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venerdì 22 luglio 2022

QUANDO PREGATE DITE: PADRE

 



XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO C

Lc 11,1-13

 

Paolo Cugini

 

Insegnare a pregare è uno dei capisaldi del cammino spirituali, del rapporto tra Maestro e discepolo. Del resto, la richiesta di uno dei discepoli prende proprio spunto dall’esperienza dei discepoli di Giovanni Battista. Siamo quindi, nel contesto del discepolato, di coloro che sono alla ricerca di un senso della vita ed hanno già operato delle scelte concrete, hanno già posto la loro vita nella direzione per trovare un cammino spirituale. Altro dato importante, sempre a livello d‘introduzione al tema è che, con la preghiera, si entra nell’ambito di una richiesta che dice di un bisogno di natura spirituale, che non soddisfa, dunque, esigenze materiali. Sono sottolineature che orientano la lettura e l’interpretazione del testo nel nostro contesto culturale, che fa fatica non solo a ritenere importante la dimensione spirituale, ma anche a ritenere di avere bisogno di qualcosa e di qualcuno.

Gesù si trovava in un luogo a pregare. Gesù pregava e, nel Vangelo di Luca troviamo spesso questa attitudine di Gesù. Gesù quando prega non si trova mai nel tempio, nella sinagoga, in cui lui va ad insegnare, ma in spazi isolati, all’aperto, a contatto con la natura. Del resto, ce lo dirà nel Vangelo di Giovanni che, i veri adoratori, adoreranno il Padre in Spirito e verità, che non c’è bisogno di un luogo specifico. Recuperare questa dimensione personale e spirituale della preghiera è importante, perché ci aiuta ad uscire dalla logica della formula per entrare in quella della relazione.

Quando pregate, dite: "Padre. Gesù non vuole degli adulatori e per questo non vuole che ci si diriga a Lui con dei titoli altisonanti come: altissimo, eccelso, onnipotente, onnisciente, perché sono titoli che non rivelano il vero suo volto e sono frutto della ricerca filosofica e sapienziale, e non del dono ricevuto da Lui. Chiamare Dio con il titolo di Padre significa che la relazione che Dio desidera instaurare con noi è di paternità e, quindi, filiale. Dio non vuole dei devoti, ma dei figli. Padre, nella cultura dell’epoca, è colui che trasmette al figlio tutta la propria vita e quindi si riconosce in Dio Padre la fonte della vita.

Sia santificato il tuo nome. Come si comprende dal testo, più che una formula, la preghiera che Gesù insegna ai discepoli indica un cammino, uno stile di vita. Padre, sia santificato il tuo nome. Il verbo è all’aoristo passivo e ciò significa che il Padre viene santificato con lo stile di vita di chi lo invoca. C’è un modo di vivere che santifica il nome del Padre, il quale è santificato, riconosciuto come tale, quando il discepolo vive ciò che ascolta. L’inizio della preghiera che Gesù insegna, è una richiesta di aiuto del discepolo, della discepola per il cammino in cui è entrato/a.

venga il tuo regno. Non si tratta di uno spazio politico, di un’esigenza conforme alle logiche del mondo. Il Regno del Padre è stato reso visibile dall’azione del Figlio che ha, come dice il salmo; aperto i cieli ed è sceso. Gesù ha portato il cielo sulla terra. Di che cosa si tratta, allora? Come si è manifestato il Regno di Dio in Gesù Cristo? Attraverso una vita di amore disinteressato e gratuito, visibile nelle relazioni di fiducia che ha saputo instaurare. Le qualità del regno di Dio sono la giustizia, la pace, l’uguaglianza, tra le altre. Chiedere nella preghiera, che venga il regno di Dio, significa non una proiezione dopo la morte, ma il desiderio di diventare protagonisti di questo regno, collaborando in ogni momento alla sua realizzazione.

dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano. Per questo motivo, per continuare nella nostra vita quotidiana l’opera iniziata da Gesù, abbiamo bisogno di un alimento che ci sostenga. Questo pane che ci sostiene nella vita quotidiana è Gesù stesso, la sua Parola di vita che ci alimenta e che assimiliamo affinché giungiamo a pensare e a discernere con le stesse modalità di Gesù. Il pane quotidiano che ci aiuta ad uscire dalle logiche del mondo, è la nostra relazione con i poveri, perché in loro vediamo Gesù e con loro e per loro condividiamo i nostri beni. Infine, è l’eucarestia il nostro alimento, perché è proprio nel contesto eucaristico che Gesù si dona come alimento per trasformare tutta la nostra vita nella sua.

e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore. Qui si tratta di debiti materiali. La comunità di Cristo è una comunità di fratelli e sorelle, che condividono ciò che hanno. Gesù lega la richiesta del perdono dei peccati non con un atto cultuale, ma in relazione allo stile di vita della comunità cristiana che, in nome dell’amore ricevuto e dell’esempio di Gesù, ha imparato a condividere e a perdonare – condonare – i debiti materiali dei fratelli e delle sorelle. Ciò significa che la richiesta del perdono dei peccati, implica uno stile di vita nella comunità in cui condividiamo le nostre cose materiali, al punto da condonare i debiti che qualcuno ha nei nostri confronti.

Non abbandonarci nella tentazione. A che cosa si riferisce Gesù quando dice queste parole? Come coglie la comunità questa indicazione? Di che prova si tratta? Probabilmente il riferimento storico è la prova della persecuzione, molto forte nei confronti dei cristiani nei primissimi decenni dopo la morte e resurrezione di Cristo. Tentazione che ha visto come prime vittime i discepoli e, tra loro, il capo, vale a dire Pietro. È la tentazione di abbandonare il campo quando ci sentiamo soli nella testimonianza e andiamo in confusione, perché ci sentiamo in minoranza, come abbandonati. La richiesta della preghiera è di poter continuare a sentire la presenza del Signore anche in questi momenti di solitudine, per vincere la tentazione di mollare tutto, di uscire dalla comunità.

domenica 27 dicembre 2020

DOMENICA DELLA SACRA FAMIGLIA

 

Paolo Cugini

 

   


C’è un racconto di Tolstoj che narra la storia di un giovane che un giorno decise di uscire di casa per cercare un tesoro. Quest’uomo passò la vita a percorrere mari e fiumi, a vivere in tanti paesi per cercare un tesoro, ma non lo trovò mai. Quando le forze gli vennero a mancare per via dell’età, decise di ritornare a casa. Una mattina, mentre cercava qualcosa che gli era caduta, spostando la stufa si accorge di una botola. La sposta e proprio sotto alla botola trovò il tesoro che aveva cercato tutta la vita. La morale del racconto di Tolstoj è che le cose più preziose della vita sono vicine a noi, alla nostra portata.

   Questa considerazione vale per la festa di oggi. Infatti, Gesù, il Figlio di Dio, venendo sulla terra e nascendo da una famiglia, ci ha comunicato che tutto il materiale, tutti gli strumenti di cui abbiamo bisogno per dare un senso nella nostra esistenza, per umanizzarla li abbiamo sotto il naso, vale a dire, nella nostra famiglia. Andiamo in chiesa per diventare persone più umane, più sensibile, più attente agli altri e meno egoiste. Ebbene, il Natale ci dice che Dio ha messo tutto il necessario per questo cammino nella famiglia. Infatti, anche per Gesù è stato così, anche Gesù ha imparato dalla vita di famiglia, dal rapporto con Giuseppe e Maria, con i parenti che cosa significa essere e diventare uomini. La divinità di Gesù si trova nei tratti della sua umanità, che si è venuta modellando con il tempo grazie anche alla relazione con Maria e Giuseppe. E, infatti, vari tratti dell’umanità di Gesù dicono di sua madre Maria e di suo padre Giuseppe.

Il Vangelo che abbiamo ascoltato ci dice anche di elementi essenziali dell’identità di Gesù, che si ritroveranno manifestati nella sua vita adulta.

 Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, [Maria e Giuseppe] portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore - come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» - e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore” (Lc 2,22-23).

Dal punto di vista generale, il brano del Vangelo ci dice della missione di Gesù, nato da una donna, nato sotto la legge per liberare gli uomini e le donne dal peso della legge, non annullandola, ma mostrandone, da una parte le deformazioni prodotte dagli interessi umani e, dall’altra, mostrandone il senso autentico. Gesù viene al mondo per mostrare che l’unica legge che dev’essere seguita è quella dell’amore e, in questo modo, smaschera tutte quelle leggi, anche religiose, che invece legano l’uomo e la donna, li imprigionano dentro un reticolo di precetti con l’unico obiettivo di controllarli.



 I genitori portano Gesù al tempo per adempiere a due prescrizioni della legge. La prima è la purificazione di Maria che, conforme al Libro del Levitico (Lv 12, 1) considera impura una donna che dà alla luce un figlio e, per questo, deve purificarsi e deve rimanere trentatré giorni per purificarsi dal suo sangue, perché in questo stato non poteva accedere al Tempio (in caso di una figlia i giorni di purificazione sono 66! Della serie: la forza spaventosa della cultura patriarcale). La seconda prescrizione è il riscatto del primogenito, con del denaro o, per le famiglie povere, com’è il caso di Maria e Giuseppe, con due tortore o due colombi. Come dice Paolo ai Galati: “Quando venne la pienezza dei tempi, Dio mandò il suo Figlio nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge” (Gal 4,4-5).

Mentre Maria e Giuseppe salgono al Tempio, proprio dal Tempio viene l’uomo dello Spirito, il profeta Simeone, come se volesse impedire l’inutile rito. Simeone prende il bambino fra le braccia e benedice Dio. Sarà luce per illuminare le nazioni, le etnie, che indica i popoli pagani. L’amore del Signore è universale e arriva pure ai pagani. Messaggio sconvolgente per delle orecchie abituate a sentire una parola unidirezionale, solo riferita alla salvezza del popolo ebraico. Il messia, lungi dall’essere salvatore solo degli ebrei, porta l’amore di Dio a tutte le nazioni. Questo discorso vale anche per noi che riceviamo e accogliamo lo Spirito del Signore: la comunità cristiana deve progressivamente divenire uno spazio aperto a tutti e tutte.

Poi rivolgendosi a Maria Simeone aggiunge: “anche a te una spada trafiggerà l’anima affinché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc 2, 35). Tutta una tradizione ha travisato questo versetto interpretandolo con immagini di dolore, mentre il significato è ben altro. La spada, infatti, nella Bibbia, è immagine Parola di Dio, come ci ricorda la lettera agli Ebrei dove si dice che: “La Parola di Dio è viva ed efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio, essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello Spirito” (Eb 4,12). Simeone dice a Maria che le Parole del Figlio la porteranno a delle scelte dolorose. Come Maria ha accolto le parole dell’angelo ed è divenuta la Madre di Gesù, ebbene ora dovrà accogliere le Parole del Figlio per proseguire il cammino e diventarne una discepola, prototipo di tutti i discepoli e discepole del Signore.



Il Vangelo c’invita a seguire Gesù nel suo cammino di uscita dal tempio e dalla religione dei precetti e delle dottrine che imprigionano l’uomo e la donna e li abbrutiscono, per abbracciare la fede, la fiducia nel Padre che desidera relazione nuove e autentiche per i suoi figli e figlie.

 

 

venerdì 19 luglio 2019

LE PARABOLE DELLA MISERICORDIA





LUCA 15,1-32

Paolo Cugini

Ci sono tre percorsi che il brano di oggi propone, percorsi che s’intrecciano e che rimandano allo stesso significato: l’essenza del Vangelo.
Il primo riguarda gli ascoltatori. Mentre gli scribi e i farisei mormorano nei confronti di Gesù, perché non accettano il suo messaggio, i pubblicani e i peccatori lo ascoltano, aprono spazio al messaggio autentico del Maestro. È già questa una bellissima indicazione per tutti coloro che sono alla ricerca di un senso autentico della vita. Chi è legato dalla religione delle regole e dei precetti, prova fastidio nei confronti di colui che è venuto verso di noi con la Parola della libertà e dell’amore e chiude il proprio cuore al suo messaggio.

 La seconda indicazione del brano viene da due brevi parabole che presentano lo stesso tipo di proporzione paradossale e, per certi aspetti, assurda. È il rapporto di uno a cento, di uno a dieci. È il rapporto che spezza i criteri dell’efficienza, della logica che plasma l’esistenza umana. È una proporzione che dice al mondo la novità del Vangelo, che fa esplodere qualsiasi calcolo, perché non segue la logica dell’efficienza e del merito, ma quella dell’amore e della misericordia. È questo principio che Gesù ha impresso nella storia e dice della novità del Vangelo nei confronti del quale possiamo solo aprire il cuore.

Infine, la parabola del figliol prodigo. Diceva il grande poeta francese Charles Péguy che, quando una persona sente la frase che apre la parabola: “Un uomo aveva due figli”, non può che essere colta da un fremito, dai brividi, per la forza che giunge all’anima di chi l’ascolta. Nella narrazione della parabola colpisce la libertà del padre, la sua capacità di non farsi imprigionare dalle logiche del merito, ma di rimanere sempre all’interno di qualsiasi relazione con il cuore misericordioso. Lo è con il figlio minore sia al momento della partenza che dell’arrivo. Il padre non chiede nulla: è libero in quanto ama e in questa libertà avvolge il figlio. Non chiede nulla al figlio al suo ritorno, ma lo avvolge con un abbraccio paterno che sa di amore vero e, allo stesso tempo, di libertà autentica. Dice infatti, di una relazione filiale costruita, non sulla logica dell’aspettativa, che riduce il figlio ad un esecutore passivo di un progetto prestabilito, ma della misericordia, generatrice continua di libertà. Relazione tra padre e figlio che pone al centro la dignità della persona, più che la forza del denaro, l’originalità di ogni singolo uomo, di ogni donna, più che il calcolo meritorio. Nella scena del ritorno del figliol prodigo colpisce la verità dei sentimenti del padre che non vuole sapere nulla, perché la sua gioia è grande nella possibilità di riabbracciare suo figlio. L’amore del padre nei confronti del figlio è così grande che ha accettato il rischio di perderlo, purché il figlio potesse esprimere la sua libertà, il suo specifico progetto di vita.

Lo stesso discorso vale nella relazione del padre con il figlio maggiore. Ancora una volta è l’incontro della logica del tornaconto, con la libertà che sgorga dall’amore. È l’amore del padre che è in un continuo movimento d’uscita per abbracciare, accogliere, per aiutare il figlio maggiore a compiere il cammino che conduce allo sguardo diverso, quello sguardo che sa cogliere l’essenza delle cose, il valore di ogni persona, indipendentemente dai criteri materiali che possono offuscare la qualità delle relazioni. All’indignazione del figlio rafforzata dall’argomentazione meritoria, il padre risponde esprimendo quello che in una relazione filiale rimane sotteso, vale a dire il suo amore incondizionato che passa anche attraverso la condivisione dei beni.

Questo è il Vangelo, la novità, il vino nuovo capace di rinnovare il mondo e le persone che l’accolgono.