miseria umana, frutto di prevaricazioni, di scelte arroganti e interessate sulle spalle dei poveri, considerati come moneta di scambio. È una storia che già i profeti raccontavano, ma che è ancora all’ordine del giorno. C’è un’umanità che sembra incapace di uscire dalle strette maglie dell’ingiustizia, che si manifesta a tutti i livelli del tessuto sociale. Troviamo, infatti, situazioni di ingiustizia nella vita politica, economica, ma anche nelle relazioni quotidiane nelle quali siamo coinvolti. La domanda, a questo punto, è più che lecita: c’è un cammino che ci può liberare dall’ingiustizia? C’è possibilità di giustizia nel mondo

Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo (Mt 1,1).

Che tipo di riflessione fare dinnanzi alla narrazione della genealogia di Gesù narrata dal Vangelo di Matteo? La prima considerazione è che non si è voluto abbellire la storia degli antenati di Gesù, cioè non c’è stato il tentativo di modificare i dati, scegliere i migliori. La ricostruzione fatta da Matteo presenta uno spaccato dell’umanità così com’è, senza abbellimenti o scelte per mettere in luce solo gli aspetti positivi dei suoi antenati. E così, assieme ad Abramo, Isacco e Giacobbe, troviamo Salomone che, ad un certo punto del cammino, perde la testa a causa delle molte donne che aveva nell’arem, al punto da introdurre gli idoli delle donne straniere tra i culti di Israele. E poi Geroboamo, suo figlio, causa della divisione dei due regni d’Israele. Tra i primi della lista genealogica c’è Giuda, un personaggio ambiguo che ha un caso a sua insaputa con la nuora Tamar. Insaputa perché Tamar si traveste da prostituta per ingannare il suocero, che dimostra di non essere un tipo troppo fedele. Continuando la storia troviamo Raab, definita prostituta dal testo biblico, ed è colei che accoglie gli uomini di Israele in perlustrazione della terra di Canaan e che al ritorno erano inseguiti da uomini del territorio. Raab offre protezione a loro in cambio della libertà. Proprio Raab, sposa di Salmon, diverrà parte della dinastia davidica perché madre di Booz, che sposerà la moabita straniera Rut, che darà al mondo Jesse, padre di Davide, il quale era tutto fuorché uno stinco di santo. Tra i vari personaggi che incontriamo nell’albero genealogico di Gesù c’è Acaz, che potremmo definire il simbolo della mancanza di fede, perché, sollecitato dal profeta Isaia, si rifiuta di chiedere un segno della presenza di Dio in mezzo al popolo, manifestando una chiusura estrema in se stesso e nelle proprie paure. Troviamo, poi, Manasse che ne fece di tutti i colori: praticò la magia, la divinazione, considerate in modo fortemente negativo da JHWH, oltre ad avere costruito altari nella terra di Israele a varie divinità. Ad equilibrare la situazione ci pensa suo nipote Giosia, autore di una profonda riforma religiosa, che tuttavia, non servirà a modificare le sorti di Israele, ormai destinato all’esilio in Babilonia. Ce n’è, dunque, di tutti i colori, come di fatto sono i tratti della variegata diversità dell’umanità.

Ebbene, questo testo ci vuole dire che Gesù non ha fatto una scelta venendo al mondo, non ha scartato quel pezzo di umanità che ha disobbedito ai comandamenti di Dio. Non ha scelto la parte dei bravi, di quelli che compiono il dovere e obbediscono alla Legge. Gesù ha assunto la nostra carne, la nostra umanità nella sua totalità: si è rivestito della nostra umanità, così com’è, senza trucchi, senza ipocrisie. Gesù è divenuto uno di noi e ha condotto un’esistenza umana rivestito, se così si può dire, della nostra carne e, con questa carne, ha vissuto ina vita amando senza riserve, donando se stesso gratuitamente, amando i suoi che erano nel mondo sino alla fine. Per questo è motivo di grande speranza per tutti noi. Questa notte è come se ci dicesse: “carissime amiche e carissimi amici, vedete che è possibile vivere in modo autentico! Ce l’ho fatta io, ce la può fare ciascuno di voi”.

 È possibile vivere in modo autentico come ha fatto Gesù, proprio perché Lui lo ha fatto con un’umanità come la nostra e, in questo modo, ha trasformato ciò che ha assunto. Proprio perché Gesù ha portato una carne come la nostra alla massima possibilità di amore, diviene motivo di speranza per tutte e tutti. C’è speranza nel mondo: è questo che ci viene detto nella notte di Natale. C’è speranza nel mondo perché Gesù rivela che la nostra umanità, la nostra carne è fatta per amare, è capace di amare in modo gratuito e disinteressato, è in fin dei conti un’umanità capace di giustizia. Infatti, nei gesti e nelle scelte di Gesù c’è la realizzazione del sogno di giustizia dei profeti, che abbiamo ascoltato nella prima lettura. Gesù è venuto al mondo per dirci che ce la possiamo fare e che nessuno può nascondersi dietro alle proprie meschinità: è questo il grande grido del Natale. 

lunedì 18 dicembre 2023

IL SOGNO DI GIUSEPPE

 







Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa (Mt 1,24). Fare la Tua volontà, Signore, coglierla nelle situazioni della vita. Come ha fatto Giuseppe ad accettare una situazione così sconvolgente? Il dato impressionante che ci comunica la narrazione del Vangelo è che si è fidato di un sogno. Questo è il dato pazzesco: il senso di tutta una vita affidata ad un sogno. Questa è la fede dei poveri, degli anawim, di coloro che non hanno nulla e si affidano ciecamente al Signore. Agli anawim basta poco, appunto, un sogno. Per riconoscere la voce del Mistero, la sua presenza dentro la storia, ci vuole un cuore umile e povero: è questo che ci insegna la storia di Giuseppe. Su di un sogno Giuseppe intesse tutta una vita.

C’è una situazione materiale che può agevolare la possibilità di percepire il mistero. Senza dubbio, l’autosufficienza rende difficile questo tipo di percezione, perché è quel tipo di situazione esistenziale che non provoca nella persona il desiderio di qualcosa d’altro. Chi pensa di avere già tutto non si mette alla ricerca di qualcosa he crede di avere. È il povero che si mette alla ricerca di qualcosa di materiale e, in questo modo, è pronto a cogliere una presenza misteriosa.

Forse è questo uno dei significati più profondi del Natale, l’indicazione per cogliere il Mistero e cioè, la presenza del Mistero nei dati materiali della vita. Per farlo occorre che il desiderio di vederlo sia attivato. La povertà materiale è una delle condizioni che attivano questo desiderio. Probabilmente non è l’unica, ma è già un’indicazione.

sabato 9 dicembre 2023

CAMMINARE NEL DESERTO DELLA VITA

 



II AVVENTO/B 2023

Is 40,1-5.9-11; Sal 84; 2 Pt 3,8-14; Mc 1,1-8

 

Paolo Cugini

 

 

La spiritualità del tempo di avvento va cercata nella Parola che la chiesa proclama in questo tempo, per non correre il rischio di cadere in qualche deriva devozionale, che scalda il cuore, ma non dice nulla e ti lascia con l’anima vuota. Nel brano di Isaia che ascoltiamo oggi proprio all’inizio c’è un verbo all’imperativo al quale occorre prestare attenzione. Isaia, infatti, dice: “Consolate”. Il contesto del brano è l’annuncio del ritorno del popolo d’Israele dall’esilio di Babilonia, che costituisce una grande consolazione per tutto un popolo che ormai stava perdendo la speranza di un ritorno in patria. La Consolazione arriva quando il popolo non se l’aspettava, perché la profezia di Geremia parlava di un esilio di settant’anni, mentre l’annuncio del ritorno arriva vent’anni prima. È un annuncio, dunque, di grande consolazione, che manifesta l’attenzione misericordiosa di Dio per le sorti del suo popolo. Al grido di consolazione Isaia aggiunge alcune indicazioni fondamentali per fare in modo che il ritorno si effettui davvero.

Una voce grida: «Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata (Is 40, 3). Ci sono delle indicazioni concrete, che hanno un valore simbolico. Si tratta di preparare la strada per il ritorno, una strada che passa per il deserto. La mente va subito all’esperienza dei quarant’anni di attraversata del deserto quando il popolo uscii dall’Egitto per andare nella terra promessa. C’è sempre un esodo che periodicamente dobbiamo compiere per rimetterci in cammino. Egitto e Babilonia sono due città simboliche, che indicano la terra straniera, che dal punto di vista spirituale ed esistenziale indicano la situazione dell’uomo e della donna lontani da Dio, dalla ricerca del senso autentico della vita. C’è un lavoro che dev’essere compiuto se si vuole smettere di essere schiavi di se stessi, dei propri desideri e bisogni naturali, per compiere un cammino di liberazione. In questa strada nel deserto non ci devono essere ostacoli e, quelli che ci sono vanno tolti. Ecco la prima grande indicazione spirituale nella seconda domenica di avvento. La domanda sottesa, che poi il Vangelo riprenderà, è questa: quali sono gli ostacoli che stanno condizionando la nostra vita spirituale? Quali valli dobbiamo riempire per rendere il cammino tranquillo? Quali montagne dobbiamo eliminare dalla nostra vita per fare in modo di giungere alla meta?

Allora si rivelerà la gloria del Signore e tutti gli uomini insieme la vedranno, perché la bocca del Signore ha parlato (Is 40, 5). Il frutto di questo lavoro sarà la possibilità di vedere la gloria del Signore, cioè di percepire la sua presenza. Questo aspetto è fondamentale, perché la nostra fede si attiva dal momento in cui vediamo la gloria di Dio, i segni della sua presenza nella nostra vita. Gloria del Signore è un’espressione che, nell’Antico Testamento, indica la manifestazione della presenza del Signore. Isaia parla di questa Gloria nella visione che lui stesso ha all’inizio della sua vocazione narrata al capitolo 6. Sempre di gloria che il popolo ha visto e per questo, ha creduto, si parla nella narrazione del passaggio nel Mar Rosso (Es 14-15). San Paolo ci ricorda che saremo trasformati di gloria in gloria dall’azione dello Spirito Santo (2 Cor 3,18). È la presenza del Mistero che cambia le nostre vite. Dobbiamo incontrarlo per poter credere in Lui. Il Natale, al quale ci stiamo preparando, è la manifestazione di questo Mistero nella persona di Gesù, che è ancora in mezzo a noi.

Alza la voce, non temere; annuncia alle città di Giuda:
«Ecco il vostro Dio!
Ecco, il Signore Dio viene con potenza, il suo braccio esercita il dominio.
Ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede.
Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna
(Is 40, 9-10).

Se è vero che questo cammino dobbiamo compierlo noi e che dobbiamo mettere in atto un profondo percorso spirituale di cambiamento, è altrettanto vero però, e ce lo ricorda Isaia, che in questo cammino non siamo soli. Isaia ci presenta un Dio che è come un pastore che accompagna le sue pecore, “porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri”. Come non fidarsi di un Dio così? Come non intenerirsi dinanzi a queste parole di consolazione? Sono immagini che cercano di stimolare il popolo di Dio a prendere sul serio la propria vita, a non perdere tempo in cose di poco valore, a guardare avanti per vedere la gloria di Dio che sta venendo al nostro incontro con il suo Figlio Gesù. Ce lo ricorda anche Pietro nella seconda lettura di oggi, quando afferma: davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno (2 Pt 3,8). Coraggio, allora, non perdiamo tempo e mettiamoci in cammino.

Noi, infatti, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia. Perciò, carissimi, nell'attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia (2 Pt 3,14). Pietro, nella seconda lettura ascoltata, fa eco alle parole di Isaia e ci ricorda il senso del nostro vivere, del nostro cammino di fede, che consiste nel fare spazio alla nuova realtà che Il Mistero di Dio ha già realizzato con la venuta di Gesù, vale a dire, un mondo in cui abita la giustizia. Questo mondo nuovo, non è fuori di noi, ma dentro di noi. È di questo che Gesù parlava nelle sue parabole quando annunciava il Regno di Dio, che è in mezzo a noi, in noi, Cerchiamo, allora, di fare di tutto perché tutto ciò si realizzi e il primo segno di questo, secondo san Pietro è la pace. 

martedì 5 dicembre 2023

IL LUPO E L'AGNELLO

 



Paolo Cugini

 

Si compiacerà del timore del Signore.
Non giudicherà secondo le apparenze
e non prenderà decisioni per sentito dire;
ma giudicherà con giustizia i miseri
e prenderà decisioni eque per gli umili della terra
(Is 11,3s).

C’è un primo aspetto che viene sottolineato del modo di agire del futuro messia ed il suo senso di giustizia. Non giudicherà secondo le apparenze, il suo giudizio non si baserà su ciò che vede all’esterno, ma cercherà l’interno, l’intenzione del cuore. Non prenderà, dunque, decisioni avventate, dettate dall’immediatezza, ma ogni sua decisione sarà ben ponderata, frutto di un’attenta analisi. Proprio per questo non prenderà decisioni per sentito dire, non di fiderà delle opinioni comuni, di quello che si dice, ma lui stesso s’informerà e andrà direttamente alle fonti delle notizie per rendere il suo giudizio veritiero. Il suo giudizio, infatti, avrà due qualità specifiche: la giustizia e l’equità. Entrambe queste qualità saranno visibili nei giudizi nei confronti dei miseri e degli umili della terra, vale a dire i poveri. Questo è un aspetto importante sul quale vale la pena riflettere. Già al tempo di Isaia si percepiva la necessità di un giudizio equo nei confronti dei poveri, perché già a quel tempo i poveri erano vittime inermi delle ingiustizie dei potenti di turno, dei ricchi, che calpestano i diretti dei poveri, proprio perché non hanno i mezzi per fasi rispettare.

Ebbene, la prima funzione del futuro messia sarà proprio quella di esercitare una giustizia equa nei confronti di coloro che nella terra sono stati sfruttati a causa della loro condizione di povertà. Sappiamo molto bene che Gesù realizzerà in pieno questa profezia al punto da farsi lui stesso povero con i poveri, umile con gli umiliati della terra, per sentire sulla sua pelle il peso dell’umiliazione e, in questo modo, saper esprimere un giudizio veramente equo e non basato sul sentito dire e sull’immediatezza apparente (cfr. Fil 2,5-11).

Il lupo dimorerà insieme con l'agnello;
il leopardo si sdraierà accanto al capretto;
il vitello e il leoncello pascoleranno insieme
e un piccolo fanciullo li guiderà.
La mucca e l'orsa pascoleranno insieme;
i loro piccoli si sdraieranno insieme.
Il leone si ciberà di paglia, come il bue.
Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera;
il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso
(Is 11).

Il frutto della giustizia del futuro messia sarà l’armonia tra le differenze che poteranno alla pace. Le otto coppie di opposti che convivono pacificamente sono il segno dell’avvento del Messia. Nella sua umanità le tensioni vengono stemprate, anzi trovano un significato. Nell’amore portato e vissuto dal Signore, le differenze non sono più motivo di litigio, ma si armonizzano nella comunione, quella di Isaia è una bellissima immagine poetica che indica il cammino che la comunità cristiana è chiamata a realizzare: essere segno nel mondo della presenza del Messia creando uno spazio umano in cui i poli opposti si armonizzano. Ciò è possibile solamente accogliendo lo Spirito del Signore, ascoltando la sua Parola e camminando nella direzione che essa indica.

Comunità cristiane come spazio umano in cui le tensioni si stemperano, e tutti convivono in armonia: è il sogno di Dio, che si è già realizzato nell’umanità di Gesù e che lo Spirito Santo tenta di riprodurre nell’umanità delle comunità cristiane.

 

lunedì 4 dicembre 2023

ALLA FINE DEI GIORNI

 



Alla fine dei giorni,
il monte del tempio del Signore
sarà saldo sulla cima dei monti
e s’innalzerà̀ sopra i colli
e ad esso affluiranno tutte le genti.
Verranno molti popoli e diranno:
«Venite, saliamo sul monte del Signore,
al tempio del Dio di Giacobbe,
perché́ ci insegni le sue vie
e possiamo camminare per i suoi sentieri»
(Is 2,1-2).

Spiritualità del tempo di avvento segnata dai brani di Isaia. Prospettiva universalista del cammino. Si passa dall’idea di elezione del popolo d’Israele ad una visione in cui tutti i popoli si sentono attratti dalla Parola del Signore. Invito ad uscire da una mentalità divisiva per un cammino verso una visione d’insieme, un modo di pensare la realtà in modo aperto. La prospettiva universalista porta con sé come conseguenza l’atteggiamento inclusivo. Camminare per i sentieri del Signore significa aprire le porte a tutti e a tutte, creare comunità in cui tutti e tutte si sentano a loro agio. Chi è che nella visione di Isaia, provoca il movimento di tutti i popoli verso Gerusalemme? Poiché da Sion uscirà̀ la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. È la Parola di Dio che provoca questo movimento di uscita dai propri individualismi per un cammino di comunione che sappia rispettare le diversità e le rivalità.

Del resto, è proprio questo che desiderava Gesù. Sono vari i brani del Vangelo che riprendono il sogno del profeta Isaia e lo attualizzano. Tra i vari, si può citare questo: Ora io vi dico che molti verranno dall’oriente e dall’occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli (Mt 8,11). Gesù sa molto bene che l’effetto della sua Parola e della sua proposta avrebbe provocato la rottura dei muri, degli steccati e un cammino di comunione tra tutti i popoli. In questo cammino, affinché si realizzi pienamente, è necessario un altro passaggio fondamentale espresso dal profeta nel proseguo del testo citato.

Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri,
delle loro lance faranno falci;
una nazione non alzerà più la spada
contro un’altra nazione,
non impareranno più l’arte della guerra.

Che cosa accade a coloro che, attratti dalla Parola del Signore, camminano verso Gerusalemme? Sentono il desiderio di pace. L’immagine riportata dal profeta descrive la trasformazione che avviene nei popoli che seguono la Parola di Dio. C’è un processo di trasformazione in atto, processo di cambiamento che trasforma gli strumenti di guerra – spade e lance – in strumenti per coltivare la terra. Chi assimila interiorizza il Vangelo respira pace e non sente più il bisogno di difendersi, perché impara a percepire l’altro come fratello e sorella. È il sogno di Dio che è divenuto realtà in Gesù. Ogni comunità cristiana che si alimenta del Signore, che fa spazio al Lui diventa un pezzo di umanità che si lascia trasformare dallo Spirito del Signore.

 

sabato 2 dicembre 2023

C'è speranza nel mondo

 



I DOMENICA AVVENTO B

Is 63,16b-17.19b; 64,2-7; Sal 79; 1 Cor 1,3-9; Mc 13,33-37

 

Paolo Cugini

 

Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie
e lasci indurire il nostro cuore, cosi che non ti tema?
Ritorna per amore dei tuoi servi,
per amore delle tribù, tua eredità.
Se tu squarciassi i cieli e scendessi!
(Is 63, 17).

 

In questo versetto del profeta Isaia è racchiuso il significato dell’Avvento. Il punto di partenza è la percezione esistenziale di un vuoto, un non senso che caratterizza la vita presente. Se ci guardiamo bene intorno sembra proprio che Isaia abbia ragione. Guerre da ogni parte del pianeta, che esprimono l’incapacità umana di convivere in modo pacifico e, allo stesso tempo, il volere di imporre con arroganza la propria forza sugli altri. Per no parlare poi dei femminicidi che sconvolgono la vita di tante donne, di tante famiglie, dinanzi ai quali rimaniamo esterrefatti, senza parole. Vaghiamo sulle strade della vita circondati da fenomeni che ci sconvolgono, perché ci trovano impreparati. In realtà, proprio questi eventi rivelano qualcosa di noi, della nostra cultura, del nostro modo di essere e di relazionarci con gli altri. Le tragiche situazioni che stanno affollando la nostra vita quotidiana riguardano le relazioni interpersonali e indicano, allo stesso tempo, il cammino che dobbiamo compiere. Le guerre rivelano l’incapacità di convivere con il diverso e, allo stesso tempo, la riduzione semplicistica della soluzione dei problemi al mero uso della forza. I femminicidi rivelano tantissime cose della nostra cultura, di come siamo fatti, dell’immaturità umana di tanti uomini incapaci di gestire i propri sentimenti e, soprattutto, le proprie frustrazioni.

La percezione che stiamo camminando su strade che non sembrano avere una meta, parafrasando Isaia, non deve provocare un sentimento di scoraggiamento, ma una riflessione personale e comunitaria. La domanda potrebbe essere questa: siamo condannati a vivere in questo modo conflittuale, in un mondo che non riesce a qualificare le proprie relazioni? Le letture che ascoltiamo in questa prima domenica di Avvento ci mostrano un cammino, e un atteggiamento. Il cristiano e la comunità cristiana sono invitati alla speranza, non perché ci sarà una soluzione dopo la morte, ma perché c’è un principio di vita nuova già inserito dentro la storia da Gesù Cristo. È a questa novità che siamo invitati a guardare. È a questo tipo di speranza che siamo orientati a guardare. C’è speranza nel mondo e c’è speranza per noi, perché Gesù ha inaugurato un modo nuovo di vivere. È Lui, infatti, che ha fatto dei popoli in conflitto un cammino di pace, non usando la forza, ma attirando l’odio su di sé. Gesù ci ha insegnato a vivere i conflitti non aumentando le tensioni, ma riducendole al minimo con l’amore, la dolcezza, l’ascolto. Gesù ci ha insegnato che è possibile uscire dalla cultura patriarcale e dalle sue nefaste influenze, non con discorsi, ma con nuovi atteggiamenti che riproducono nella storia l’uguaglianza di donne e uomini voluta da Dio.

C’è speranza per tutti e tutte perché l’amore di Dio manifestato dal Figlio Gesù è stato riversato nei nostri cuori e continua ad essere riversato grazie allo Spirito Santo. Accogliamo, allora, lo Spirito di Cristo per vivere di Lui e come Lui. 

martedì 21 novembre 2023

OMELIA DOMENICA 26 NOVEMBRE 2023

 







XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

SOLENNITÀ NOSTRO SIGNORE GESÚ CRISTO RE DELL'UNIVERSO

Ez 34,11-12.15-17; Sal 22; 1 Cor 15,20-26a.28; Mt 25,31-46

 

Paolo Cugini

 

 Il brano di Vangelo che la liturgia ci propone oggi nella solennità di Cristo re dell’universo nell’anno liturgico A, è l’ultimo discorso di Gesù che si trova nel Vangelo di Matteo prima della narrazione della sua passione e morte. Si tratta, dunque, di un testo importane, che non a caso ci viene proposto oggi a conclusione dell’anno liturgico, per aiutarci non solo a verificare il cammino realizzato durante l’anno sia personalmente, che nella comunità, ma anche a capire che tipo di Dio abbiamo servito. Le parole di Gesù ci aiutano a riflettere anche, su che tipo di persone siamo diventate, che umanità esprimono le nostre scelte, i nostri pensieri. Ascoltiamo, dunque, per vivere come Lui ci dice.

Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.

La scena iniziale della bellissima parabola di oggi, riprende più o meno consapevolmente, una scena della parabola della zizzania ascoltata qualche mese fa. Infatti, mentre in quest’ultima Gesù raccomandava i discepoli di non togliere la zizzania dal campo di grano, per non correre il pericolo di strappare il frumento, nel caso della narrazione di oggi, che narra simbolicamente il giudizio finale, il primo atto è proprio una separazione. È interessante la coerenza interna dei vangeli, che si richiamano continuamente e ci aiutano ad approfondire il significato delle parole e delle narrazioni. Nel Vangelo di Giovanni leggiamo che il Padre ha lasciato a Gesù il compito di giudicare: Il Padre infatti non giudica nessuno, ma ha dato ogni giudizio al Figlio (Gv 5,22). Ciò significa che il tempo presente è il tempo in cui dobbiamo fare di tutto per farci conoscere dal Figlio, per fare in modo che, nell’ultimo giorno, non ci dica, come alle cinque vergini stolte di due domenica fa: non vi conosco o, peggio ancora, al servo della parabola di domenica scorsa che, invece di far fruttificare il talento ricevuto lo ha nascosto, sentirsi dire: servo inutile. Il problema, allora, a questo punto consiste nel capire dove incontrare Gesù per conoscerlo e farci conoscere da Lui.

perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi".

È molto interessante questo passaggio del Vangelo. Ci insegna, infatti, che alla fine dei giorni saremo verificati non sulla relazione puramente religiosa con Dio, che realizziamo nei sacrifici, nei riti, nelle celebrazioni, ma nella relazione con i nostri fratelli e sorelle e, in modo particolare, i più poveri, gli esclusi. La grande rivelazione del brano di oggi sta nel fatto che Gesù s’identifica con gli affamati, gli assetati, gli stranieri, in altre parole, con gli invisibili e gli esclusi di questo mondo. Per il cristiano che riceve lo Spirito del Signore e si alimenta di Lui nell’eucaristia, il rito è in funzione dell’incontro del Signore nei poveri. Come diceva sant’Agostino commentando il Vangelo di Giovanni, il Vangelo è come un collirio che ci aiuta a vedere Gesù dove umanamente non riusciremmo a vederlo e a riconoscerlo: nei poveri. Per i cristiani l’attenzione ai poveri non è, dunque, un fatto sociale, ma molto di più: è un dato sacramentale. È nell’attenzione ai poveri, agli esclusi, agli invisibili del mondo, che manifestiamo il nostro desiderio di collaborare al progetto del Signore, che è un progetto di uguaglianza e non accetta che ci sia qualche figlio e figlia di Dio che venga umiliato nella sua dignità e somiglianza al Padre.

Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: "Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno. Il versetto richiama Genesi, la maledizione su Caino (cfr. Gen 4,11). La maledizione è la scelta di tutti coloro che non riconoscono nei poveri il volto del Signore, e li umiliano, li escludono, li disprezzano. Tutti coloro che passano la vita accumulando beni e denaro, stanno attirando la maledizione su di sé, perché diventano collaboratori non del progetto di uguaglianza di Dio, ma del progetto di iniquità che rende il mondo disuguale, costringendo miliardi di persone a vivere senza dignità, in condizioni infami. La maledizione di chi disprezza i poveri rivela lo sguardo di Dio su di noi, sulle nostre comunità cristiane, che a volte si perdono dietro gli orpelli liturgici, perdendo di vista l’essenziale. Ascoltare come andrà finire la nostra storia e su cosa saremo valutati, ci aiuta a centrare meglio il nostro cammino di fede personale e comunitario e a lavorare sull’essenziale.

Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all'ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia (Ez 34,16). Bellissima questa immagine del profeta Ezechiele ascoltato nella prima lettura. Bella perché ci dice che, in questo cammino di vita nuova e di riconoscimento del volto del Signore nei poveri, non siamo soli: Lui stesso viene al nostro incontro. Crediamo in un Dio che ci viene a cercare e lo fa con i poveri della terra, con i volti che incontriamo nei crocicchi delle strade, con i tanti stranieri di tante nazioni che vediamo ogni giorno. Lo fa anche con le persone omosessuali, le lesbiche, i transessuali, che tanto disprezzo ricevano dai benpensanti, che si sentono con la coscienza a posto per il fatto che hanno rispettato il precetto della mesa dominicale. Lo fa con le tante donne maltrattate, abusate, fisicamente e moralmente, che rivelano lo squallore di un mondo maschilista deformato dalla cultura patriarcale. Vieni Signore al nostro incontro a salvarci dalla nostra disumanità. Amen.

 

giovedì 16 novembre 2023

ADESSO

 



Paolo Cugini

 

In quel tempo i farisei domandarono a Gesù: «Quando verrà il regno di Dio?». Egli rispose loro: «Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: “Eccolo qui”, oppure: “Eccolo là”. Perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi!» (Lc 17, 20s). Gesù pone l’attenzione sul presente. Tutte le religioni hanno una proposta dopo la morte, che sposta l’attenzione sul futuro, creando proiezioni, che spesso si riducono ad illusioni. Il discorso di Gesù è molto diverso, perché cerca di condurre gli ascoltatori a porre attenzione al presente. È come se dicesse che è adesso che dobbiamo cogliere l’eternità, i segni di un mondo diverso. “Il Regno di dio è in mezzo a voi” significa proprio questo: scoprire nel presente della nostra storia la presenza di ciò che rimane per sempre.

Non c’è bisogno di cercare nel futuro, ma è nel presente della nostra vita che vanno concentrate le nostre forze spirituali. Troviamo lo stesso tempo, anche se con sfumature diverse, nella preghiera sacerdotale riportata da Giovanni nel capitolo 17, quando Gesù afferma: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo (Gv 17,3). Il cristiano è la persona concentrata nel presente, che accoglie lo Spirito del Signore e agisce dentro la storia con criteri e modalità nuovi. Anche nel dialogo con Zaccheo, Gesù afferma: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa” (Lc 17,9).

Concentrati nel tempo presente, nell’oggi della vita, perché è nel presente che possiamo sentire la presenza del verbo incarnato e, in questo modo, camminare con Lui per la realizzazione di un mondo nuovo, adesso.

 

lunedì 13 novembre 2023

OMELIA DOMENICA 19 NOVEMBRE 2023

 



XXXIII DOMENICA TEMPO COMUNE

Pr 31,10-13.19-20.30-31; Sal 127; 1 Ts 5,1-6; Mt 25,14-30

 

Paolo Cugini

 

È il tempo liturgico la chiave d’interpretazione delle letture che ascoltiamo alla domenica. Per comprendere, allora, il Vangelo di oggi, dobbiamo ricordarci che stiamo vivendo le ultime domeniche del tempo liturgico e ciò significa tempo di verifica del cammino percorso. Lo abbiamo già ricordato domenica scorsa, ma vale la pena ripeterlo. Ascolteremo, dunque, le letture con l’intuito che ci viene suggerito un materiale spirituale ed esistenziale con il quale verificare le scelte fatte durante l’anno, ponderare bene le nostre azioni, per fare in modo che il nuovo anno liturgico, che si avvicina, possa essere per noi la possibilità di vivere al meglio il Vangelo, di camminare con più armonia dentro la comunità. Vediamo, allora, che cosa ci dice il Vangelo.

«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. C’è un primo dato iniziale su cui la parabola vuole farci ragionare e riflettere. Nel viaggio della vita nessuno è partito a mani vuote: ci è stato donato qualcosa, che ci dovrebbe servire durante il cammino. Di che cosa si tratta lo vedremo in seguito, ma questo è un dato importante, perché la verifica di fine anno dovremmo farla esattamente su questo materiale ricevuto gratuitamente. Il testo ci dice che il padrone condivide i suoi beni. Ciò significa che l’atteggiamento del padrone è quella della condivisione gratuita e disinteressata, che desidera comunicare vita e che questa vita possa essere strumento di creatività per tutti e tutte. I talenti vengono distribuite secondo le capacità di ciascuno. Ciò significa che il padrone conosce bene i suoi collaboratori. Il Dio che Gesù ha manifestato ci avvolge nel suo amore di Padre e ci rivela la nostra vera identità, che dà dignità al nostro essere nel mondo: siamo figli e figlie di un Padre che ci ama e ci conosce, questo è il nostro punto di partenza e il nostro più grande talento.

Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: "Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque". "Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone". È impressionante l’atteggiamento del padrone, che è molto rivelativo, nel senso che dice qualcosa di nuovo e davvero strabiliante sul Dio che Gesù ha manifestato e che è agli antipodi da quello presentato dai capi religiosi di Israele. Infatti, il padrone non chiede indietro i talenti dati e nemmeno i frutti, ma addirittura trasforma il suddito in signore e condivide con lui i suoi beni. Questo avviene con i due servi che fanno fruttare i talenti. Se volgiamo trarre un primo insegnamento che serve per la nostra verifica, potremmo dire che il Vangelo vissuto nella nostra vita quotidiana, lo Spirito Santo lasciato agire nella nostra umanità, dovrebbe produrre già ora la sensazione di abitare in una nuova dimensione spirituale segnata dal desiderio di giustizia, dallo sforzo di realizzare un mondi di pace, da un cuore ripieno di misericordia.

"Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Le parole di colui che non ha fatto fruttare il talento ricevuto, ma lo ha nascosto, rivelano il tipo di Dio divulgato dai capi religiosi e che non corrisponde per nulla al Dio rivelato da Gesù e manifestato nel contenuto della parabola. Dio non è duro e non è vero che miete dove non si è seminato ma, al contrario, è prodigo di benefici con i suoi figli e figlie al punto di farli collaboratori del suo Regno. Anche questo aspetto è molto importante da verificare alla fine dell’anno liturgico. Ci dobbiamo chiedere: in che Dio crediamo? Che Dio stiamo servendo? Abbiamo permesso al Vangelo di sgretolare la falsa immagine di Dio impiantata in noi da un’educazione religiosa ancorata più sul Vecchio Testamento che sul Nuovo? Siamo nel centro della parabola, che ci invita a riflettere sulle modalità messe in atto quest’anno nei confronti di ciò che Dio ci dono gratuitamente ogni giorno. Se Dio ci dona il suo amore, che si manifesta nella possibilità di vivere con la dignità di figli e figlie, ciò comporta una responsabilità. L’amore che viene da Dio è dono gratuito e disinteressato e provoca il desiderio di condividere, di donarsi.

Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza, ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. La conclusione della parabola sembra molto strana e, soprattutto, incoerente con il messaggio del Vangelo. A chi si riferisce Gesù con queste parole? Come mai afferma che a chi non ha verrà tolto anche quello che ha? Non è un’affermazione assurda? In realtà, il discorso di Gesù è estremamente coerente. Infatti, non si tratta di un avere quantitativo, ma qualitativo, si tratta, cioè, di quei doni ricevuti dal Signore come il Vangelo, lo Spirito Santo, i sacramenti, che hanno come unico scopo quelli di farci vivere una qualità di vita differente e che non servono per essere messi da parte. Coloro che non hanno nella parabola di oggi, sono tutti coloro che non hanno mai vissuto ciò che hanno ricevuto dal Signore e, per questo, vengono spogliati di questi dono e dati a coloro che li hanno fatti fruttare con una vita in cui è visibile la dignità di figli e figlie di Dio.

Beato chi teme il Signore e cammina nelle sue vie. Della fatica delle tue mani ti nutrirai, sarai felice e avrai ogni bene. Le parole del salmo 127 con cui preghiamo in questa domenica ci offrono il contenuto che dà senso al discorso fatto. Il cammino che abbiamo intrapreso grazie all’ascolto della parola del Signore non è automatico e presenta difficoltà, che possono essere superate. C’è uno sforzo che deve essere realizzato, che consiste nel capire in che modo vivere al meglio ciò che il Signore ci dona. È proprio questo che intendiamo augurarci mentre verifichiamo alla fine dell’anno, con queste letture, il nostro cammino di sequela al Signore.

mercoledì 8 novembre 2023

OMELIA DOMENICA 12 NOVEMBRE 2023

 



XXXII DOMENICA TEMPO COMUNE

Sap 6,12-16; Sal 62; 1 Ts 4,13-18; Mt 25,1-13

 

Paolo Cugini

 

Ci stiamo avvicinando alla fine dell’anno liturgico e, come di consueto, la liturgia della Parola ci propone letture che ci possano aiutare a verificare il nostro cammino di fede personale e comunitario. Questo è un aspetto che merita di essere sottolineato. Siamo, infatti, il popolo di Dio in cammino e, proprio perché stiamo camminando su un percorso nuovo, che è quello presentato nel Vangelo, è possibile correggere gli errori fatti, misurare meglio le forse, individuare i punti sui quali possiamo lavorare, per rendere il Cammino più conforme alla proposta di Gesù. Per questo motivo, il tempo di verifica che ci viene offerto è di fondamentale importanza e va preso, dunque, sul serio. Il rischio è quello di camminare senza fermarsi e perdersi a causa di quella mancanza di umiltà che ci fa credere che possiamo andare da soli a testa bassa, senza mai fermarci. Ascoltiamo, allora, i consigli delle letture di oggi.

Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. C’è un primo dato generale nella parabola che oggi Gesù racconta, che orienta tutto il nostro percorso cristiano. Ci viene detto, infatti, che il cammino che stiamo compiendo è caratterizzato dalla gioia, è come una festa di nozze. Del resto, già i profeti, come il profeta Osea, utilizzavano l’immagine del matrimonio per simbolizzare il rapporto tra Dio- lo sposo – e la sposa, vale a dire il popolo d’Israele. Questa immagine ci ricorda che siamo chiamati interiormente ad una relazione di grande intensità, di appartenenza, che rimanda anche a delle responsabilità. Prima di tutto, però, c’è l’aspetto della gioia che segna una relazione sponsale. In cammino, dunque, con i fratelli e sorelle della comunità con un atteggiamento segnato dalla gioia, perché segnati dalla percezione di aver trovato il massimo che avremmo potuto sognare.

Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. È questo uno dei passaggi che ha visto un grande numero d’interpretazioni. Nella parabola che Gesù racconta ai suoi discepoli e alle sue discepole, le lampade e l’olio sono due elementi centrali per l’interpretazione dell’intera narrazione. Che cosa intende indicare Gesù con la lampada e con l’olio? Già ho detto poco sopra che tante sono state le interpretazioni: provo ad indicarne uno, quella che mi sembra la più coerente. Per una giusta interpretazione occorre tener presente che la lampada è una realtà che tutte le dieci vergini possiedono, mentre l’olio no. Inoltre, l’olio non solo non tutti lo possiedono, ma chi ce l’ha non lo può nemmeno imprestare. Di che cosa si tratta? Probabilmente la lampada fa riferimento all’ascolto del Vangelo, della proposta di Gesù, che tutti e tutte possono ascoltare. A questo livello si può inserire anche la dottrina della Chiesa, maturata durante i secoli e che è alla merce di tutti e tutte. L’olio, invece, ci dice la parabola, che non tutti ce l’hanno. L’interpretazione deve tener presente di ciò che abbiamo indicato come lampada, che è il Vangelo. Se il Vangelo rimane solo nella fase di ascolto cade nel vuoto della nostra vita. La lampada del Vangelo diventa luce che illumina i passi del cammino per tutti coloro che lo mettono in pratica. Ecco l’olio! Sono le buone opere suscitate dal Vangelo, che fanno riferimento ad una risposta personale. Per questo motivo, le cinque vergini sagge non possono prestarlo alle cinque stolte. C’è una saggezza indicata dal Vangelo che non fa riferimento allo studio, all’apprendimento di nozioni, ma all’intelligenza che ci spinge a vivere quello che ascoltiamo dalla Parola. È saggio, dunque, chi si sforza di vivere quello che ascolta. Non a caso abbiamo ascoltato nella prima lettura un passaggio del libro della Sapienza che ci ricorda che: La sapienza è splendida e non sfiorisce, facilmente si lascia vedere da coloro che la amano e si lascia trovare da quelli che la cercano (Sap 6,12). Trovano la sapienza coloro che la cercano vivendo quello che ascoltano.

E la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità̀ io vi dico: non vi conosco”. In questo versetto è narrato il dramma di coloro che credono di conoscere il Signore per il semplice fatto di aver ascoltato la sua Parola, di conoscere dei versetti. C’è una conoscenza del Signore che, in realtà, ci allontana da Lui. È quel tipo di conoscenza formale, sterile che non si traduce mai in azione. È la conoscenza di tipo dottrinario, fatta di nozioni mai realmente sperimentate nella propria vita. Del resto, ce lo ricorda anche il Concilio Vaticano II che, nel mistero della Parola di Dio, i fatti e le parole sono intimamente connesse, nel senso che è una Parola che rivela il suo contenuto specifico, la sua verità solamente quando è vissuta e messa in pratica. È proprio questa la sapienza che viene dall’alto e che troviamo rivelata ogni volta che la viviamo.

Ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne in terra arida, assetata, senz’acqua (Sal 62). C’è un desiderio profondo nella nostra anima, che anela verso l’alto, perché ogni persona percepisce che la nostra vita non si riduce alla mera materia: c’è qualcosa di più. È il Vangelo che ci dona l’indicazione di un cammino che può realizzare pienamente la nostra vita ed è il Cammino che percorrono tutti coloro che vivono e mettono in pratica ciò che ascoltano nel Vangelo. 

martedì 31 ottobre 2023

XXXI DOMENICA TEMPO COMUNE A

 





Ml 1,14-2,2b.8-10; Sal 130; 1 Ts 2,7-9.13; Mt 23,1-12

 

Paolo Cugini

 

Finalmente, dopo più di un mese in cui abbiamo ascoltato nei vangeli, proposti dalla liturgia la estenuante polemica tra Gesù e i capi religiosi del popolo d’Israele, oggi giungiamo al termine. A differenza dei brani letti in questo periodo, in cui era Gesù stesso a prendere la parola o i capi del popolo, oggi Gesù si rivolge direttamente agli apostoli e al popolo. L’ultima volta che Gesù si era rivolto a questi due gruppi di persone era stato nel discorso della montagna. Il richiamo non è casuale. Indica, infatti, un’avvertenza, vale a dire, chi desidera vivere la pagina delle beatitudini deve guardarsi dall’insegnamento dei capi religiosi, perché “dicono, ma non fanno”. L’attacco di Gesù nei confronti di farisei e sadducei ora diviene frontale, senza sotterfugi. Non siamo, dunque, più nell’ambito della schermagli dialettica, ma nell’accusa esplicita e senza ritorno. Il capitolo 23 di Matteo, del quale il vangelo di oggi presenta solamente i primi versetti, è la pagina più dura e verbalmente più violenta di tutto il Vangelo. Gesù non si nasconde più dietro le parole e le argomentazioni, ma smaschera senza ritegno coloro che ritiene i principali responsabili della confusione, che regna in un popolo che ha perso il senso del proprio cammino.

Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Chi sono i capi religiosi del popolo? Sono coloro che si sono seduti indebitamente sulla cattedra di Mosè. Era stato proprio lui, infatti a dire che: Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto (Dt 18,15). Ebbene i farisei, gli scribi e i sadducei si sono seduti dove non dovevano, hanno identificato la loro presenza e il loro insegnamento sulla scia della grande guida di Israele, ma loro non lo rappresentano. Dal punto di vista storico, c’è stato un processo di usurpazione che ha avuto come conseguenza la sostituzione della Parola di Dio con le leggi umane di questa gente interessata al potere. Non ne poteva venire, come conseguenza, che un cammino di ingiustizia. È questa, infatti, l’accusa che il profeta Malachia, ascoltato nella prima lettura, rivolge proprio ai capi religiosi: non avete seguito le mie vie e avete usato parzialità nel vostro insegnamento (Ml 2,9). C’è un cammino di giustizia e di uguaglianza preparato dal Padre per il suo popolo, cammino realizzato con la guida di Mosè e dei profeti di Israele, ma che si è perso negli anni a causa degli attuali capi religiosi.

Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente. Gli insegnamenti dei farisei e dei sadducei sono come parole al vento, perché non trovano un riscontro concreto nel loro modo di vivere. Al contrario, quello che questi capi religiosi esigono dal popolo, loro non lo fanno. E così, mentre abbiamo da una parte un popolo sempre più schiacciato dal peso di una legge fatta di norme e decreti insopportabili e impraticabili, dall’altra ci sono i capi religiosi, che sfruttano la situazione a fini personali. In queste parole di Gesù c’è un’indicazione spirituale molto importante, sulla quale vale la pena soffermarsi. Vale quella parola che è vissuta in prima persona, esattamente come ha fatto Gesù: quello che diceva era visibile nelle sue scelte, nelle sue azioni. Possiamo insegnare quello che viviamo, altrimenti diventiamo dei ciarlatani come i capi religiosi di Israele. Ci alimentiamo della Parola del Signore per uscire dalle paludi torbide dell’ipocrisia, da quel modo di stare al mondo che cela la ricerca sfrenata del proprio interesse, che manifesta una vita in cui le relazioni umane sono falsate da scopi meschini e la vita diventa torbida, insipida, incapace di trasmettere contenuti che abbiamo un significato positivo.

Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato. È il messaggio finale del brano di oggi e, in un certo senso, la conclusione della lunga polemica tra Gesù e i capi religiosi che ci ha accompagnato nelle domeniche degli ultimi due mesi. Coloro che impostano la vita alla ricerca dei propri interessi, vogliono raggiungere la gloria del mondo. Per raggiungere questo scopo diventano disposti a tutto, persino di servirsi della religione, della parola di Dio. È come un tunnel in cui si entra, ma non si sa bene dove andrà a finire. La conseguenza di questo percorso è la perdita del senso della giustizia, la deformazione dell’immagine di Dio che portiamo dentro, in altre parole, la dispersione totale di sé. Al contrario, chi cerca il Signore e la sua giustizia, chi si sforza ogni giorno di vivere il Vangelo ascoltato alla mattina, entra in quel cammino in cui non si cerca più la gloria del mondo, ma quella di Dio, il suo volto, il suo amore. Si diventa, allora, come il granello di senape o come il lievito nella massa, non più preoccupati di apparire, ma di trasmettere vita, di lavorare per creare relazioni nuove, basate sull’uguaglianza, sull’attenzione all’altro, il rispetto. È tutto un altro cammino, un altro modo di stare al mondo, che non provoca attenzione per la sua estetica materiale, ma per lo stile di vita che realizza. 

domenica 22 ottobre 2023

OMELIA DOMENICA 29 OTTOBRE 2023

 



XXX DOMENICA TEMPO COMUNE

LETTURE: Es 22,20-26; Sal 17; 1 Ts 1,5c-10; Mt 22,34-40

 

Paolo Cugini

 

La polemica estenuante di Gesù con i capi religiosi del popolo ha avuto per questi ultimi un effetto fortemente negativo. Nella pericope precedente al Vangelo proposto oggi, dopo l’ennesimo attacco portato da uno dei gruppi religiosi di Israele, i sadducei, sul tema delicato della resurrezione, la risposta di Gesù era stata così profonda ed eclatante che le folle, dice l’evangelista Matteo, “rimasero estasiate con il suo insegnamento” (Mt 22,33). Più la polemica avanza sui vari temi della religione e sempre di più si rafforza agli occhi del popolo l’immagine di Gesù come nuovo profeta, il vero e proprio Maestro di Israele. Probabilmente è questo il motivo che conduce i farisei nel brano di oggi, a coinvolgere un dottore della legge per cercare di mettere in difficoltà Gesù. Vediamo, allora, come procede la scena, per cogliere in profondità l’insegnamento che oggi Gesù ha da dirci.

un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Anche il dottore della legge è posto sullo stesso piano dei farisei e degli erodiani, protagonisti del brano di Vangelo ascoltato domenica scorsa, vale a dire coloro che cercano Gesù non per ascoltare la sua Parola, ma per metterlo alla prova, esattamente come aveva fatto satana all’inizio dell’attività pubblica di Gesù (Mt 4,1-11). È questa una modalità letteraria che l’evangelista utilizza, per mettere in guardia il lettore, per essere attento ad analizzare bene le parole dell’interlocutore, per capire dov’è l’inganno e così cogliere la profondità della risposta di Gesù. Infatti, la domanda del dottore della legge è una trappola ambigua, perché voleva mettere in bocca a Gesù l’unica risposta che i farisei si aspettavano, vale a dire, che il più grande comandamento è l’osservanza del sabato. Dio stesso e i suoi angeli, secondo la tradizione ebraica, rispettava questo comandamento, considerato il perno su cui reggeva tutta la Torà, la Legge ebraica. Proprio su questo comandamento, era stato ripreso diverse volte Gesù, che si era mostrato non proprio scrupoloso nell’obbedienza al precetto, realizzando miracoli nel giorno di sabato. La domanda è quindi, sibillina, fatta esattamente per mostrare davanti a tutto il popolo l’inadeguatezza di Gesù come Maestro e, in questo modo, denigrarlo, screditarlo.

Gli rispose: «"Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente". Questo è il grande e primo comandamento. Ancora una volta Gesù manifesta tutta la sua intelligenza con questa risposta sorprendente e inattesa. Gesù, non solo non cita il grande comandamento che il dottore della Legge si aspettava di sentire, per poi attaccare e sbugiardarlo, ma non cita nemmeno gli altri. La risposta rivela quello che il Maestro aveva colto come fondamentale nell’insegnamento della Tradizione ebraica, vale a dire che prima di tutto e fondamento di tutto è l’amore a Dio. Anche in questo caso Gesù utilizza un classico brano della religione ebraica – lo Shemà Israel - e lo interpreta. Il testo citato da Gesù dice letteralmente: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le tue forze (Dt 6,5). Al posto di forze Gesù dice: con tutta la tua mente (alcune traduzioni hanno: con tutto il tuo spirito). Ciò significa che per Gesù, nell’amore autentico non ci può essere forza, non ci può essere violenza. Il brano è in linea con quello citato nel Vangelo di Luca, all’inizio dell’attività pubblica di Gesù quando, in giorno di sabato entra nella sinagoga, legge il brano di Isaia 61,1-2, ma non lo legge tutto. Si ferma, infatti, ad un certo punto per non leggere il versetto che dice: un giorno di vendetta del nostro Dio (Is 61, 2). Gesù entra nel mondo e completa la Legge, la realizza, ne spiega il senso e la direzione. Il centro della Legge è l’amore a Dio, che passa per la totalità della persona umana ed esige cuore, anima e mente, ma non la forza.

Il secondo poi è simile a quello: "Amerai il tuo prossimo come te stesso". Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti. Anche questa seconda risposta non segue le aspettative del dottore della Legge. Gesù cita un altro brano famoso della Torà ebraica, vale a dire Levitico 19,18. In questo modo, Gesù mostra la sua profonda conoscenza della Sacra Scrittura, al punto da mostrarne il vero significato, elevando a fondamento di tutto il comandamento dell’amore. Non è possibile amare Dio con tutto il cuore, l’anima e la mente senza amare il prossimo, che è l’immagine di Dio sulla terra. È questa la grande verità che Gesù indica a tutto il popolo d’Israele, smascherando, in questo modo, il grande inganno operato dai capi religiosi, che non hanno fatto altro che sostituire la Parola di Dio con le loro tradizioni umane. Come sappiamo, nelle prime comunità cristiane, l’indicazione di Gesù venne presa in grande considerazione. Giovanni ricorda alla sua comunità che: “se qualcuno dicesse: amo Dio, ma odia suo fratello, è un bugiardo” (1 Gv 4, 20). Anche Giacomo è sulla stessa linea quando afferma: “La fede senza le opere è morta” (Gc 2,17). L’amore a Dio esige l’amore ai fratelli e alle sorelle: è questo il centro della Legge.

Ti amo, Signore, mia forza, Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore (Sal 17). Facciamo nostre le parole del salmo che abbiamo ascoltato: è il Signore l’unico che ci può liberarci dalla falsa religione, per entrare in una relazione nuova con il Padre, con un amore autentico che ci conduce ad amare i fratelli e le sorelle che incontriamo nel nostro cammino.