sabato 25 marzo 2023

OMELIA DOMENICA 26 MARZO 2023

 



QUINTA DOMENICA DI QUARESIMA/A

Ez 37, 12-14; Sal 129; Rm 8,8-11; Gv 11,1-45

Paolo Cugini

 

In quel tempo, un certo Lazzaro di Betania, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato.  C’è una indicazione importante: il villaggio ed è sufficiente per chiarire quello che verrà. Il villaggio nei vangeli è sempre negativo; è il luogo dove le tradizioni attecchiscono, ma le novità sono viste con sospetto. Mentre in città le mode possono andare e venire, nel villaggio le mode arrivano sempre in ritardo e quando hanno attecchito è impossibile modificarle e vige l’imperativo: si è fatto sempre così. Pertanto, il termine villaggio viene a significare resistenza, incomprensione od ostilità alla novità portata da Gesù. Con questo termine Giovanni indica che nel brano vi sarà incomprensione su quanto Gesù è venuto a portare. È una comunità che non ha ancora rotto con l’istituzione, è nel recinto del giudaismo, non ha ascoltato la voce del pastore che è venuto a liberare.

Disse allora Tommaso. compare per la prima volta il discepolo più importante del vangelo di Giovanni. Per letture erronee ed errate del vangelo, certi personaggi sono presentati male, basta pensare a Maria di Magdala, una donna straordinaria che più avanti, in questo vangelo, vedremo come leader della comunità. Per un errore commesso in passato da un papa, è stata identificata con una prostituta che, con i capelli, asciuga i piedi a Gesù, è poi diventata la peccatrice redenta. Ugualmente è per Tommaso, definito l’incredulo e a proposito, ci sono espressioni proverbiali. In Giovanni è il discepolo più importante in assoluto, è nominato sette volte, cioè la totalità, la completezza ed in bocca a lui c’è l’espressione più alta di fede in Gesù, contenuta in tutto il vangelo. Pietro nel vangelo di Matteo e di Marco arriva a riconoscere Gesù, il Figlio di Dio, ma solo Tommaso in questo vangelo, si rivolge a Gesù chiamandolo mio Signore e mio Dio. Filippo non aveva compreso e dice mostraci il Padre e ci basta, Tommaso ha capito una grande verità, che non Gesù è uguale a Dio, ma Dio è uguale a Gesù; non c’è da cercare altro Dio all’infuori di quello che si vede in Gesù. Disse allora Tommaso chiamato Didimo, che significa gemello, era conosciuto come il gemello di Gesù, come colui che gli assomigliava di più tra i discepoli e questo è confermato in numerosi testi apocrifi.

Maria invece stava seduta in casa. L’incontro di Gesù con i suoi è sempre una confluenza di due movimenti. Maria non va incontro a Gesù, perché non lo sa, mentre Marta dunque come seppe che veniva Gesù. Però se anche lei lo vorrà incontrare, dovrà uscire dalla casa del lutto e dal villaggio, luogo del pianto e della tradizione. Giovanni ci anticipa la teologia comune degli evangelisti: non si può incontrare il vivo in un mondo di morti.

Io sono la risurrezione perché sono la vita; Marta diceva: risusciterà nell’ultimo giorno, Gesù dice: è presente. La resurrezione non è alla fine dei tempi, è presente perché Io sono qua. La presenza di Gesù comporta quella della resurrezione. Chi dà adesione a Gesù ha una vita, di una qualità tale, che è capace di superare la morte. La vita eterna per Gesù non sarà, ma è. Abbiamo visto che nel mondo ebraico si cominciava a credere nella vita eterna, nella resurrezione, ma sarebbe stata un premio per i giusti. Con Gesù la vita eterna non è il premio o una speranza nel futuro, ma una possibilità e una esperienza nel presente. Gesù non si presenta come uno che promette la vita eterna nel futuro, ma è lui la vita eterna e cerca di cambiare a Marta, il significato della morte e della resurrezione. Ecco due espressioni che modificano radicalmente il concetto della morte, della vita e della resurrezione: “Io sono la risurrezione perché sono la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; alla comunità che piange la morte di uno dei suoi componenti Gesù assicura: chi crede in me anche se muore, Lazzaro è morto, continua a vivere. Il discepolo vive perché ha dato adesione a Gesù, e quelli che gli danno adesione hanno il dono dello Spirito (credere significa avere lo Spirito di Dio) e non passano attraverso l’esperienza della morte, continuano a vivere. Quando Gesù dice: Io sono la resurrezione e la vita, non intende la vita biologica, bios, ma Zoe, la vita divina, una vita che ha un inizio con l’incontro con Gesù e quando bios muore, Zoe continua ad esistere.

 Chiunque vive e crede in me non morirà, è la novità portata da Gesù, che ha liberato la comunità non dalla paura della morte, ma dalla morte stessa e rassicura: chi vive e crede in me non morirà mai. Alla comunità che piange un morto dice: se questa persona ha creduto in me, anche se adesso è morta, sappiate che continua a vivere e voi che siete vivi e mi date adesione, non farete l’esperienza della morte. È il cambio di mentalità che Gesù vuole portare alla comunità cristiana. I primi cristiani lo avevano capito; non credevano che sarebbero resuscitati dopo la morte, ma che erano già resuscitati; avevano capito che Gesù non resuscita i morti, ma dona ai vivi una vita, di una qualità tale che continua per sempre.

E disse: Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. In Giovanni non appare mai il verbo pregare, ma per tre volte il verbo ringraziare, eucaristeo, da cui deriva eucaristia: c’è due volte nell’episodio della condivisione dei pani e poi nella resurrezione di Lazzaro. Nella condivisione dei pani Gesù aveva invitato i discepoli a farsi loro, pane per gli altri. Chi con Gesù e come Gesù fa della propria vita pane per gli altri, ha una vita di una qualità tale che è capace di superare la morte. Per questo il verbo ringraziare appare due volte nella condivisione dei pani e una volta nella resurrezione di Lazzaro. Lazzaro ha una vita capace di superare la morte perché ha fatto della sua vita un dono per gli altri, è il significato dell’eucaristia, l’impegno di orientare la propria vita per il bene degli altri. Nel momento che lo facciamo, Dio ci comunica un flusso ancora più forte della vita capace di superare la morte. Noi non ci accorgeremo di morire. Gesù non deve chiedere, deve ringraziare.

giovedì 23 marzo 2023

ASCOLTO LA TUA VOCE

 



Paolo Cugini


Es 32,7-14. È il brano del vitello d’oro. È una narrazione con un pesante antropomorfismo. Viene descritto un Dio davvero troppo umano, che si arrabbia e poi si pente. AL di là di questo, qual è il senso di questo brano? È la descrizione della fragilità spirituale dell’uomo e della donna. Non solo, ma viene descritto anche il mistero della tendenza ad attaccare il proprio cuore a qualcosa. Dio e il vitello son simboli di quella realtà spirituale che rivela la tendenza umana ad attaccare il cuore, la coscienza a qualcosa. L’uomo, la donna, non ce la fanno ad essere soli, a risolvere i problemi della vita senza ricorrere ad un’entità esterna. C’è una carenza spirituale che ha bisogno di essere colmata, placata. La religione ha questa funzione: placare la sete spirituale dell’umanità. Quello che Gesù propone non è una religione, ma un cammino di uscita dalle carenze per una vita piena e realizzata nell’amore.

E anche il Padre, che mi ha mandato, ha dato testimonianza di me. Ma voi non avete mai ascoltato la sua voce né avete mai visto il suo volto, e la sua parola non rimane in voi; infatti, non credete a colui che egli ha mandato (Gv 5, 37). Ascoltare la tua voce per rimanere in Te. Assiduità nell’ascolto del Vangelo per affinare l’orecchio all’ascolto, alla comprensione della Tua Parola per riconoscerti e seguirti. L’ascolto che proporziona la fede: è questo tipo di ascolto che devo trovare ogni giorno. Non, quindi, un ascolto fine a se stesso per mettere a posto la coscienza, ma un ascolto frutto e segno di una ricerca profonda di senso.

Trovando un filo diretto tra le due letture potremmo dire che, per evitare di creare idoli è necessario imparare ad ascoltare la voce del Signore.

 


mercoledì 22 marzo 2023

Il mistero della vita e della morte nel mondo medio-orientale antico e in culture limitrofe

 



 

1. Premessa

La morte e la resurrezione intese come un binomio inscindibile hanno un significato peculiare, anzi unico, nella fede cristiana. Trasporre il binomio nell’universo semantico-culturale e religioso dell’Antico Testamento, richiede qualche chiarificazione.  La morte e la resurrezione, pur avendo un significato unico per il credente cristiano, perché lega entrambe all’evento fondamentale che ha avuto Gesù Cristo come protagonista, fanno tuttavia riferimento, in un quadro più ampio, ai due poli entro i quali si svolge l’esistenza umana, la vita e la morte, e alla questione conseguente che si pone: c’è vita dopo la morte? Il porsi di fronte al mistero della vita è quindi un fenomeno o atteggiamento universale o universalmente umano, al quale le religioni danno ciascuna una propria risposta. Essa viene formulata secondo le categorie concettuali e le immagini proprie di ciascuna cultura, della quale diventano la cifra più profonda e più propria. L’uomo è un “animal symbolicum” per essenza, il che vuol dire che egli esprime l’ineffabilità del mistero della sua esistenza mediante una grammatica simbolica che gli permette di mediare ciò che è proprio della sua natura: una compresenza di corporeo e incorporeo, di visibile ed invisibile, di fisiologico e di psichico, di materia e spirito. Tale grammatica viene costruita dalla cultura caratteristica di una data società e, a sua volta, come in un circolo ermeneutico, essa ne plasma il sentire e il pensare.

La stessa fede cristiana, centrata sulla morte e resurrezione di Cristo, ha avuto bisogno al suo nascere di mediare l’ineffabilità del suo contenuto con l’immaginario della società giudaica del tempo, così che storicamente noi possiamo definire la connotazione culturale della fede cristiana come giudaico-cristiana.  A questo punto, la questione che c’interessa può essere posta in questi termini. Come ha compreso e vissuto il mondo ebraico prima di Cristo il mistero della vita e della morte? Ha creduto in una vita ultramondana? Inoltre, è stata sempre uguale la sua risposta o si è evoluta o trasformata nel tempo? A queste domande cercheremo di rispondere con questo contributo.

 

 Il mistero della vita e della morte nel mondo medio-orientale antico e in culture limitrofe

Non si può affrontare il nostro tema senza fare accenno alle idee di fondo che permeavano il contesto religioso dell’antico Medio Oriente, del quale Israele faceva parte. D’altra parte, da sempre gli studiosi sottolineano con maggiore o minor forza il debito culturale che Israele aveva con le altre società del tempo nel forgiare le proprie idee e il proprio credo religioso. Possiamo dire che, come dato generale, è da constatare la presenza di elementi comuni nella concezione che le società mediterranee avevano circa la vita e la morte e circa l’eventuale continuazione dell’esistenza nell’aldilà. Un primo elemento è la concretezza dei concetti di vita e di morte, legati entrambi all’esperienza immediata. La vita è nutrimento, benessere, tranquillità, longevità; la morte è il contrario di tutto ciò e la fine ineluttabile di un percorso che al confronto con essa viene visto come felice. Proprio la preziosità della vita fa sì che essa, come secondo elemento comune, sia appannaggio degli dei, i quali sono i detentori e i datori della vita stessa e, nel contempo, ne decretano la fine con la morte. Circa la continuazione dell’esistenza dopo la morte, si può affermare che generalmente l’oltretomba è un regno triste, oscuro, di non vita. Richiamando un topos letterario dell’antica Grecia, con la quale l’antico Medio Oriente ha sempre avuto un rapporto diretto, è ormai famosa l’affermazione che Achille fa davanti a Ulisse, quando questi visita l’Ade e nota che tra le ombre dei morti (tale è la consistenza della vita ultraterrena) l’eroe greco pareva troneggiare come il più autorevole: “Mi riconobbe l’anima del celere Eacide (Achille) / e piangendo mi rivolse alate parole: / «Divino figlio di Laerte, Odisseo pieno di astuzie, / temerario, quale impresa più audace penserai nella mente? // Come ardisti venire nell’Ade, dove i morti / privi di sensi dimorano, le ombre degli uomini estinti?». / Disse così ed io rispondendogli dissi: / «Achille, figlio di Peleo, tra gli Achei il più valoroso, / son venuto per sentire Tiresia, se un consiglio // mi dava…Nessuno / di te più beato, o Achille, in passato e in futuro: / prima infatti, da vivo, ti rendevamo onori di dei // noi Argivi, ed ora hai grande potere tra i morti / qui dimorando: non t’angusti, Achille, la morte». / Dissi così e subito rispondendomi disse: / «Non abbellirmi, illustre Odisseo, la morte! / Vorrei da bracciante servire un altro uomo, // un uomo senza podere che non ha molta roba; / piuttosto che dominare tra tutti i morti defunti…»” (Odissea XI, 471-491,). Un’atmosfera tetra pervade il mondo dell’oltretomba. Su di essa si proietta l’idea che della vita e della morte avevano quelle culture. Non tutte allo stesso modo però, come si vedrà considerando ciascuna di esse in dettaglio.

 

a) Egitto

L’ Egitto è la cultura che si offre come esempio originale di condivisione da un lato del modo di vedere comune sopra espresso, e dall’altro di differenziazione da esso in forza del peculiare culto dei morti e della concezione della vita dell’oltretomba che ha avuto. Anche per gli antichi egizi la morte, espressa con la radice mt (comune in questo con tutto il mondo semitico) è qualcosa di triste e di angoscioso, legato strettamente all’esperienza concreta della vita: “La morte viene, rapisce il bambino che è ancora in grembo a sua madre, così come l’uomo quando è diventato vecchio” (Anii V 2-4); “Non c’è un messaggero della morte che accetti regali” (Petosiris II 90). La durata della vita è nelle mani degli dei e la sua fine è qualcosa che si teme, tanto che la si esorcizza con eufemismi che hanno a che fare col sonno: “L’Occidente (il regno dei morti) è la terra del sonnecchiamento, una perenne oscurità, la dimora di coloro che sono là (i morti), dormire è la loro occupazione; essi non si risvegliano per vedere i loro fratelli” (Stele BM 157). Mentre si fa sentire fortemente questa visione malinconica della fine della vita e del suo perdurare nell’aldilà, contemporaneamente l’Egitto ha sviluppato tutta una serie di teologie sul mondo dell’oltretomba e sulla durata perenne di una vita di pace, di godimento e di gloria. All’inizio ciò era concesso solo ai faraoni e alla famiglia reale, ma via via lungo la sua storia la società egiziana ha coinvolto anche il resto della sua gente in tale destino di vita eterna. È interessante come s’immaginasse il processo che conduce dalla vita terrena a quella ultraterrena. Al momento della morte il ba (anima) lascia il corpo, dopo va a posarsi vicino al defunto allorché è nella tomba, mantiene il contatto con i vivi e ne accetta i sacrifici funerari (è insomma una specie di elemento mediatore). A sua volta, il ka (il “sosia”, la forza vitale del defunto) continua a vivere e assicura anche la vita ultraterrena del defunto; attraverso i riti funerari questi diventa un ach , cioè un “trasfigurato” e può vivere insieme agli dei. Quest’ordine d’idee va inquadrato nel concetto egiziano di ‘nkh = “vita”, raffigurato nel simbolo della croce ansata e che esprime una nomenclatura di significati tutti riconducibili a quello fontale di energia che appartiene innanzi tutto al mondo divino e che, come tale, si fa cibo e sostentamento di tutti gli esseri viventi (componente concreta del concetto), soprattutto del re, il faraone, il quale è contemporaneamente colui che riceve la vita e colui che l’amministra; tanto è vero che il faraone viene chiamato “copia vivente” degli dei. Per gli antichi egizi, la vita e la morte sono le due facce di una stessa realtà, l’esistenza. Questa verità è rispecchiata anche dal ciclo giornaliero del sole: il dio-sole Ra attraversa il cielo di giorno per morire, andando verso occidente, di notte e assumendo le sembianze del dio-mummia Osiris; indi, durante la notte, la dea del cielo Nut concepisce la nuova vita e la rinascita di Ra. Si può dire che per gli egizi la vita più piena, quella degli dei, nasce dalla morte; ma la stessa affermazione include il binomio morte-vita del faraone e di tutti coloro che via via verranno coinvolti in questo stesso processo di vivificazione. Significativo è questo inno al sole in favore del defunto re Pepi: “Parole da recitare: Tu ti svegli in pace, o purificato, in pace! / Tu ti svegli in pace, o Horo dell’est (il figlio di Osiris, equiparabile a Ra che rinasce), in pace! /  Tu ti svegli in pace, o ba  dell’est, in pace! / …/ Tu dormi nella tua barca della notte / e ti svegli nella barca del giorno, / giacché tu sei colui che guarda oltre gli dei, / (mentre) non c’è nessun dio che guardi oltre te. / O padre di Pepi, o Ra, prendi questo Pepi con te, per la vita, presso tua madre Nut. / Possano le porte del cielo essere aperte per questo Pepi, /…/ Quando questo Pepi viene a te, possa tu farlo vivere. / Ordina che questo Pepi possa sedere al tuo fianco, / a fianco di colui che s’immerge di mattina nell’orizzonte/…./ Egli vola, egli vola (via) da voi uomini come le anatre, / egli ritira le sue braccia da voi come un falco, /…/ Pepi ritira se stesso dai legami della terra, / Pepi si libera da uno stato negativo ” (Pyr. 1478-1483).

 

b) Mesopotamia

Il mondo mesopotamico aveva idee molto diverse circa la vita e la morte. Certamente condivideva con l’Egitto quell’idea triste e pessimistica pur ivi presente, ma è proprio attorno ad essa che ruotavano fondamentalmente il rapporto vita-morte e la visione dell’esistenza ultraterrena, senza dare spazio a qualsiasi lume di speranza. Nel poema di Gilgameš è scritto: “Quando gli dei crearono l’umanità, decisero per l’umanità la morte e trattennero la vita nelle proprie mani” (Gilg III, 3-5; X, vi 13-16). Nell’epopea di Atrakhasis si afferma che il motivo per cui gli dei hanno stabilito la morte per gli uomini è quello di limitarne la moltiplicazione, dato che il diluvio primordiale non ne aveva raggiunto l’annientamento. Anche gli assiro-babilonesi indicano la morte con metafore quali “addormentarsi”, “riposare”, ma quel che segue è spaventoso. Dal cadavere che si decompone esce un alito, un’ombra, uno spirito cattivo (etemmu; il morto veniva chiamato mîtu e la morte mûtu: ritorna la comune radice semitica) che può danneggiare coloro che sono ancora in vita. L’oltretomba o regno dei morti, chiamato “terra”, “il grande mondo sotterraneo” o Arallu, veniva immaginato come un luogo dell’orrore, un luogo di giudizio e senza ritorno. Nel mito di Nergal ed Ereškigal, la coppia divina degli dei signori degl’inferi, così viene descritto l’oltretomba verso cui viaggia Nergal: “(Egli va) verso il paese del non ritorno, / verso la casa delle tenebre, l’abitazione di Irkalla, / verso la casa da cui chi entra non esce più, / per un viaggio, la cui via è senza ritorno, / per la casa in cui gli abitanti sono privi di luce, / dove la polvere è il loro nutrimento, l’argilla il loro cibo, / essi sono vestiti come uccelli, ricoperti di piume, / non vedono la luce, brancolano nel buio, / dove regna terrore e lamento / piangono e gemono come colombe” (II 59-III 7). E la dea Ištar, finita negl’inferi, lamenta: “Con gli Anunnaki io bevo qui acqua; / invece di pane io mangio argilla, / invece di birra io bevo acqua putrida! / A me spetta piangere per i giovani / che hanno lasciato dietro di sé le loro spose, / piangere per le giovani strappate dal grembo dei loro mariti, / piangere per l’inerme bambino / che anzitempo è stato mandato qui!” (Discesa di Ištar agli inferi, rr. 33-36). Questi testi ed altri, come la stessa epopea di Gilgameš, trattano il problema della fine ineluttabile della vita umana e del tremendo mistero della morte, sviluppando di esso l’aspetto dolente e angoscioso. Non sembra esservi neanche il conforto di una componente etica che possa dare un senso alla morte come convocazione ad un giudizio ultraterreno. La concezione delle società mesopotamiche è determinata dal fato o dalla volontà arbitraria degli dei. Lo stesso problema del male, che con quest’ordine d’idee ha un rapporto stretto, risente di questo determinismo pessimistico. Certo non si possiedono attualmente tutti i testi della letteratura assiro-babilonese, ma quelli che abbiamo offrono soltanto quest’idea angosciosa della morte e dell’aldilà. Un elemento invece che per gli studiosi fa ancora problema è che gli stessi dei, almeno alcuni di essi, sono soggetti alla morte; talora per mescolare il loro sangue con l’argilla da cui verrà creato l’uomo, come nel mito del dio Kingu sconfitto dal dio Marduk, talaltra si tratta dell’uccisione di vecchi dei, la cui morte permette la nascita di dei più giovani. A questo contesto appartiene la figura del giovane dio Dumuzi / Tammmuz, divinità della vegetazione, che muore per poi risorgere, a somiglianza dei processi stagionali della natura. È una ferma convinzione, comunque, che la vita eterna è un privilegio che solo gli dei possiedono. Si tratta di una caratteristica di fondo che li fa anche dispensatori di vita e fa identificare spesso ciascuno di essi come muballit miti = “colui che rende vivo il morto”; ma sembra che il senso preciso della denominazione sia quello di guarire il malato: a questo tendono le preghiere perlopiù di valore esorcistico. Un ruolo particolare nel dispensare la vita lo gioca il re, così come si credeva anche in Egitto. Egli veniva ritenuto, ad es., “il signore che mantiene in vita Uruk, in quanto dona al suo popolo abbondanza d’acque” (CH II 37), oppure si diceva: “quando vidi il volto del re, ritornai in vita (cioè mi rianimai)” (ABL 880). Abbiamo comunque sempre a che fare con un concetto concreto, materiale o psicologico, di vita, inteso come sussistenza. In realtà, i miti assiro-babilonesi trattano spesso dell’impossibilità per l’uomo di vivere in eterno. Questo affermano l’epopea di Gilgameš e il mito di Adapa (in quest’ultimo, l’eroe rifiuta cibo e bevande vitali perdendo così la capacità di vivere per l’eternità).

 

c) Area semitico-occidentale: Ugarit (Ras Shamra)

Le popolazioni dell’area semitico-occidentale non presentano grandi varianti a quanto detto finora. Dall’antica Ugarit (odierna Ras Shamra) ci sono pervenuti dei poemi che toccano il tema della vita e della morte, anche se in chiave mitologica. Nel poema “Ba’al e la morte” (UT 67. 49+62 [I* AB.I AB]) si racconta dell’uccisione del dio della tempesta e della vitalità naturale, Ba’al, da parte della personificazione della morte, Mot (il nome vuol dire appunto “morte”)[i]. Siccome Ba’al ha a che fare con l’origine delle acque (nubi, pioggia), viene invitato da Mot, che langue per la sete, ad entrare nella sua gola; Ba’al, accettando l’invito si vota così alla morte, manifestantesi nell’aridità estiva dei campi. Sua sorella Anat, dolente, lo seppellisce, facendolo entrare nel sotterraneo regno dei morti. Ma Anat è una dea guerriera che non si accontenta di constatare la morte di Ba’al; ella vuole anche vendicare il fratello. Così, affronta Mot e lo fa a pezzi. Al momento opportuno, Ba’al torna in vita e tutta la natura rifiorisce. Come si può osservare, questo mito è simile a quello di Tammuz e rappresenta in personificazioni mitiche i processi stagionali che comunque hanno a che fare in certo qual modo con la morte e la risorgenza della vita; in altri termini, se il mito è una rappresentazione figurata dei processi stagionali, questi ultimi a loro volta diventano metafora del legame tra il fenomeno della vita e quello della morte. In quest’ordine di affermazioni dobbiamo inserire il poema pure ugaritico dei Refaim (UT 121.122.123-124 [I R.II R.III R]). Nei tre frammenti trovati a Ugarit si parla della convocazione a banchetto di questi personaggi misteriosi, i Refaim, i quali, da un attento esame anche di altri testi che li citano, sembrano consistere in qualcosa che sta tra le ombre dei trapassati ed eroi semidivini o sovrumani. Un’iscrizione bilingue in punico e in latino della Tripolitania del I sec. d.C. fa corrispondere al punico l’l[nm]  ‘r’p’m la traduzione D(is) M(anibus), cioè i Mani, gli dèi dei defunti. I Refaim ugaritici sembrano comportare anche una componente collegata con la guarigione, la fertilità e la sicurezza della discendenza umana. In ogni caso, gli studiosi hanno stabilito con sufficiente accordo che essi sono gli stessi di cui parla talvolta l’Antico Testamento (Is 26,14.19; Sal 88,11; Gb 26,5; Pro 2,18; 9,18). I Refaim sono un’interessante commistione mitica delle ombre del regno dei morti e di una parvenza di vita funzionale che tuttavia sussiste ancora nell’aldilà. A questo dato rimanda il culto dei defunti che sicuramente gli abitanti di Ugarit dovevano esercitare. Di solito, l’indagine esegetica veterotestamentaria attorno ai possibili influssi su Israele da parte della cultura circostante, tralascia due società con le quali esso ha pur tuttavia avuto delle relazioni molto strette e decisive per le svolte impresse, almeno dall’esterno, alle sue convinzioni religiose tradizionali: la società iranica e quella ellenistica. L’indagine, che pure c’è ed è copiosa, è lasciata a studi specialistici o settoriali, oppure, in riferimento all’ellenismo, se ne fa un campo di ricerca più prossimo al Nuovo Testamento che all’Antico.

 

d) Società iranica

La società iranica ha una lunghissima storia, quanto lunga è la storia delle popolazioni indo-iraniche[ii]. Esse hanno popolato quei territori che corrispondono più o meno a quello dell’odierno Iran, della Russia meridionale e dell’Afganistan, con propaggini verso l’Anatolia e contatti molto decisi col mondo greco, specialmente durante il regno della dinastia achemenide, di origine persiana, (VI-IV sec. a.C.), una delle tante coloriture etniche di cui si componeva la gamma delle genti iraniche. La politica di espansione dei re achemenidi ha fatto sentire la sua mano pesante sul mondo greco, che pure li ha vinti, da un lato, e sul mondo medio-orientale dall’altro. Israele, tra gli altri popoli, è stato lungamente soggetto al dominio persiano, come attesta la stessa letteratura dell’AT (1-2 Cronache, Esdra-Neemia, ecc.). Ora, la religione iranica ha qualcosa di originale e di solido che può essere presentato come un unico e nel contempo complesso processo storico distinguibile in tre tappe: 1) la religione prima di Zaratustra o Zoroastro, coincidente perlopiù con il mazdeismo; 2) la religione di Zaratustra, il profeta e maestro di una riforma radicale; 3) la religione dopo Zaratustra. In questa sede noi non possiamo interessarci della religione iranica, se non per quei punti che riguardano il tema che stiamo svolgendo. Al di là delle differenze, talora anche radicali tra una fase storica e l’altra, è indubitabile che vi sia un filone importante sempre presente in ciascuna di esse: la resurrezione dei morti e la vita ultraterrena. L’haoma iranico (in India soma) era nella fase pre-zoroastriana la bevanda liquorosa, tratta dalla pianta omonima, che nel sacrificio appunto dell’haoma, conferiva l’immortalità; il sacrificio era un rito di comunione. Circa il destino ultimo degli uomini, le gatha, antiche composizioni poetiche sacre, parlavano del “ponte” che le anime dei defunti debbono attraversare per dirigersi verso il luogo del giudizio e della separazione dei buoni dai cattivi. Il ponte, dice l’antico poema capitale Avesta, è custodito da due cani con “quattro occhi”. Tre giudici attendono le anime per giudicarle: Mitra, Sraoša e Rašnu (che hanno un parallelo, nella Grecia preellenica, in Minosse, Eaco e Radamanto). L’Avesta afferma che le anime buone vanno in paradiso (pardes = “paradiso, giardino” è una parola persiana), salendo tre scalini, corrispondenti alle stelle, alla lune e al sole, il gradino più alto. Interessante è in questa visione religiosa la presenza delle fravaši, che sono degli esseri che sotto certi aspetti richiamano i Refaim del mondo semitico, sotto altri rappresentano dei geni protettori. In ogni caso, essi presiedono a ogni manifestazione di vitalità (la crescita delle piante, la gravidanza) e accompagnano il defunto nel trapasso. Zaratustra (Duchesne-Guillemin pone la sua comparsa nei primi secoli del I millennio a.C.) ha con la sua riforma religiosa affinato molto l’antico sistema religioso, correggendolo e spiritualizzandolo. L’haoma non è più una bevanda inebriante, ma una bevanda mistica; inoltre, il dualismo radicale che caratterizzava le credenze a lui antecedenti, viene risolto in chiave monoteistica (anche se permane nella dottrina zoroastriana un dualismo di fondo), facendo di Ahura Mazda l’unico dio, attorno al quale ruotano entità divine inglobate per “filiazione” (lo Spirito santo, la Giustizia, il Buon Pensiero e l’Applicazione) o per appropriazione attributiva (Potere, Integrità e Immortalità), che lo aiutano a combattere le forze del male o lo Spirito distruttore. Circa il destino dei defunti, per Zaratustra esiste una sorte individuale e una collettiva. L’individuo che muore si vede venire incontro la sua daena, che è una parte di lui, sotto forma di fanciulla. L’anima passa il “ponte” e si avvia al giudizio che verrà eseguito sulle sue parole, azioni e pensieri; dopodiché, verrà smistata in un luogo buono se risulterà essere stata buona, cattivo se invece è stata cattiva. Il destino collettivo invece s’inquadra nell’aspettativa zoroastriana di un grandioso evento futuro, nel quale il fuoco (elemento fondamentale del culto zoroastriano) in una specie di ordalia farà nelle mani di Aša (= la Giustizia) da giustiziere nel distinguere i buoni dai cattivi. Nel mirare a quel momento di sapore escatologico e apocalittico, Zaratustra invoca da Ahura Mazda l’avvento di figure di “salvatori” che rinnoveranno il mondo, anzi lui stesso chiede di essere tra quei salvatori, il massimo dei quali è il Saoshyant (il salvatore supremo). La dottrina di Zaratustra contempla in definitiva una resurrezione dei morti, anche se l’idea si consoliderà solo con lo zoroastrismo successivo. La dottrina di Zaratustra divulgata dai suoi discepoli, in realtà, col tempo ha lasciato che s’infiltrassero elementi dell’antica religione iranica pagana. Da un lato hanno ripreso vigore varie divinità, prima messe in ombra o fatte convergere sotto il dominio superiore di Ahura Mazda, dall’altro si è accentuato il dualismo già insito nella religione iranica. Zaratustra, come si è detto, aveva cercato di risolvere il dualismo facendo di Ahura Mazda l’unico dio supremo e facendo slittare il dualismo sui due spiriti, lo Spirito santo (Spenta Mainyu) e lo Spirito dell’errore (Angra Mainyu); i successori di Zaratustra invece hanno riportato su Ahura Mazda il principio del bene e lo hanno contrapposto direttamente allo Spirito del male. Un’altra novità è stata l’evoluzione conferita al concetto di fravaši, che divengono ora gli spiriti dei giusti con una natura che ne fa degli esseri preesistenti che in seguito si uniscono agli uomini al momento della loro nascita. Si è consolidata intanto quell’idea di resurrezione dei morti già prospettata da Zaratustra nel quadro di un grande evento finale dominato dal fuoco del giudizio. Il rituale dello yasna sembra servisse soprattutto a procacciare l’immortalità ai defunti, ai quali era destinata l’offerta del darum (pane consacrato) e del ghee, nel quadro di una rievocazione della cosmogonia, che anticipava a sua volta l’escatologia generale.

 

e) Cultura greca, ellenismo

La seconda delle due culture che vanno esaminate con particolare attenzione quando si traccia una mappa d’influssi storico-religiosi su Israele, è l’ellenismo, cioè quel grandioso fenomeno socioculturale e religioso che ha avuto inizio a partire dalla diffusione della cultura greca voluta da Alessandro Magno (IV sec. a.C.). In realtà, essa, pur operando da elemento di trasformazione e di coagulazione di varie espressioni culturali, è stata a sua volta coinvolta in un processo di scambio e di autotrasformazione. Si è avuto così quell’evento storico straordinario che è stato appunto l’ellenismo. Esso ha creato un forte impatto sociopolitico, culturale e religioso su tutti i territori conquistati da Alessandro Magno, compresa la fascia siro-palestinese, e si è protratta per diversi secoli, fino all’era romana (IV sec. a.C. – III sec. d.C.). Diversi libri dell’AT hanno una relazione con l’ellenismo, sia per contrasto (1 e 2 Maccabei, parzialmente il Siracide) sia per condivisione (la Sapienza di Salomone). È necessario quindi dare per sommi capi quelle note dominanti che ci permettano di affrontare più tardi direttamente il tema di questo articolo. Vi è da dire innanzi tutto che l’ellenismo, inteso come la risultante di un incrocio e di una mescolanza di apporti culturali, contiene molti elementi sincretistici mutuati, tra l’altro, proprio dalla religione iranica, appena esaminata. È pur vero che l’avvento di Alessandro Magno e della sua politica aveva creato un oscuramento della religione iranica, che durerà parecchi secoli fino all’insediamento della dinastia sasanide (224-636 d.C.); del resto, la dinastia parta (quindi, iranica) degli Arsacidi (250 a.C. – 224 d.C.), pur tenendo testa e soppiantando il dominio ellenistico, era andata ellenizzandosi culturalmente sempre più. Tuttavia, nonostante questo, la cultura iranica non poteva veramente scomparire. Proprio la natura sincretistica dell’ellenismo ha reso possibile l’introduzione di elementi iranici nella miscela greca; anzi, si è arrivati al punto che qualsiasi trattato di astrologia, di magia o di alchimia, pur avendo molto poco di iranico, veniva posto sotto l’autorità di Zoroastro. Un monumento di Antioco di Commagene riporta una lista di dei iranici reinterpretati nelle corrispettive figure greche: Zeus Oromasdes; Apollo Mitra Elio Ermes (un’ unificazione d’immagini); Artagne Ercole Ares (idem). La stessa antica tribù iranica dei Magi, che durante l’impero achemenide aveva consolidato un proprio potere sacerdotale, col passare del tempo era stata ellenizzata nell’immaginario comune, come dimostra Dione Crisostomo nella sua Cosmogonia. Vi è da precisare però che la centralità era passata alla figura di Mitra, al quale è stata attribuito anche il significato di Salvatore di origine solare con una funzione escatologica; era in altri termini rimasta quella visione di un’era finale di giudizio, nella quale ai buoni sarebbe stata data con la resurrezione l’immortalità e ai cattivi l’annientamento nel fuoco che avrebbe fatto deflagrare l’universo. Ad ogni modo, non è quello iranico il solo elemento culturale e religioso che si miscelava nel calderone greco. Una larga parte veniva dalla religione egizia, in particolare quella sviluppatasi ad Alessandria, che metteva insieme antiche credenze (quelle più sopra esaminate) a nuove trasformazioni, quali la collocazione centrale della dea Iside, moglie del dio-mummia Osiride e madre di Horus di cui il faraone era l’incarnazione da vivo, e del dio Serapide. Un ruolo però non piccolo è stato giocato da un elemento proveniente dall’interno della stessa cultura greca: la religione dei misteri. Questa espressione religiosa, che ha nei misteri eleusini l’espressione più famosa e tra le più arcaiche dell’antica Grecia, sembra essere stata da sempre la mitizzazione e ritualizzazione di primordiali interpretazioni della realtà umana socio-politica e religiosa e di passioni umane convogliate e canalizzate nel quadro di un rito segreto d’iniziazione. Questa cultura dei “misteri”, nei quali vanno ricordati anche quelli orfici e dionisiaci, aveva una funzione interpretativa e ordinativa dell’esistenza in chiave soteriologica. Certo, la soteriologia dei secoli precedenti all’ellenismo era piuttosto immanente alla realtà terrena: si trattava soprattutto del raggiungimento di un’armonia socio-politica e morale e della propria continuità nella discendenza; del resto, i miti di Demofonte, di Ulisse o di Orfeo confermavano l’ineluttabilità della mortalità umana; tutt’al più nella vita ultraterrena gl’iniziati potevano contare su di un processo di “eroizzazione” che dava loro una qualche soddisfazione in più rispetto agli altri defunti. La vocazione alla soteriologia ha tuttavia sperimentato delle trasformazioni, allorché questa tradizione dei misteri si è incontrata con altre espressioni culturali, frammentandosi, mescolandosi e riemergendo con nuove aspirazioni. La domanda sul destino dell’anima dopo la morte si è fatta più decisa e più forte. Se l’anabíosis (= il ritorno alla vita) di Dioniso dopo la sua morte violenta è il mito di morte e resurrezione di un dio, per gli orfici e i pitagorici  la soteriologia consiste in un processo di ascesi e purificazione che prepara a migliori esistenze future (dottrina della metempsicosi). È in questo quadro storico-culturale e religioso che Israele ha vissuto la sua storia peculiare.

Gen 5: i patriarchi

Sal 16,12

Sal 37

Sal 41

Salmo 49,15-15

Qoelet

Sap

IL SIGNORE HA MISERICORDIA DEI SUOI POVERI

 



Paolo Cugini


Is 49, 8-15. Il brano esprime la percezione che il profeta Isaia ha su Dio, sul suo modo di comportarsi.

Ti ho formato e ti ho stabilito
come alleanza del popolo,
per far risorgere la terra,
per farti rioccupare l'eredità devastata,
per dire ai prigionieri: "Uscite",
e a quelli che sono nelle tenebre: "Venite fuori".


In che modo Dio entra nella storia degli uomini e delle donne? Immettendo in loro la speranza di un mondo migliore, la speranza di uscire dalle situazioni di schiavitù in cui ci si è venuti a trovare. Le situazioni di dramma e disperazione conducono l’uomo e la donna a gridare a Dio e a percepire una voce interiore che li conforta, li anima a non desistere, a continuare il cammino nonostante il presente duro e difficile.

Non avranno né fame né sete
e non li colpirà né l'arsura né il sole,
perché colui che ha misericordia di loro li guiderà,
li condurrà alle sorgenti d'acqua.

È questo che Isaia intuisce osservando la situazione di degrado e miseria del suo popolo e presentando questa situazione di degrado a Dio: la percezione interiore che c’è un progetto di vita dentro la storia, per tutti i poveri. La percezione che Dio sta preparando un mondo in cui c’è vita in abbondanza per tutti. È questa la fede che la speranza alimenta: non è illusione, ma fiducia che sgorga dall’anima in preghiera, che percepisce una voce, una presenza che rassicura e conforta. Isaia esprime molto bene questa sensazione interiore che, per certi aspetti, dà voce a Dio.

Giubilate, o cieli,
rallegrati, o terra,
gridate di gioia, o monti,
perché il Signore consola il suo popolo
e ha misericordia dei suoi poveri.

 

C’è un processo di trasformazione dentro la storia capace di trasformare la tristezza in gioia, la miseria in abbondanza, la disperazione in consolazione. Il profeta è colui che percepisce questa forza di trasformazione e la condivide con il popolo, per animarlo, per aiutarlo a continuare il cammino nonostante la durezza della vita presente, perché c’è vita nel futuro. Senza questa speranza la vita sarebbe invivibile. Senza la fede nel Dio di misericordia, tutto sarebbe vano, un inutile e doloroso cammino di disperazione. Questa è la spiritualità del tempo di quaresima che ci invita a guardare avanti, che immette nelle nostre menti quello che vede Dio attraverso le parole del profeta. C’è vita davanti a noi, vita che possiamo anticipare nel presente della storia.

mercoledì 15 marzo 2023

OMELIA DOMENICA 19 MARZO 2023

 



QUARTA DOMENICA DI QUARESIMA/A

(1 Sam 16, 1b.4a. 6-7. 10-13a; Sal 22; Ef 5, 8-14; Gv 9, 1-41)

 

Continua il cammino della quaresima. La liturgia dell’anno A, dopo averci mostrato il prototipo del cammino di discepolato presentandoci il dialogo tra Gesù e la Samaritana, oggi ci mostra i diversi modi di porci di fronte al Signore. Il brano di Giovanni 9, che narra l’incontro di Gesù con il cieco si presta a questo tipo di analisi. Vediamo.

E passando, vide un uomo cieco dalla nascita. Uscendo dal Tempio, Gesù incontra quelli che non possono accedere al Tempio. È la religione che con le sue regole, con la sua legge, separa gli uomini da Dio e man mano che andremo avanti nel vangelo, comprenderemo perché l’evangelista attribuisce il peccato del mondo all’istituzione religiosa. Sopra il mondo c’è una cappa di tenebre che impedisce alla luce del Signore di arrivare all’umanità. La tenebra si chiama istituzione religiosa, che è riuscita a convincere le persone che sono in peccato, che sono impure ed escluse da Dio. Per certe persone non c’è alcuna speranza, perché nella religione si insegna che l’uomo impuro deve purificarsi per essere degno di avvicinarsi al Signore. L’unico che può purificarlo è il Signore, ma se è impuro non si può avvicinare e allora non c’è speranza! L’istituzione religiosa è una cappa di tenebre che impedisce agli uomini di scorgere l’amore del Signore.

I suoi discepoli lo interrogarono: Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco? Erano talmente sicuri che la cecità fosse un castigo inviato da Dio, che il loro unico dubbio è se ha peccato lui o i suoi genitori. Quando tutto va bene, siamo d’accordo, di fronte a un momento nero c’è il rigurgito dell’uomo religioso e pensiamo: cosa ho fatto per meritarmi questo o il Signore non me lo doveva fare, perché non me lo meritavo. È l’idea dei castighi meritati. Rispose Gesù: Né lui ha peccato, né i suoi genitori. Esclude in maniera categorica che il male sia una conseguenza del peccato e dobbiamo convincerci. Le opere di Dio sono le opere della creazione. In questo individuo che non ha usufruito della luce della creazione, Gesù inaugura le opere di Dio (Gesù rimodellerà l’uomo, con lo sputo sul fango, a sua immagine e somiglianza). Nell’uomo ritenuto maledetto da Dio, peccatore dalla religione, emarginato dalla società (è un mendicante), si manifesta visibilmente l’opera del creatore.

Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, poiché era un mendicante, per la prima volta, nel corso della narrazione si dice che è un mendicante, non solo cieco dalla nascita, emarginato dalla religione che lo ritiene un maledetto da Dio, è anche emarginato dalla società, perché è un mendicante, e dicevano: Non è egli quello che stava seduto a mendicare? La domanda ci lascia perplessi. Perché non riescono a riconoscerlo? Era cieco e adesso vede (non è che era monco e gli è spuntato un arto), ma come mai i vicini che lo conoscevano non lo riconoscono? Attraverso queste espressioni l’evangelista vuole indicare l’assoluta novità, visto che non c’era mai stato nell’Antico Testamento un caso di una guarigione di un cieco dalla nascita. Quando una persona ritrova libertà, dignità, grazie all’incontro con Gesù, diventa una persona nuova pur restando la stessa.

Allora gli dicevano: Come, dunque, ti si aprirono gli occhi? Entrano in scena i farisei, la cui incomprensione del mistero della presenza di Gesù occupa la parte centrale del brano. In tutta la narrazione non c’è alcuna espressione di gioia e di allegria per la guarigione dell’individuo, la loro preoccupazione è come ti sono aperti gli occhi. L’espressione aprire gli occhi verrà ripetuta per ben sette volte; il numero sette richiama sia i giorni della creazione, e nell’attività di Gesù si vede la continuazione dell’azione creatrice di Dio, sia la completezza. Questo allarma le autorità, perché Isaia diceva che tra le azioni che il Messia avrebbe compiuto, c’era quella di aprire gli occhi ai ciechi. Non significa restituire la vista ai non vedenti, ma liberare le persone dall’oppressione politica e religiosa.

Altri dicevano: Ma, come può un uomo peccatore compiere tal segno? E c’era dissenso (l’evangelista dice scisma) tra di loro. In qualche fariseo è incrinata l’ostentata sicurezza di quelli che ragionano con in mano il codice di diritto, come può essere peccatore uno che compie tali segni? L’azione di Gesù che comunica vita, luce, al cieco nato, mette in crisi il gruppo dei farisei e l’evangelista mette le basi della tensione sempre esistente nella comunità cristiana. Ci sarà sempre tensione tra chi guarda alla legge di Dio e chi guarda il bene dell’uomo. Ma i Giudei non credettero: i farisei scompaiono ed entrano in campo i Giudei, i capi religiosi e civili di lui che era stato cieco, La denuncia dell’evangelista è tremenda: le autorità religiose per difendere la loro teologia negano l’evidenza e difendono il proprio prestigio e se stessi. Per salvaguardare il proprio interesse sono pronte a tutto, anche al crimine. Il fatto è evidente: il cieco adesso vede, ma poiché questo mette in crisi la loro teologia, che non può essere negata, negano il fatto evidente.

Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei. È la prova che il termine Giudei non indica gli appartenenti al popolo, ma i capi; anche i genitori del cieco sono giudei, eppure hanno paura dei Giudei. Infatti, i Giudei si erano già accordati, che se uno l’avesse riconosciuto come Messia, venisse espulso dalla sinagoga. I capi del popolo, sommi sacerdoti, scribi, che dovevano presentare al popolo la volontà di Dio e che in teoria, nella preghiera, pregavano per l’arrivo del Messia, avevano il terrore del suo arrivo e avevano già stabilito che se qualcuno riconosceva Gesù, Messia, doveva essere espulso dalla sinagoga.

Una cosa so: ero cieco e adesso ci vedo. La forza dell’esperienza personale, della verità che passa attraverso la realtà: è inconfutabile. È questo che lascia i capi religiosi infuriati. Quando esiste un conflitto tra una verità rivelata, tra la dottrina, tra la teologia, la propria esperienza e la propria coscienza hanno il primato. La storia purtroppo ci ha insegnato che spesso le persone hanno sacrificato la propria vita e affettività e sessualità perché c’era una religione che diceva: voi siete in peccato.

E lo cacciarono fuori. Lo scomunicano, come hanno fatto con Gesù, quando è uscito dal Tempio. I responsabili della cecità dell’uomo scaricano la colpa su di lui. L’uomo dovrebbe ritornare ad essere cieco per dare ragione ad essi ed essere a posto con Dio. Il loro crimine è che l’uomo per non vivere in peccato, dovrebbe rinunciare alla vita.  Gesù udendo le autorità: non ascoltano il popolo, non hanno nulla da imparare, Gesù ascolta che lo avevano cacciato fuori, fu a cercarlo. Gesù non lo lascia in balia degli avvenimenti, una volta che ha iniziato il suo lavoro, gli va incontro in una comunicazione incessante e crescente di vita.

E gli disse: Tu credi nel Figlio dell’uomo? ritorna il titolo più applicato da Gesù a se stesso ed è, per la mia esperienza, il meno conosciuto nelle comunità cristiane. La gente sa cosa vuol dire Gesù Cristo, il salvatore, il redentore e conosce gli altri titoli, ma è ignorante per il Figlio dell’uomo, che è per noi il più importante. Perché conosciamo meno questo titolo, il più presente nei vangeli e che Gesù applica sempre a se stesso? Cos’è il Figlio dell’uomo? È l’uomo che, avendo raggiunto il massimo della sua umanità, entra nella condizione divina, non è un’esclusiva di Gesù, è una possibilità per tutti i credenti. È un uomo pienamente libero, che non ha nessuno al di sopra di sé, neanche Dio, perché è lui Dio.

 Egli rispose: Chi è, Signore, perché io creda in lui? Gesù gli disse: Tu lo hai visto: non dice: tu lo vedi. Aveva detto prima detto: credi nel Figlio dell’uomo, in me come pienezza di vita? e alla domanda del cieco: chi è? avrebbe dovuto dire: tu lo vedi, invece è: Tu lo hai visto, rimandando all’esperienza passata, quando gli aveva messo il fango sugli occhi e alla gente che non lo riconosceva, aveva risposto: Io sono, cioè l’uomo con la condizione divina. È l’uomo modellato a immagine e somiglianza di Dio, come si è riflessa in Gesù. L’uomo ha già visto la condizione dell’uomo-Dio in Gesù. colui che parla con te è proprio lui.

 Ed egli disse: Credo Signore! E lo adorò. L’ex cieco non scopre qualcosa di nuovo, è capace di dare il nome a quello che aveva sperimentato. Il cieco gli dice: Credo, Signore! E lo adorò. Nell’episodio della samaritana Gesù aveva detto che il Padre cercava tali adoratori: l’uomo espulso dal Tempio, dove si riteneva esserci la presenza divina, non la perde, ma incontra quella vera. L’unico vero santuario, in cui si manifesta la potenza dell’amore di Dio, è Gesù e quanti gli danno adesione.

lunedì 13 marzo 2023

IL BUON PASTORE

 




RITIRO SPIIRTUALE DI QUARESIMA CLERO DI REGGIO EMILIA

LUNEDI 13 MARZO 2023

 

VANGELO DI GIOVANNI CAPITOLO 10

 

Predicatore: Mons. Giacomo Morandi

Sintesi: Paolo Cugini

 

 

Testo inserito nel contesto della festa delle Capanne. Il discorso del buon pastore rappresenta il culmine della iniziata nel capitolo 7.

È un discorso, quello del capitolo 10, che sembra non essere compreso. Si dice al versetto 16: essi non capivano di quello che parlava loro. Non si tratta né di una parabola, né un’allegoria: è una similitudine. È un discorso criptato. Il recinto di cui si parla è il recinto del tempio di Gerusalemme, ma non di un ovile. Siamo in un contesto religioso e non bucolico. Nel capitolo 9 qualcuno viene respinto dal recinto: il cieco nato. Se questo è il contesto Gesù sta dicendo che egli è entrato nel recinto apertamente, dalla porta. Ciò significa che Gesù sta ricordando ai suoi contemporanei che il suo ministero è stato aperto. Nel Vangelo di Giovanni Gesù insegna solo nei luoghi deputati all’insegnamento: Sinagoga e Tempio. Il popolo può testimoniare quello che egli ha detto, perché ha parlato apertamente, con parresia.

C’è un modo di parlare al popolo di Dio non con parresia, perché si entra con inganno. Cfr. 1 Ts 2: Paolo sta facendo memoria del suo ministero in mezzo ai Ts. Voi sapete com’è stato il mio ministero in mezzo a voi. Mai abbiamo usato parole di adulazione. La prima indicazione importante è l’accesso al popolo di Dio: attraverso la porta. Diventa importante capire come ci presentiamo al popolo di Dio: deve passare attraverso la porta. Quello che c’interessa è il bene delle pecore a cui siamo stati inviati e che appartengono al Pastore. Il sottofondo di questo discorso è Ez 34: annuncio del pastore che avrà cura delle sue pecore. È un testo che ricorda gli eventi dell’Esodo.

Che cosa caratterizza il pastore? È colui che chiama le sue pecore ciascuna per nome. L’enfasi è sulla chiamata per nome. Non a caso nel  capitolo successivo c’è la chiamata di Lazzaro e poi la chiamata di Maddalena, quando Gesù chiama Maria.

Cammina davanti ad esse. Allusione alla nube dell’Esodo. L’aspetto importante è che il pastore cammina davanti. Cfr. Mc 10,32: Gesù camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti. Cfr. Lc 14: Una folla numerosa andava con lui, Gesù si voltò e disse: se uno viene dietro di me e … non può essere mio discepolo. Gesù dice parole impegnative e cammina davanti, precede le pecore. Perché? Dove porta le pecore? Le porta a Gerusalemme. L’unico modo per condurre le pecore, che implica l’immersione del pastore in mezzo alle pecore: sta in mezzo e sta davanti. Diventare un modello e non un legislatore. Il camminare davanti non ha niente di superbo, ma significa dare l’esempio. Bisogna parlare con la vita.

v.9: la porta è Gesù. Chi passa attraverso Gesù sarà salvato e troverà pascolo.

Il pastore è colui che è consapevole di non essere il mediatore e il suo ministero non oscura l’unica mediazione di Cristo. Possiamo dire che il nostro ministero è un’indicazione che la porta a cui bisogna passare è l’incontro con Cristo.

Seconda parte della similitudine. Il buon Pastore offre la vita per le pecore.  Questa espressione l’ha coniata Giovanni. Il buon pastore depone, offre la sua vita. L’idea è che Gesù con libertà assoluta ha letteralmente deposto, donato la sua vita solo per il bene delle pecore. Uper: non al posto, ma per il bene. È l’opposto del mercenario a cui le pecore non appartengono. Questo è simultaneamente la sinergia tra la libertà e l’obbedienza. Il paradosso: solo chi è libero può obbedire. È l’esperienza dell’Esodo.

Il pastore ci informa che ci sono altre pecore (v.16). E’ uno dei pochi versetti in cui abbiamo una prospettiva universale. C’è la prospettiva missionaria. Il pastore è animato da una prospettiva inclusiva, che vuole raggiungere tutti. Si tratta di riscoprire una sana inquietudine, il desiderio di raggiungere le pecore che sono disperse. Mi sono fatto tutto a tutti pur di guadagnare ad ogni costo qualcuno (1 Cor 9).  Mt 28: anche se dubitiamo bisogna andare.

Domandiamoci:

·         qual è la nostra passione per la quale abbiamo accolto l’invito a diventare pastori nella sica dell’unico pastore?

·         Siamo liberi?

·         Abbiamo l’ansia missionaria?

 

 

sabato 11 marzo 2023

OMELIA STAZIONE QUARESIMALE ZONALE

 



VENERDI 10 MARZO 2023 – DODICI MORELLI

Paolo Cugini

 

Il tempo di quaresima è un cammino verso la luce manifestata dalla resurrezione di Cristo, verso la vita nuova che si manifesta nella Pasqua. Questa luce desidera trovare spazio dentro di noi per permettere allo Spirito Santo di formare in noi i tratti dell’umanità di Gesù. Interessante è il cammino che la letture ci hanno proposto durante questa seconda settimana di quaresima. Ogni giorno le letture ci hanno presentato una caratteristica dell’umanità di Gesù che la luce di Pasqua dovrebbe formare in noi: misericordia, umiltà, servizio, povertà evangelica: proprio un bell’itinerario! Oggi, le letture ci pongono dinanzi ad una delle modalità che caratterizzano lo stile di Dio quando entra nella storia degli uomini e delle donne. Vediamo di cosa si tratta.

“La pietra che i costruttori hanno scartato
è diventata la pietra d’angolo;
questo è stato fatto dal Signore
ed è una meraviglia ai nostri occhi
(Sal 118,22).

Questo brano del salmo 118 è citato da Gesù nel Vangelo di oggi e rivela una della caratteristiche che Dio utilizza per realizzare le sue opere: si serve delle pietre di scarto. Gesù è senza dubbio la pietra di scarto, che gli ebrei hanno scartato e che il Padre ha, per così dire, utilizzato per costruire. Questa modalità non è presente solo in Gesù, ma la troviamo in altre situazioni della storia della salvezza. La prima lettura, infatti, ci ha mostrato l’esempio di Giuseppe, figlio di Giacobbe che viene venduto come schiavo dai suoi fratelli per divenire la personalità più importante dell’Egitto dopo il re. Lo stesso stile lo si legge nella storia del re Davide, il più piccolo dei fratelli e proprio lui scelto per divenire il re d’Israele. Anche nella storia di Ester troviamo un percorso simile. Da piccola fanciulla del popolo d’Israele messo al bando dal re Assuero ne diviene la sua sposa e regina. Che dire poi di Rab la prostituta, che diviene colei che permette al popolo d’Israele di salvarsi, perché aiutò, a rischio della sua vita e di quella della sua famiglia, due spie israelite dando loro alloggio nella sua casa ed assistendole fino alla loro fuga. Successivamente, secondo il Vangelo di Matteo, sposò Salmon, diventando antenata di Davide, o Giosuè stesso, secondo alcune fonti rabbiniche. Altre figure bibliche confermano questo particolare modo di agire di Dio. A noi spetta interrogarci sul senso di una tale scelta: perché Dio utilizza le pietre di scarto per costruire il suo regno?

La stessa vita di Gesù può essere letta nel segno dello scarto. Dalla nascita alla morte è sempre stato scartato. È dovuto nascere in una mangiatoia perché non c’era posto per la sua famiglia nelle case della città (Lc 2,7). Nel primo atto pubblico narrato nel vangelo di Luca, viene buttato fuori dalla sinagoga con l’intenzione di gettarlo giù dal precipizio del monte (Lc 4, 29). Nel vangelo di Marco, dopo uno dei primi miracoli realizzato nel giorno di sabato, i farisei, assieme agli erodiani, decidono di farlo morire (Mc 3,6). Tutta la vita di Gesù è avvolta nel mistero del rifiuto che il mondo esercita nei suoi confronti. Un mistero che, a dire il vero, era stato annunciato dai profeti (cfr. Is 53), ma che quando si realizza negli eventi della storia, lascia sbigottiti. Lo stesso Gesù, comunque, nella pagina di Matteo in cui parla del giudizio finale (Mt 25,32s), non s’identifica con i potenti della terra, con coloro che hanno ricchezze, fama, ma con i poveri, i carcerati, gli affamati, gli assettati, in altre parole: gli scartati, gli esclusi. Lo Spirito Santo che riceviamo nei sacramenti o quando lo invochiamo, è lo Spirito dello scartato, dell’escluso: chi lo accoglie partecipa anche lui, insieme a Gesù, a questa esclusione.

È importante seguire questo filone di riflessione per capire dove cercare la presenza del risorto nella nostra vita quotidiana. Senza dubbio, non si trova nei palazzi dei re, non si trova, cioè, dove siamo soliti cercarlo, dove l’abitudine, forgiata dalla cultura dominante, ci induce a cercarlo. È più facile trovarlo rovistando tra gli scartati della storia, tra quelle categorie di persone che la storia sistematicamente mette alla porta. C’è stata l’epoca in cui gli scartati erano i portatori di handicap, e poi i lebbrosi che venivano relegati in luoghi fuori dalla città. Gli schiavi, una presenza strana che incontriamo in molte epoche e in diverse zone geografiche, erano considerati persone di seconda categoria. All’epoca della colonizzazione delle Americhe da parte dei paesi europei, gli scartati sono stati prima gli africani, strappati dalle loro terre di origine per essere trapiantati sul suolo africano esclusivamente per servizi di schiavitù; e poi gli indios, per i quali è dovuto intervenire il Papa con un documento ufficiale, per dimostrare che anch’essi avevano un’anima e interrompere, in questo modo, la carneficina messa in atto da parte di spagnoli e portoghesi.  Affamati, sbandati, ubriaconi, persone senza dimora: in tutte le epoche sono stati considerati degli scarti.

Oggi, a mio modo di vedere, le pietre scartate dalla società sono gli stranieri che arrivano con i barconi e, soprattutto, gli omosessuali, le lesbiche, i transessuali. Sono loro gli esclusi, non solo dalla società, ma anche da quella entità che dell’accoglienza dovrebbe fare il suo marchio di riconoscimento: la Chiesa. Se vogliamo incontrare il risorto è da loro che dobbiamo andare, da loro che portano sulla pelle i segni dell’esclusione, della marginalizzazione, dello scarto.


mercoledì 8 marzo 2023

OMELIA DOMENICA 12 MARZO 2023

 



III DOMENICA QUARESIMA /A

Paolo Cugini

 

Siamo alla terza tappa del tempo di quaresima dell’anno A, un itinerario che dovrebbe aiutarci a riscoprire il senso del nostro battesimo. C’è un’acqua che cerchiamo e che non ci disseta mai, perché ne abbiamo sempre bisogno. C’è un senso della vita che non troviamo e che ci lascia sofferenti interiormente. È possibile che non esista un’acqua capace di dissetare in modo definitivo la nostra sete di giustizia, il nostro bisogno di amore, il nostro desiderio di pace? Il Vangelo di oggi cerca di rispondere a queste importanti domande. Due considerazioni mi sembrano importanti da fare sulla narrazione di oggi. La prima è sull’incontro al pozzo di Giacobbe tra Gesù e la Samaritana. L’altra considerazione e su quello che Gesù dice a riguardo dell’adorazione al Padre.

Gesù, dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Bellissima indicazione esistenziale su Gesù, il suo modo di annunciare il Regno di Dio. Lo fa camminando per le strade, lasciandosi incontrare dalle persone. È un’attività che stanca, ma anche questa stanchezza fa parte dell’annuncio del Vangelo, che è un’attività umana, inserita nella vita quotidiana della gente. Gesù qui lo si vede come uno di noi e va pensato così prima di tutto, come uno di noi, perché in questo modo Gesù ci insegna che il primo passo dell’annuncio è il mettersi in sintonia con color ai quali ci vogliamo dirigere e che il contenuto del messaggio che s’intende annunciare, lo esige. Non si tratta, allora, di un annuncio dalla cattedra, dall’alto al basso, roba da specialisti, di gente che ne sa più di altri. Il messaggio che Gesù porta è intriso di vita, di quotidianità, perché offre delle chiavi di lettura al nostro vissuto, ci indica come vivere meglio. Gesù si fa assetato per agganciare la donna Samaritana. È l’aggancio il punto di partenza di ogni evangelizzazione inculturata. Aggancio che dice di una conoscenza dell’altro, un’attenzione che rivela lo svuotamento del proprio io che si mette in cammino per incontrare la povertà dell’umanità sofferente e tentare di offrire chiavi di lettura, contenuti.

Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: "Dammi da bere!". È il senso di ogni cammino spirituale ed esistenziale: conoscere. Prima o poi occorre fermarsi ad un pozzo della vita e interrogarsi sul senso del cammino. È solo in questo modo che abbiamo la possibilità di trovare il bando della matassa della nostra esistenza e, possibilmente, incontrare il Signore presente nella storia in mezzo a noi.

In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Vale la pena soffermarsi su questo versetto perché dice molto di più delle parole. Esprime, infatti il retaggio di una cultura, di un modo di pensare, che vede la donna inferiore all’uomo. Si tratta della mentalità patriarcale che era dominante al tempo di Gesù e che lo è anche oggi. Lo stupore dei discepoli rivela un elemento della tradizione culturale ormai consolidato. Gesù seduto al pozzo di Giacobbe con la donna Samaritana sfida la validità di questa cultura e la smonta dal di dentro rivelando, allo stesso tempo, che non appartiene all’orizzonte della volontà del Padre. L’inferiorità non è dunque un elemento della diversità della donna dall’uomo, ma ne è un derivato culturale negativo che dev’essere evangelizzato. Gesù lo fa con dei gesti, più che con dei discorsi o delle teorie. Si potrebbe affermare per concludere la prima parte della riflessione: solamente nel vissuto quotidiano riusciamo a cogliere la realtà che ci permette d’incontrare il Signore che ci aiuta a smascherare le falsità prodotte dalla cultura degli uomini.

Ma viene l'ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così, infatti, il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». Questi versetti costituiscono un passaggio centrale non solo per il vangelo di Giovanni, ma anche per il cammino quaresimale che stiamo realizzando. La domanda sottesa, o meglio, che la liturgia di quaresima lascia sottesa all’inizio della terza settimana, è la seguente: da che cosa dobbiamo convertirci? Che cosa dovrebbe cambiare nel nostro cammino di fede in questa quaresima? La risposta la troviamo in questi versetti. Gesù, infatti, nel dialogo con la Samaritana, rivela che la sua presenza nella storia è per aiutarci a passare da una religione del tempio ad una fede nello Spirito del Signore. In altre parole, Gesù ci chiede di trasformare la nostra mentalità religiosa simbolizzata dalla visibilità del tempio posto su di un monte, per un rapporto con il Padre più interiorizzato e, per questo, più libero. La logica del tempio vede nella Legge e nell’apparato sacerdotale una manifestazione del bisogno dell’uomo di controllare ogni aspetto della vita, compreso Dio e, di conseguenza, la religione del tempio sarebbe il simbolo di questo modo esteriore e materiale di vivere il rapporto con Dio. La religione schiavizza l’uomo e, soprattutto, non gli permette di cogliere l’essenza di Dio, in quanto filtrata da un reticolo di leggi umane, che ne controllano i movimenti, le azioni, i comportamenti. Al contrario, la fede nello Spirito del Signore, che rivela la verità, che è Gesù Cristo, libera l’uomo dalle paure e dall’angoscia, aiutandolo ad esprimere nella storia la ricchezza della propria originale dignità. Abbandonare la religione del tempio per accogliere lo Spirito del Signore è il vero obiettivo di ogni quaresima e, quindi, anche di questa.