ESERCIZI SPIIRUTALI - GALEAZZA 2022
Sabato 3 settembre, ore 9
È dato per voi. La dimensione
comunitaria dell’eucarestia
L’idea
della messa come precetto che cosa ci mette in testa? Che cosa ha provocato
nella vita spirituale? Ha prodotto la separazione tra rito e comunità, vale a
dire, la partecipazione al rito eucaristico come dato indipendente alla vita di
comunità. Questa separazione è visibile nella pratica comune dei fedeli
praticanti e devoti di “andare a prendere la messa” dove c’è. La “perdo” nella
mia comunità, oppure non ho avuto tempo a “prenderla” nell’orario in cui c’è
nella mia comunità, la vado a prendere nell’altra. Oppure, lo si nota bene nel
modo in cui i fedeli stanno nei banchi. Spesso i primi banchi della chiesa
durante la messa sono vuoti; un vuoto che esprime, a mio avviso, non tanto
l’umiltà dei fedeli, come spesso dicono quando sono sollecitati, ma il modo
individualista di partecipare all’eucarestia domenicale.
Questo
modo di vivere la messa domenicale come atto del singolo fedele per guadagnarsi
il paradiso, è il retaggio dell’impostazione che nella chiesa ha preso piede a
partire dal X secolo circa, nel passaggio dall’epoca d’oro dei Padri della
Chiesa al lungo periodo in cui il cammino della comunità perde l’aggancio alle
fonti. Questa perdita ha avuto diverse conseguenze. La più significativa è la
perdita della dimensione comunitaria della liturgia a favore di una visione
individualista. L’attenzione della liturgia non è più rivolta alla comunione
dei fratelli e delle sorelle, tema centrale nelle prime comunità cristiane,
come ci testimoniano i testi di paolo (1 Cor 11) e i testi della Didachè, di Giustino,
Tertulliano assieme a tante altre testimonianze, ma alla dimensione
individuale. Ad un certo punto del cammino la vita della comunità perde di
valore e cresce il significato dell’eucarestia per la salvezza individuale. Questa
impostazione viene rafforzata dall’altra tendenza che prende piede nella
comunità cristiana e che manifesta quella che potremmo chiamare la svolta individualista
del cammino della fede nella prospettiva liturgica che è il fenomeno religioso
chiamato devozionismo. Spariscono i dati biblici nel cammino della comunità,
vengono sostituiti con la devozione ai santi e con le preghiere devozionali,
nelle quali il riferimento alla comunità è assente. Questo stile di preghiera
trova un fortissimo alleata nella cultura moderna, che a partire da Cartesio,
pone al centro della vita sociale le capacità del soggetto. Il cogito
cartesiano, che trovava già significativi riscontri nell’umanesimo del ‘400,
incentiva, sul piano religioso, lo sforzo soggettivo di guadagnare il paradiso,
che smette di essere un dono del cielo, ma una conquista degli uomini e delle
donne virtuose. Fioretti, penitenze, veglie diventano gli strumenti di tutti
coloro che vogliono guadagnarsi il paradiso. Anche la messa non rimane immune a
questo passaggio culturale. La celebrazione eucaristica, a partire dal Concilio
di Trento, diventa sempre di più un affare del prete che celebra, che parla la
lingua degli angeli – il latino – e compie gesti che permettono la transustanziane
del pane in corpo di Cristo. I fedeli laici, in questo contesto liturgico, sono
lasciati a loro stessi, a recitare le loro preghiere devozionali singolarmente
sottovoce mentre il prete compie in solitudine, dialogando con il chierichetto
in latino, i suoi riti che appaiono sempre di più qualcosa di magico, fuori
dalla realtà. Secoli di questa impostazione hanno distrutto alla radice il significato
profondo di quello che Gesù ha consegnato ai suoi discepoli e che la comunità
cristiana delle origini ha coltivato.
Da
questi semplici dati si percepisce lo scarso investimento nella vita di
comunità da parte dei fedeli. La parrocchia serve nella misura in cui fornisce quelle
liturgie – messe, battesimi, matrimoni e funerali – che sono funzionali al
vissuto religioso del singolo. Chi ci sia ai riti, chi vi partecipi è un dato
ritenuto secondario e poco importante, anche perché, a parte il circolo magico
di coloro che vivono la comunità, ai più non interessa. Possiamo domandarci:
quando Gesù ha istituito l’eucarestia, che cosa intendeva? Aveva in mente una
pratica devozionale e precettistica? Oppure si tratta di qualcosa d’altro?
Prendendo
una delle narrazioni dell’ultima cena, ad esempio la redazione di Luca 22, si
coglie immediatamente l’aspetto comunitario non improvvisato, ma voluto,
preparato. Gesù mandò Pietro e Giovanni dicendo: «Andate a preparare per
noi, perché possiamo mangiare la Pasqua». (Lc 22,8). Gesù
manda due discepoli, Pietro e Giovanni a preparare la cena. Preparare vuole
dire avere cura, pensare a qualcuno che si vuole bene. Il testo sottolinea:
andate a preparare per noi. Chi sono questi: noi? Sono chiaramente i discepoli.
Secondo me in mezzo ci sono anche le discepole, quelle donne che, proprio il
Vangelo di Luca (8,1-3) cita tra coloro che seguivano il Signore. L’ultima cena
avviene, dunque, in un contesto comunitario, in un gruppo di amici e amiche, di
persone che si conoscono e si vogliono bene. Gesù era già stato a pranzo o a
cena a casa di qualcuno. Ebbene, l’ultima cena, l’ultimo pasto, da cui la
chiesa ha fatto scaturire il rito della messa, nasce in un contesto comunitario
ed ha quindi un significato comunitario. Possiamo dire che il contesto
dell’ultima cena è d’intimità, di relazioni amicali. Gesù arriva all’ultima
cena dopo aver vissuto intensamente gli ultimi tre anni della sua vita con i
suoi amici e amiche. L’eucarestia nasce in un contesto amicale, di relazioni
amicali e trova il suo significato proprio all’interno di un gruppo di amici e
di amiche. È questo che dovrebbe essere la comunità cristiana: un gruppo di
amici e amiche. In questa prospettiva l’eucarestia domenicale diviene il
momento centrale di coloro che si stanno conoscendo e riconoscendo nel Signore,
nella sua proposta di vita nuova, di realizzazione del Regno dei cieli che, per
certi aspetti, l’eucarestia anticipa. Tutta la simbologia del pane e del vino,
che costruisce il centro del messaggio dell’ultima cena, “è dato per voi”, cioè
è rivolto ai discepoli.
La
prima comunità cristiana interpreta le parole di Gesù come uno stimolo alla
vita fraterna, alla vita comunitaria. Vediamo alcuni testi. Nella prima lettera
ai Corinzi al capitolo 10 Paolo scrive: Parlo come a persone intelligenti;
giudicate voi stessi quello che dico: il calice della benedizione che noi
benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi
spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un
solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti
partecipiamo dell’unico pane (1 Cor 10,16-17). Pur essendo molti
siamo un corpo solo. È la comunità unita che manifesta la presenza di Gesù
nella storia. La comunità cristiana ha una grande missione nel mondo: rende
visibile il Signore risorto e lo fa quando vive unita. Si vede molto bene come
la primissima comunità viva l’eucarestia non in una prospettiva individualista,
che stimola il merito, per cui vado alla mia messa e così sono a posto davanti
a Dio – è l’eucarestia devozionale-, ma nella sua più autentica dimensione
comunitaria e di comunione. Sempre nella lettera ai Corinzi Paolo fa capire
come la divisione nella comunità sia il peccato più grave che dev’essere
corretto.
Mentre
vi do queste istruzioni, non posso lodarvi, perché vi riunite insieme non per
il meglio, ma per il peggio. Innanzi tutto sento dire che, quando vi
radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo. È
necessario infatti che sorgano fazioni tra voi, perché in mezzo a voi si
manifestino quelli che hanno superato la prova. Quando dunque vi radunate
insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. 21Ciascuno
infatti, quando siete a tavola, comincia a prendere il proprio pasto e così uno
ha fame, l’altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e
per bere? O volete gettare il disprezzo sulla Chiesa di Dio e umiliare chi non
ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo! … Ogni volta infatti
che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del
Signore, finché egli venga. Perciò chiunque mangia il pane o beve al
calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue
del Signore. Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e
beva dal calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del
Signore, mangia e beve la propria condanna (1
Cor 10, 17-29).
Questi
versetti sono stati spesso interpretati nella predicazione devozionale, come un
riferimento all’indegnità morale, come se Paolo facesse riferimento a peccati
sessuali, come l’adulterio, la promiscuità o altro. In realtà, la lettura
attenta del testo rivela che, quando parlo afferma: chiunque mangia il pane
o beve al calice del Signore in modo indegno, si sta riferendo a coloro che
sono strumenti di divisione nella comunità.
Mangiare il pane e bere il calice in modo indegno avviene quando siamo
operatori di divisioni. L’essere protagonisti di divisioni nella comunità rende
la persona indegna di ricevere il corpo di Cristo. È questo il peccato (che
nessuno confessa) che rende in un certo senso, inefficace l’eucarestia, perché
con la nostra vita e le nostre scelte neghiamo quello che riceviamo. Se,
infatti, entriamo nella fila, per ricevere il corpo di Cristo, la comunione,
una volta usciti dalla Chiesa lo sforzo da mettere in atto il corpo di Cristo
che abbiamo mangiato, consiste nel divenire nella comunità strumento di
comunione.
C’è
un’altra testimonianza che troviamo negli Atti degli Apostoli che rivela il
modo in cui era percepita la relazione tra eucarestia e comunità.
Erano
assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna,
nella frazione del pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in
tutti e prodigi e segni avvenivano per opera degli apostoli. Tutti coloro
che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in
comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a
tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme
frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con
letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la stima di tutto il
popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità
quelli che erano salvati (At 2,42-48). C’è
un’assiduità tra i fratelli e le sorelle nella partecipazione alla vita di
comunità. Non si tratta di partecipare ad un semplice rito formale, che ci
permette di meritare il paradiso. Questa teologia, che ha alimentato la
spiritualità individualista di tante generazioni, non trova nessun aggancio nei
testi del Nuovo testamento. Al contrario, come stiamo vedendo, avvicinarci al
banchetto eucaristico per cibarci del corpo del Signore, dovrebbe stimolare il
desiderio di vivere in modo nuovo con quei fratelli e quelle sorelle che il
Signore ci ha posto accanto. Forse può sembrare un discorso troppo radicale e
faticoso da mettere in pratica, ma l’attenzione ai passi che narrano
l’istituzione dell’eucarestia e i brani che narrano come la prima comunità ha
recepito la consegna di Gesù ai suoi amici e amiche nell’ultima cena, ci pone
dinanzi una realtà esistenziale di grande stimolo. Gesù c’insegna che l’amore
non è un concetto astratto, ma che si ama sempre qualcuno, una persona precisa,
delle persone con una loro identità e una loro storia. “Avendo amato i suoi
che erano nel mondo li amò sino alla fine” (Gv 13,1). Sono queste parole di
grande impatto spirituale, perché da una parte ci mostra la realtà di Gesù, il
significato che ha dato alla sua esistenza, vale a dire una vita per qualcuno.
Questo stesso significato, lo ha dato anche alla sua morte, che non è stata una
condanna, ma la sua scelta libera di portare a compimento le sue scelte dettate
dall’amore, per arrivare a morire per loro, per i discepoli e le discepole.
Gesù, potremmo dire con un linguaggio moderno, ci ha messo la faccia, non si è
nascosto. Con la sua passione e morte in croce ha impresso nell’anima dei suoi
discepoli un insegnamento immortale: ognuno di loro potrà dire e pensare in
ogni momento della vita: Gesù Cristo, il Figlio di Dio ha sofferto ed è morto
per noi. Proprio per questo significato profondo di una vita per amore e di una
morte per i discepoli, la sua morte diventa un passaggio da questo mondo al
Padre, donando la vita nuova ai suoi amici e amiche.
L’idea
che il frutto dell’eucarestia sia l’unione della comunità è recepita anche in
uno dei primissimi testi elaborati dalla comunità cristiana delle origini: la Didachè[1]:
Nel modo in cui questo pane spezzato era sparso qua e là sopra i colli e
raccolto divenne una sola cosa, così si raccolga la tua Chiesa nel tuo regno
dai confini della terra; perché tua è la gloria e la potenza, per Gesù Cristo
nei secoli. Nessuno però mangi né beva della vostra eucaristia se non i
battezzati nel nome del Signore, perché anche riguardo a ciò il Signore ha
detto: "Non date ciò che è santo ai cani" (Didachè 9,5-5). Bello
leggere questi testi dei primi secoli della Chiesa per constatare in che modo
recepiscono il messaggio di Gesù. Divenne una sola cosa: è questo che,
per l’autore della Didachè produce l’eucarestia tra i fedeli di una comunità:
divenire una cosa sola. Del resto è proprio questo desiderio di comunione e di
unità che viene espressa nella così detta preghiera sacerdotale di Gesù,
pronunciata prima dei momenti tragici della passione: “Perché siano una cosa
sola come noi siamo una cosa sola” (Gv 17, 22). Versetto stupendo, in linea
con tutto il significato che Gesù ha dato alla propria vita e alla propria
morte: la comunione. L’eucarestia ci aiuta a purificare la nostra anima da
quella mentalità individualista e narcisista che il mondo rovescia nelle nostre
anime sin da bambini.
Agostino
(430 d. C.), Discorso 272. Se vuoi comprendere
[il mistero] del corpo di Cristo, ascolta l'Apostolo che dice ai
fedeli: Voi siete il corpo di Cristo e sue membra. Se voi dunque
siete il corpo e le membra di Cristo, sulla mensa del Signore è deposto il mistero
di voi: ricevete il mistero di voi. A ciò che siete
rispondete: Amen e rispondendo lo sottoscrivete. Ti si dice
infatti: Il Corpo di Cristo, e tu rispondi: Amen. Sii membro del
corpo di Cristo, perché sia veritiero il tuo Amen. Parole di una profondità inaudita, che mostrano, ancora una volta, come
lo sviluppo del tema dell’eucaristia nei primi secoli, mantiene inalterata
l’idea del legame tra eucarestia e comunità. Il nostro Amen è vero nella misura
in cui cerchiamo di essere membra del copro di Cristo, della comunità. Prima di
tutto, grazie al battesimo siamo corpo di Cristo. Questa affermazione di
Agostino è in linea con Paolo quando dice: “In realtà noi tutti siamo stati
battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo” (1 Cor 12,13).
Certamente esiste una dimensione universale del corpo di Cristo e questo è uno
degli aspetti della Chiesa. In questa meditazione, comunque, desidero
soffermarmi sulla comunità, sulle relazioni e dell’eucarestia con le persone
della comunità alla quale apparteniamo e mostrare come questo tema sia di
grande importanza.
Anche
la preghiera Eucaristica II riprende il tema della comunità: Ti
preghiamo umilmente: per la comunione al Corpo e al Sangue di Cristo, lo
Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo. L’eucarestia fa la chiesa,
visibile nel corpo di Cristo che, per essere tale, dev’essere unito. Il testo
attuale della preghiera eucaristica II proviene dal testo del III secolo
contenuto all'interno della Tradizione Apostolica, breve scritto di Ippolito di
Roma ed è stato inserito all'interno del Messale Romano nel 1970. Questo dato
storico è interessante, perché ci permette di cogliere come il dato comunitario
ed ecclesiale sia stato recepito dalla chiesa primitiva. C’è anche la
percezione che l’azione dello Spirito Santo lavora per mantenere i membri della
comunità in comunione. Riuniti in un solo corpo. Il pasticcio di un’eucarestia
staccata dalla vita della comunità avviene dopo le invasioni barbariche, quando
si perdono i dati biblici e patristici che avevano fornito i contenuti della
liturgia dei primi secoli, aprendo, in questo modo, il campo, per ogni sorta di
devozione e di visione individualista della liturgia[2].
Conclusione:
partecipare del banchetto eucaristico significa amare la comunità, percepirla
come un dono e, di conseguenza, investire in essa. Andiamo a messa alla
domenica nel giorno del Signore, nel giorno di colui che ha amato i suoi
discepoli sino alla fine.
[1]
La
Didaché o Dottrina dei dodici apostoli è un testo cristiano di autore
sconosciuto. Scritto in un luogo non identificabile con sicurezza, forse la
Siria o l'Egitto tra la fine del I e il II secolo, il testo sarebbe
contemporaneo ai libri più tardivi del Nuovo Testamento. Venne considerato
persino come parte del Nuovo Testamento da alcuni Padri della Chiesa, anche se la
maggioranza la considerò un apocrifo; per questo non fu accettata nel canone
del Nuovo Testamento eccetto che dalla Chiesa ortodossa etiope. La Chiesa
cattolica la inserisce nella letteratura subapostolica.
[2]
Cfr. MAZZA, E. La celebrazione eucaristica. Genesi del rito e sviluppo
dell'interpretazione, Bologna: EDB, 200
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