lunedì 28 giugno 2021

L'AMORE CHE LIBERA

 


“Uno scriba si avvicinò e gli disse: «Maestro, ti seguirò dovunque tu vada». Gli rispose Gesù: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo». E un altro dei suoi discepoli gli disse: «Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre». Ma Gesù gli rispose: «Seguimi, e lascia che i morti seppelliscano i loro morti»” (Mt 8,21-22).

Radicalità evangelica. Il primo versetto riguarda il rapporto con le cose, che indica la libertà che non attacca il cuore a nulla. Se la priorità è il Regno, allora, non si può appesantire il cammino con l’attaccamento alle cose, qualsiasi esse siano. È la povertà evangelica, che prima di essere una scelta è una conseguenza dell’amore di Dio che travolge il discepolo, la discepola.

Il secondo paragrafo riguarda gli affetti umani. Colui che si sente chiamato dal Signore per una vita totalmente donata al Vangelo diventa libero anche dagli affetti umani: non si lega a nessuno. Il discepolo è libero per amare tutti e tutte. È vero che dal punto di vista umano sembra un’indicazione assurda, disumana; la realtà del discepolato, però, manifesta questa libertà di affetti come imprescindibile. È il tema della scelta della castità che, prima di essere una scelta, è una conseguenza del cammino intrapreso. In ogni modo, anche il secondo versetti non riguarda in modo specifico i consacrati, ma tutti i battezzati, in quanto chiamati a realizzare relazioni interpersonali libere, non basate sul possesso. L’amore che viene da Dio e che si è manifestato in Gesù Cristo è gratuità disinteresse, perché cerca continuamente il bene dell’altro e, di conseguenza, non crea dipendenza, o possesso, ma fa spazio all’altro affinché possa vivere in libertà.

 

venerdì 25 giugno 2021

DOMENICA XIII/B - LA TRASGRESSIONE

 



Sap 1, 13-15; 2,23-24; 2Cor 8, 7.9.13-15; Mc 5, 21-43

Paolo Cugini

 

     Gesù è una presenza nuova nella storia, una presenza che sana e cura le ferite dell’umanità. È la forza di Dio che agisce in mezzo a noi e lo fa attraverso la sua umanità. Per non perdere il filo della storia e finire dentro ai vicoli cechi delle contrapposizioni spiritualiste o di tipo sociale, è importante sempre mantenere insieme i due elementi che in Gesù sono una cosa sola, vale a dire la dimensione verticale e quella orizzontale, la trascendenza e l’immanenza. Gesù, nella sua umanità, rappresenta una grandissima novità, uno scarto qualitativo incommensurabile che, però, può rimanere nascosto, ignorato, perché è possibile accedere a Lui, alla sua forza divina solamente con la fede. Non basta, allora sapere chi è, conoscere la sua storia, aver letto i vangeli, occorre credere in Lui, nel suo amore, nella possibilità che Lui ha di donarci la vita, quella vera, che ci permette di realizzare la nostra esistenza in pienezza. Le storie che ascoltiamo nel vangelo di oggi narrano proprio questo percorso di fede che apre le porte del cielo e permette ad ognuno di entrarci.

Paradossalmente, la narrazione del vangelo ci dice che il più grande ostacolo ad entrare con fede all’incontro con il Signore Gesù è la religione, che seppur parla di Dio, lo fa attraverso un apparato di leggi e dottrine fatte da mani d’uomo. Hanno una parvenza di positività ma, alla prova dei fatti, costituiscono il più grande ostacolo per accedere al Signore della storia: Gesù Cristo. Sembra paradossale ma, come vedremo, si tratta di una realtà che occorre prendere sul serio. Il rischio, infatti, è quello di pensare di vivere in un contesto – quello religioso, per l’appunto – che ci avvicina a Dio, mentre in realtà, ce ne allontana.

Protagoniste del vangelo di oggi sono due donne, tutte e due con segni di morte: una donna che perde sangue e una bambina morta. Tutte e due sono legate dal numero 12, che è il numero che indica le tribù d’Israele e, dunque, il popolo. C’è tutto un popolo che sta morendo a causa delle leggi del Tempio, dall’obbedienza alla dottrina e al culto fatto dagli uomini, manipolando la legge di Dio per controllare il potere. Come fare per uscire dai cammini di morte della religione degli uomini? Quali risposte offre Gesù? In tutti e due i casi presentati nel vangelo di oggi, la risposta è la stessa: trasgredire.

Trasgredisce la legge mosaica la donna che perdeva sangue, che non poteva assolutamente toccare un uomo, perché lo avrebbe reso impuro. Questa donna, che avrebbe avuto bisogno di Dio, a causa della perdita di sangue che la rendeva impura, non poteva avere accesso al tempio. Che religione è questa che proibisce ai bisognosi di entrare nella casa del Signore? Ebbene, la donna, incontrando Gesù, non ci pensa due volte: trasgredisce la legge e lo tocca rendendolo a sua volta impuro. Gesù, però, invece di arrabbiarsi, fa una dichiarazione strabiliante dicendo: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va' in pace e sii guarita dal tuo male». Gesù chiama fede l’atto trasgressivo della donna. Dalla legge che schiaccia l’umanità e le impedisce di vivere in pienezza non c’è alternativa: occorre trasgredirla.

Lo stesso accade nella seconda scena, con la narrazione di una bambina di dodici anni morte. Anche toccare un morto rendeva impura la persona. Gesù, però, non si ferma dinanzi alla legge degli uomini e, questa volta, è lui a trasgredire toccando la bambina morta.  “Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: alzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni”.

Sia nel primo caso che nel secondo è la situazione personale che conduce alla trasgressione della legge per trovare vita. La donna tocca Gesù, nonostante l’imposizione della legge, perché ormai non sa più cosa fare: in fin dei conti si tratta della sua propria vita. Nel secondo caso è il capo della sinagoga (interessante!) che si dirige a Gesù per la vita di sua figlia.

Essi furono presi da grande stupore”. C’è un cammino di liberazione che siamo chiamati a compiere, un cammino verso Gesù, che passa attraverso la liberazione dagli impedimenti della dottrina e del culto religioso. Questo cammino, apparentemente impossibile, diviene praticabile quando ascoltiamo gli eventi cruciali della nostra vita, che ci spingono ad osare, vale a dire, a trasgredire. Quando questo avviene, inizia il processo di smascheramento della religione falsa: cade la maschera dell’ipocrisia e noi, liberati dal Signore, possiamo divenire strumento di salvezza per gli altri.

 

 

 

 

 

giovedì 24 giugno 2021

SAN GIOVANNI BATTISTA

 



Lc 1, 57-66.80 È il passato che deve accogliere il nuovo. Perché cambiare se si è sempre fatto così? È questa l’affermazione dell’uomo accomodato. Un sacerdote come Zaccaria, che rompe con la tradizione: è inaudito. Il sacerdote che accoglie il nuovo, accoglie lo spirito si trasforma in profeta. Giovanni non segue la linea sacerdotale del padre, ma seguirà la linea profetica. La rottura sorprendente della tradizione è inaudita. Proprio perché la mano del Signore sta con Giovanni e non va nel tempio, ma nel deserto.

Giovanni Battista, dunque, va letto nella linea della rottura con la tradizione, soprattutto quella sacerdotale, nella linea del compimento delle profezie, dell’apertura alla novità dello Spirito, che rende nuove tutte le cose. Occorre, allora, avere un cuore aperto alla novità dello Spirito Santo, non porre resistenze e, spesso, sono proprio le tradizioni religiose lo scudo più forte che poniamo contro la novità dello Spirito. Il cammino nuovo inaugurato da Giovanni è la strada che lo stesso Gesù prenderà per mostrarci il vero volto del Padre, che è misericordia. Anche Lui, per compiere la sua missione, troverà la resistenza degli uomini della tradizione religiosa, della religione del tempio.  

mercoledì 23 giugno 2021

ABRAMO

 




Gen 15, 1-12s. Vita di Abramo basata sulla fiducia in Dio: come ha fatto? Ogni sua scelta è avvenuta come risposta ad un appello di Dio. La storia narrata nel libro della Genesi inizia quando Abramo aveva 75 anni. Si tratta, dunque, della storia di un uomo vecchio, abituato a fare la volontà di Dio. Come faceva a riconoscerla? Andava dove percepiva la volontà di Dio. Abramo è un uomo che dialoga con Dio, che pensa continuamente a Lui, che Lo cerca. C’è una naturalezza nella fede di Abramo che è disarmante. Sembra che la sua fiducia in Dio sia qualcosa che plasma la sua esistenza in modo tale da sembrare naturale il suo muoversi nell’ambito di JHWH. Abramo segue le intuizioni della presenza di JHWH. Lo ha imparato a conoscere vivendo ciò che percepiva dalla sua presenza.

Così, dopo tanto tempo di questo esercizio spirituale, la percezione della sua presenza è più trasparente: ormai sa di che cosa si tratta, lo sa riconoscere. Il testo dice: “gli fu rivolta questa parola del Signore”. Che cosa significa? Come fa Abramo ad avere certezza che quello che sente e vede è la Parola del Signore? Com’è avvenuto questo evento? Una persona come Abramo che sin da giovane si è lasciato plasmare dal Signore e dalla sua volontà, che è amore e libertà, ha un senso di percezione altissima della Trascendenza. La vita diventa sensibile al Mistero quando indirizziamo la nostra vita a Lui, quando lo cerchiamo in ogni momento.

Pensando a più di temila anni fa, l’epoca in cui si muove e vive Abramo è importantissimo destrutturare i testi per capire cosa vogliono comunicare. Senza dubbio gli uomini e le donne che hanno vissuto nei tempi antichi avevano una sensibilità del mistero molto più profonda di noi oggi, per il semplice fatto che era l’unica risorsa possibile per spiegare gli eventi, soprattutto quelli inspiegabili. Per loro, dunque, era più facile parlare di Dio, della trascendenza, vale a dire, dare risposte sacre e sacrali agli eventi che vivevano. Poi, anche tra loro vi era chi aveva sviluppato una maggiore sensibilità al divino. Abramo è uno di questi, con alcune attitudini particolari così significative, da divenire un riferimento per intere generazioni. Che cosa distingueva l’atteggiamento spirituale di Abramo dagli altri? Una parola: la fede. Abramo si fida del Mistero: lo sente presente; ha avuto esperienza di Lui e, da queste esperienze ne ha tratto insegnamenti fondamentali al punto da avere una fiducia indistruttibile. Abramo sente la trascendenza, la cerca e va dove percepisce che il mistero gli ordina di andare.


lunedì 21 giugno 2021

DOMENICA XII B

 



Gb 38, 1. 8-11; 2 Cor 5,14-17; Mc 4,35-41

Paolo Cugini

 

    Gli eventi narrati nei vangeli che riguardano la vita di Gesù hanno un valore metaforico e simbolico che va oltre il puro dato immediato e storico. Senza dubbio, per conoscere Gesù è importante la ricerca storica che ci offre un materiale il più possibile oggettivo sulla sua vita. In ogni modo, non dobbiamo mai dimenticarci che la chiave d’entrata per comprendere il Vangelo è innanzitutto la fede nel Signore della Vita, in Colui che è all’origine di tutte le cose perché, come ci ricorda san Palo: “tutto è stato fatto per mezzo di Lui e in vista di Lui” (Col 1,16). È con questa sensibilità evangelica che ascoltiamo il brano di oggi per cogliere quelle indicazioni spirituali ed esistenziali utili per il nostro vivere quotidiano.

Gesù disse ai suoi discepoli: passiamo all’altra riva” (Mc 4,35). Imparare da Gesù a non rimanere chiusi nelle nostre sicurezze, ma sperimentare la grandezza della nostra umanità rischiando la novità, cercando altrove. Andare all’altra riva significa per Gesù, andare nella terra dei pagani e, quindi, un terreno pieno d’insidie ma, allo stesso tempo, di nuove sfide. Seguire Gesù significa avere il coraggio di immergersi nelle novità della vita, di abbandonare le sicurezze, per lasciare che sia la presenza del signore a guidarci.

Lo presero con sé così com’era” (Mc 4, 36). Questo versetto così semplice e, in apparenza, innocuo, è portatore di un’importante rivelazione. Ci dice, infatti, che passare all’altra riva, per uscire dalle nostre sicurezze e lasciarci guidare dal Signore, dobbiamo imparare a prenderlo così com’è. Ci accompagna la tentazione di lasciare da parte quei versetti del Vangelo che ci sembrano lontani dalla nostra sensibilità o che ci mettono in crisi e, di conseguenza, li escludiamo. Troviamo, così, lungo il cammino cristiani spiritualisti e altri protesi solo sul sociale, perché ognuno ha preso di Gesù quello che gli andava meglio, trascurando il tutto. Il Vangelo di oggi ci allerta su questa tentazione di manipolare il Vangelo a nostro piacimento. Chi si mette in cammino su piassi del Signore deve essere disponibile al cambiamento, a lasciarsi trasformare dalla sua Parola.

“Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva” (Mc 4,38). Perché Gesù dormiva sulla barca in mezzo alla tempesta? Che cosa significa questo evento per la nostra vita? Se vogliamo capire a che cosa serve la vita spirituale, la preghiera, dobbiamo porre attenzione proprio a questo versetto. Chi vive cercando ogni giorno di lasciarsi modellare dalla Parola del Signore, meditandola, interiorizzandola e poi provando a viverla non sarà turbato dalle tempeste della vita. Questo è il problema centrale dell’esistenza umana: non lasciarsi travolgere dagli eventi della vita, ma rimanere sereni. La tranquillità in mezzo alle tempeste del mondo è frutto della percezione spirituale che tutto è nelle mani di Dio; questa serenità è il dono che otteniamo nella vita spirituale, coltivando il rapporto personale con il Signore.

  “E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?” (Mc 4, 41). Chi è sereno interiormente riesce a trasmettere serenità alle persone che incontra e modificare le modalità aggressive delle relazioni quotidiane, che spesso provocano disappunto e turbamento nelle persone. Lavorare sulla propria interiorità, assimilando ogni giorno la Parola del Signore, sforzandosi di viverla, ha un effetto sulla realtà in cui viviamo. La Chiesa dovrebbe aiutare i fedeli nei diversi livelli di vita, ad imparare a pregare, a valorizzare la vita spirituale, a scoprire la bellezza e profondità del Vangelo. I cristiani dovrebbero essere, innanzitutto, maestri di vita spirituale, per divenire maestri di umanità.

 

 


domenica 13 giugno 2021

DOMENICA XI/B

 




Ez17,22-24; Sal 91; 2 Cor 5,6-10; Mc26,34

Paolo Cugini

 

Gesù utilizza spesso un’espressione per indicare il contenuto della sua proposta: il regno dei cieli, oppure il regno di Dio? Di che cosa si tratta? Se il regno del mondo è dominato da logiche egoistiche, che conducono verso relazioni di dominio e di possesso, che creano tensioni disuguaglianze, ben differente è la logica del regno di Dio. Per il fatto, infatti di essere “di Dio”, è caratterizzato dal dinamismo dell’amore, che genera relazioni caratterizzate dalla donazione gratuita di sé, dal fare spazio all’altro affinché incontri libertà per sviluppare le proprie potenzialità. Per descrivere questo stile nuovo di stare al mondo con gli altri, Gesù utilizza delle metafore chiamate parabole, che necessitano, quindi, d’interpretazione per poterle comprendere. Oggi Gesù ne racconta due.

“Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa” (Mc 4, 26-27).

Il seme è Gesù stesso, la sua parola, la sua proposta di vita nuova, di relazioni nuove. Ebbene, la novità di Gesù non dipende dalla nostra progettazione, nel senso che la possibilità di portare frutto nelle persone che la ricevano, dipende esclusivamente dal seme. L’importante, allora, è seminare, perché non spetta a noi sapere se porterà frutto e in che modo. Il brano in questione è collocato verso la fine del capitolo quattro del Vangelo di Marco e, questa collocazione, ci può aiutare nell’interpretazione. Dopo i primi successi, la proposta di Gesù, così com’è narrata dall’evangelista Marco, incontra molte resistenze. Già nelle prime battute del capitolo tre, i farisei, dopo aver assistito ad un miracolo di Gesù in giorno di sabato, decidono di ucciderlo. E’ nel contesto generale di fallimento della proposta che Gesù presenta questa parola, in cui tutto l’accento è sulla bontà della semente, che senza dubbio porterà frutti di amore, pace e giustizia, perché è una semente fatta apposta per il terreno umano, per svilupparlo nella giusta direzione.

È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell'orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra” (Mc 4, 31-32).

Il seme del Vangelo non ha bisogno di grandezze umane per manifestarsi o per portare frutto. Non utilizza la logica social dell’apparenza per colpire i sensi, anche perché no gli interessa: desidera radicarsi e trovare spazio nell’anima. Per questo, non colpisce per la sua visibilità immediata, ma per lo spessore qualitativo della vita che produce. Se è vero che dal punto di vista sensibile è quasi invisibile, al punto che è difficile percepirne la presenza, il frutto che produce non solo è visibile, ma diventa spazio di protezione per chi non lo trova nel regno del mondo. Gli “uccelli del cielo”, infatti, sono considerati cosa di poco conto nella cultura semitica. Ebbene, nel regno dei cieli sono proprio loro, quelli che non contano nulla, a trovare spazio e protezione. Interessante il fatto che, mentre l’albero di cedro, narrato nell’immagine di Ezechiele 17 è vistoso ed è piantato sul colle di Sion, il seme di senape è seminato nell’orto di casa, simbolizzando, in questo modo, che la trasformazione che produce il Vangelo non avviene in eventi straordinari, ma coinvolge la quotidianità della vita, le relazioni del vissuto famigliare.

Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa (Mc 4,33-34).

Significativo è il passaggio finale del Vangelo, perché mostra un dato che spesso ci sfugge. Gesù parla delle parabole del regno in pubblico, ma solo ai discepoli le spiega in privato: perché? La comprensione dei misteri del regno dei cieli è riservata ai discepoli e alle discepole del signore, vale a dire a coloro che hanno deciso di seguirlo, che hanno fatto delle scelte, ponendo la propria vita nel cammino tracciato dal Signore. Discepolo è colui che dedica tempo a Gesù, all’ascolto della sua Parola, alla comprensione del suo Vangelo e alla costruzione di quella realtà nuova che ha il sapore del cielo.

domenica 6 giugno 2021

SANTISSIMO CORPO E SANGUE DEL SIGNORE/B

 



Paolo Cugini

 

    È senza dubbio una delle solennità più importanti della Chiesa cattolica. A mio avviso, nei secoli, se ne è perso il significato profondo perché è stata rivestita pesantemente di sacralità, che non permette di cogliere la dimensione esistenziale e spirituale del gesto e delle parole che Gesù ha pronunciato nell’ultima cena. In questo frangente, infatti, Gesù profetizza quello che avverrà dopo poche ore, vale a dire la sua morte in croce, come conseguenza delle sue scelte, del suo desiderio di liberare l’uomo e la donna dai pesi di una legge, fatta passare per legge di Dio, ma che in realtà era piena di tradizioni umane che soffocavano la vita degli uomini e delle donne. Era proprio su queste tradizioni umane che si reggeva il potere degli uomini del Tempio, la loro fonte di ricchezza e, allo stesso tempo, motivo di frustrazione di tante persone. Gesù, durante la sua vita pubblica, ha smascherato la loro impostura, manifestando il volto autentico di Dio che è Padre, che ama tutti i suoi figli e figlie e che, dunque, non ha nulla a che vedere con il Duo sanguinario, prepotente e vendicativo degli uomini del tempio. Amare significa aiutare le persone a vivere bene, a liberarsi dei pesi delle tradizioni inutili e nocive, per concentrarsi sull’essenziale, promovendo processi di giustizia e di pace: è questo che ha fatto Gesù ed è per questo che ha pagato caro.

Se tutto questo è vero possiamo chiederci: che cosa c’entra la prima parte del Vangelo di oggi con il resto? In effetti, sembra una narrazione completamente slegata dal contesto. Viene dedicato spazio alla ricerca e alla preparazione della stanza in cui celebrare la cena pasquale. Ci sono dettagli che sembrano marginali, ma che se guardati in profondità, diventano la chiave d’interpretazione di certi testi. Ad un certo punto qualcuno si è chiesto: “ma cosa ci fa un uomo con una brocca d’acqua in testa in questa storia?” E poi: “non sono le donne a portare le brocche, tanto più all’interno di una cultura patriarcale come quella giudaica?”. Seguendo questo indizio, che all’inizio sembra più una curiosità che un punto importante della ricerca, si è scoperto che, all’epoca di Gesù esisteva un quartiere in cui erano gli uomini a portare le brocche d’acqua: era il quartiere degli esseni. Questo dato è importante. Infatti, gli esseni utilizzavano non il calendario lunare dei farisei e degli scribi, ma quello solare, che permetteva di celebrare le feste sempre lo stesso giorno dell’anno, inserendo ogni sei anni una settimana (Paolo Sacchi). Oltre a ciò, l’indicazione di Gesù: “la mia stanza” rivela una frequentazione del Maestro al gruppo degli esseni, conosceva le loro pratiche, i loro riti, il loro stile di vita. Se questo è vero, l’ultima cena diventa l’ultimo atto di un dramma, vale a dire, l’ultima scelta operata da Gesù in polemica con i farisei e, in questo modo, proprio questo brano, in apparenza innocuo, offre una delle chiavi d’interpretazione dell’ultima cena.

Più che una morte sacrificale, com’è stata interpretata negli stessi vangeli, si tratta di una morte come conseguenza di una netta presa di posizione nei confronti della religione del tempio, dello strapotere dei farisei sul popolo. Gesù è venuto per liberare l’umanità da ogni forma di schiavitù, per aiutare ogni persona a vivere non da schiavi, ma da figli di Dio. Questo cammino di liberazione, che ha provocato il durissimo scontro con i farisei, ha avuto la conseguenza la morte di Gesù e, allo stesso tempo, ha aperto per sempre il cammino della nuova relazione con Dio, il padre misericordioso.