mercoledì 22 marzo 2023

Il mistero della vita e della morte nel mondo medio-orientale antico e in culture limitrofe

 



 

1. Premessa

La morte e la resurrezione intese come un binomio inscindibile hanno un significato peculiare, anzi unico, nella fede cristiana. Trasporre il binomio nell’universo semantico-culturale e religioso dell’Antico Testamento, richiede qualche chiarificazione.  La morte e la resurrezione, pur avendo un significato unico per il credente cristiano, perché lega entrambe all’evento fondamentale che ha avuto Gesù Cristo come protagonista, fanno tuttavia riferimento, in un quadro più ampio, ai due poli entro i quali si svolge l’esistenza umana, la vita e la morte, e alla questione conseguente che si pone: c’è vita dopo la morte? Il porsi di fronte al mistero della vita è quindi un fenomeno o atteggiamento universale o universalmente umano, al quale le religioni danno ciascuna una propria risposta. Essa viene formulata secondo le categorie concettuali e le immagini proprie di ciascuna cultura, della quale diventano la cifra più profonda e più propria. L’uomo è un “animal symbolicum” per essenza, il che vuol dire che egli esprime l’ineffabilità del mistero della sua esistenza mediante una grammatica simbolica che gli permette di mediare ciò che è proprio della sua natura: una compresenza di corporeo e incorporeo, di visibile ed invisibile, di fisiologico e di psichico, di materia e spirito. Tale grammatica viene costruita dalla cultura caratteristica di una data società e, a sua volta, come in un circolo ermeneutico, essa ne plasma il sentire e il pensare.

La stessa fede cristiana, centrata sulla morte e resurrezione di Cristo, ha avuto bisogno al suo nascere di mediare l’ineffabilità del suo contenuto con l’immaginario della società giudaica del tempo, così che storicamente noi possiamo definire la connotazione culturale della fede cristiana come giudaico-cristiana.  A questo punto, la questione che c’interessa può essere posta in questi termini. Come ha compreso e vissuto il mondo ebraico prima di Cristo il mistero della vita e della morte? Ha creduto in una vita ultramondana? Inoltre, è stata sempre uguale la sua risposta o si è evoluta o trasformata nel tempo? A queste domande cercheremo di rispondere con questo contributo.

 

 Il mistero della vita e della morte nel mondo medio-orientale antico e in culture limitrofe

Non si può affrontare il nostro tema senza fare accenno alle idee di fondo che permeavano il contesto religioso dell’antico Medio Oriente, del quale Israele faceva parte. D’altra parte, da sempre gli studiosi sottolineano con maggiore o minor forza il debito culturale che Israele aveva con le altre società del tempo nel forgiare le proprie idee e il proprio credo religioso. Possiamo dire che, come dato generale, è da constatare la presenza di elementi comuni nella concezione che le società mediterranee avevano circa la vita e la morte e circa l’eventuale continuazione dell’esistenza nell’aldilà. Un primo elemento è la concretezza dei concetti di vita e di morte, legati entrambi all’esperienza immediata. La vita è nutrimento, benessere, tranquillità, longevità; la morte è il contrario di tutto ciò e la fine ineluttabile di un percorso che al confronto con essa viene visto come felice. Proprio la preziosità della vita fa sì che essa, come secondo elemento comune, sia appannaggio degli dei, i quali sono i detentori e i datori della vita stessa e, nel contempo, ne decretano la fine con la morte. Circa la continuazione dell’esistenza dopo la morte, si può affermare che generalmente l’oltretomba è un regno triste, oscuro, di non vita. Richiamando un topos letterario dell’antica Grecia, con la quale l’antico Medio Oriente ha sempre avuto un rapporto diretto, è ormai famosa l’affermazione che Achille fa davanti a Ulisse, quando questi visita l’Ade e nota che tra le ombre dei morti (tale è la consistenza della vita ultraterrena) l’eroe greco pareva troneggiare come il più autorevole: “Mi riconobbe l’anima del celere Eacide (Achille) / e piangendo mi rivolse alate parole: / «Divino figlio di Laerte, Odisseo pieno di astuzie, / temerario, quale impresa più audace penserai nella mente? // Come ardisti venire nell’Ade, dove i morti / privi di sensi dimorano, le ombre degli uomini estinti?». / Disse così ed io rispondendogli dissi: / «Achille, figlio di Peleo, tra gli Achei il più valoroso, / son venuto per sentire Tiresia, se un consiglio // mi dava…Nessuno / di te più beato, o Achille, in passato e in futuro: / prima infatti, da vivo, ti rendevamo onori di dei // noi Argivi, ed ora hai grande potere tra i morti / qui dimorando: non t’angusti, Achille, la morte». / Dissi così e subito rispondendomi disse: / «Non abbellirmi, illustre Odisseo, la morte! / Vorrei da bracciante servire un altro uomo, // un uomo senza podere che non ha molta roba; / piuttosto che dominare tra tutti i morti defunti…»” (Odissea XI, 471-491,). Un’atmosfera tetra pervade il mondo dell’oltretomba. Su di essa si proietta l’idea che della vita e della morte avevano quelle culture. Non tutte allo stesso modo però, come si vedrà considerando ciascuna di esse in dettaglio.

 

a) Egitto

L’ Egitto è la cultura che si offre come esempio originale di condivisione da un lato del modo di vedere comune sopra espresso, e dall’altro di differenziazione da esso in forza del peculiare culto dei morti e della concezione della vita dell’oltretomba che ha avuto. Anche per gli antichi egizi la morte, espressa con la radice mt (comune in questo con tutto il mondo semitico) è qualcosa di triste e di angoscioso, legato strettamente all’esperienza concreta della vita: “La morte viene, rapisce il bambino che è ancora in grembo a sua madre, così come l’uomo quando è diventato vecchio” (Anii V 2-4); “Non c’è un messaggero della morte che accetti regali” (Petosiris II 90). La durata della vita è nelle mani degli dei e la sua fine è qualcosa che si teme, tanto che la si esorcizza con eufemismi che hanno a che fare col sonno: “L’Occidente (il regno dei morti) è la terra del sonnecchiamento, una perenne oscurità, la dimora di coloro che sono là (i morti), dormire è la loro occupazione; essi non si risvegliano per vedere i loro fratelli” (Stele BM 157). Mentre si fa sentire fortemente questa visione malinconica della fine della vita e del suo perdurare nell’aldilà, contemporaneamente l’Egitto ha sviluppato tutta una serie di teologie sul mondo dell’oltretomba e sulla durata perenne di una vita di pace, di godimento e di gloria. All’inizio ciò era concesso solo ai faraoni e alla famiglia reale, ma via via lungo la sua storia la società egiziana ha coinvolto anche il resto della sua gente in tale destino di vita eterna. È interessante come s’immaginasse il processo che conduce dalla vita terrena a quella ultraterrena. Al momento della morte il ba (anima) lascia il corpo, dopo va a posarsi vicino al defunto allorché è nella tomba, mantiene il contatto con i vivi e ne accetta i sacrifici funerari (è insomma una specie di elemento mediatore). A sua volta, il ka (il “sosia”, la forza vitale del defunto) continua a vivere e assicura anche la vita ultraterrena del defunto; attraverso i riti funerari questi diventa un ach , cioè un “trasfigurato” e può vivere insieme agli dei. Quest’ordine d’idee va inquadrato nel concetto egiziano di ‘nkh = “vita”, raffigurato nel simbolo della croce ansata e che esprime una nomenclatura di significati tutti riconducibili a quello fontale di energia che appartiene innanzi tutto al mondo divino e che, come tale, si fa cibo e sostentamento di tutti gli esseri viventi (componente concreta del concetto), soprattutto del re, il faraone, il quale è contemporaneamente colui che riceve la vita e colui che l’amministra; tanto è vero che il faraone viene chiamato “copia vivente” degli dei. Per gli antichi egizi, la vita e la morte sono le due facce di una stessa realtà, l’esistenza. Questa verità è rispecchiata anche dal ciclo giornaliero del sole: il dio-sole Ra attraversa il cielo di giorno per morire, andando verso occidente, di notte e assumendo le sembianze del dio-mummia Osiris; indi, durante la notte, la dea del cielo Nut concepisce la nuova vita e la rinascita di Ra. Si può dire che per gli egizi la vita più piena, quella degli dei, nasce dalla morte; ma la stessa affermazione include il binomio morte-vita del faraone e di tutti coloro che via via verranno coinvolti in questo stesso processo di vivificazione. Significativo è questo inno al sole in favore del defunto re Pepi: “Parole da recitare: Tu ti svegli in pace, o purificato, in pace! / Tu ti svegli in pace, o Horo dell’est (il figlio di Osiris, equiparabile a Ra che rinasce), in pace! /  Tu ti svegli in pace, o ba  dell’est, in pace! / …/ Tu dormi nella tua barca della notte / e ti svegli nella barca del giorno, / giacché tu sei colui che guarda oltre gli dei, / (mentre) non c’è nessun dio che guardi oltre te. / O padre di Pepi, o Ra, prendi questo Pepi con te, per la vita, presso tua madre Nut. / Possano le porte del cielo essere aperte per questo Pepi, /…/ Quando questo Pepi viene a te, possa tu farlo vivere. / Ordina che questo Pepi possa sedere al tuo fianco, / a fianco di colui che s’immerge di mattina nell’orizzonte/…./ Egli vola, egli vola (via) da voi uomini come le anatre, / egli ritira le sue braccia da voi come un falco, /…/ Pepi ritira se stesso dai legami della terra, / Pepi si libera da uno stato negativo ” (Pyr. 1478-1483).

 

b) Mesopotamia

Il mondo mesopotamico aveva idee molto diverse circa la vita e la morte. Certamente condivideva con l’Egitto quell’idea triste e pessimistica pur ivi presente, ma è proprio attorno ad essa che ruotavano fondamentalmente il rapporto vita-morte e la visione dell’esistenza ultraterrena, senza dare spazio a qualsiasi lume di speranza. Nel poema di Gilgameš è scritto: “Quando gli dei crearono l’umanità, decisero per l’umanità la morte e trattennero la vita nelle proprie mani” (Gilg III, 3-5; X, vi 13-16). Nell’epopea di Atrakhasis si afferma che il motivo per cui gli dei hanno stabilito la morte per gli uomini è quello di limitarne la moltiplicazione, dato che il diluvio primordiale non ne aveva raggiunto l’annientamento. Anche gli assiro-babilonesi indicano la morte con metafore quali “addormentarsi”, “riposare”, ma quel che segue è spaventoso. Dal cadavere che si decompone esce un alito, un’ombra, uno spirito cattivo (etemmu; il morto veniva chiamato mîtu e la morte mûtu: ritorna la comune radice semitica) che può danneggiare coloro che sono ancora in vita. L’oltretomba o regno dei morti, chiamato “terra”, “il grande mondo sotterraneo” o Arallu, veniva immaginato come un luogo dell’orrore, un luogo di giudizio e senza ritorno. Nel mito di Nergal ed Ereškigal, la coppia divina degli dei signori degl’inferi, così viene descritto l’oltretomba verso cui viaggia Nergal: “(Egli va) verso il paese del non ritorno, / verso la casa delle tenebre, l’abitazione di Irkalla, / verso la casa da cui chi entra non esce più, / per un viaggio, la cui via è senza ritorno, / per la casa in cui gli abitanti sono privi di luce, / dove la polvere è il loro nutrimento, l’argilla il loro cibo, / essi sono vestiti come uccelli, ricoperti di piume, / non vedono la luce, brancolano nel buio, / dove regna terrore e lamento / piangono e gemono come colombe” (II 59-III 7). E la dea Ištar, finita negl’inferi, lamenta: “Con gli Anunnaki io bevo qui acqua; / invece di pane io mangio argilla, / invece di birra io bevo acqua putrida! / A me spetta piangere per i giovani / che hanno lasciato dietro di sé le loro spose, / piangere per le giovani strappate dal grembo dei loro mariti, / piangere per l’inerme bambino / che anzitempo è stato mandato qui!” (Discesa di Ištar agli inferi, rr. 33-36). Questi testi ed altri, come la stessa epopea di Gilgameš, trattano il problema della fine ineluttabile della vita umana e del tremendo mistero della morte, sviluppando di esso l’aspetto dolente e angoscioso. Non sembra esservi neanche il conforto di una componente etica che possa dare un senso alla morte come convocazione ad un giudizio ultraterreno. La concezione delle società mesopotamiche è determinata dal fato o dalla volontà arbitraria degli dei. Lo stesso problema del male, che con quest’ordine d’idee ha un rapporto stretto, risente di questo determinismo pessimistico. Certo non si possiedono attualmente tutti i testi della letteratura assiro-babilonese, ma quelli che abbiamo offrono soltanto quest’idea angosciosa della morte e dell’aldilà. Un elemento invece che per gli studiosi fa ancora problema è che gli stessi dei, almeno alcuni di essi, sono soggetti alla morte; talora per mescolare il loro sangue con l’argilla da cui verrà creato l’uomo, come nel mito del dio Kingu sconfitto dal dio Marduk, talaltra si tratta dell’uccisione di vecchi dei, la cui morte permette la nascita di dei più giovani. A questo contesto appartiene la figura del giovane dio Dumuzi / Tammmuz, divinità della vegetazione, che muore per poi risorgere, a somiglianza dei processi stagionali della natura. È una ferma convinzione, comunque, che la vita eterna è un privilegio che solo gli dei possiedono. Si tratta di una caratteristica di fondo che li fa anche dispensatori di vita e fa identificare spesso ciascuno di essi come muballit miti = “colui che rende vivo il morto”; ma sembra che il senso preciso della denominazione sia quello di guarire il malato: a questo tendono le preghiere perlopiù di valore esorcistico. Un ruolo particolare nel dispensare la vita lo gioca il re, così come si credeva anche in Egitto. Egli veniva ritenuto, ad es., “il signore che mantiene in vita Uruk, in quanto dona al suo popolo abbondanza d’acque” (CH II 37), oppure si diceva: “quando vidi il volto del re, ritornai in vita (cioè mi rianimai)” (ABL 880). Abbiamo comunque sempre a che fare con un concetto concreto, materiale o psicologico, di vita, inteso come sussistenza. In realtà, i miti assiro-babilonesi trattano spesso dell’impossibilità per l’uomo di vivere in eterno. Questo affermano l’epopea di Gilgameš e il mito di Adapa (in quest’ultimo, l’eroe rifiuta cibo e bevande vitali perdendo così la capacità di vivere per l’eternità).

 

c) Area semitico-occidentale: Ugarit (Ras Shamra)

Le popolazioni dell’area semitico-occidentale non presentano grandi varianti a quanto detto finora. Dall’antica Ugarit (odierna Ras Shamra) ci sono pervenuti dei poemi che toccano il tema della vita e della morte, anche se in chiave mitologica. Nel poema “Ba’al e la morte” (UT 67. 49+62 [I* AB.I AB]) si racconta dell’uccisione del dio della tempesta e della vitalità naturale, Ba’al, da parte della personificazione della morte, Mot (il nome vuol dire appunto “morte”)[i]. Siccome Ba’al ha a che fare con l’origine delle acque (nubi, pioggia), viene invitato da Mot, che langue per la sete, ad entrare nella sua gola; Ba’al, accettando l’invito si vota così alla morte, manifestantesi nell’aridità estiva dei campi. Sua sorella Anat, dolente, lo seppellisce, facendolo entrare nel sotterraneo regno dei morti. Ma Anat è una dea guerriera che non si accontenta di constatare la morte di Ba’al; ella vuole anche vendicare il fratello. Così, affronta Mot e lo fa a pezzi. Al momento opportuno, Ba’al torna in vita e tutta la natura rifiorisce. Come si può osservare, questo mito è simile a quello di Tammuz e rappresenta in personificazioni mitiche i processi stagionali che comunque hanno a che fare in certo qual modo con la morte e la risorgenza della vita; in altri termini, se il mito è una rappresentazione figurata dei processi stagionali, questi ultimi a loro volta diventano metafora del legame tra il fenomeno della vita e quello della morte. In quest’ordine di affermazioni dobbiamo inserire il poema pure ugaritico dei Refaim (UT 121.122.123-124 [I R.II R.III R]). Nei tre frammenti trovati a Ugarit si parla della convocazione a banchetto di questi personaggi misteriosi, i Refaim, i quali, da un attento esame anche di altri testi che li citano, sembrano consistere in qualcosa che sta tra le ombre dei trapassati ed eroi semidivini o sovrumani. Un’iscrizione bilingue in punico e in latino della Tripolitania del I sec. d.C. fa corrispondere al punico l’l[nm]  ‘r’p’m la traduzione D(is) M(anibus), cioè i Mani, gli dèi dei defunti. I Refaim ugaritici sembrano comportare anche una componente collegata con la guarigione, la fertilità e la sicurezza della discendenza umana. In ogni caso, gli studiosi hanno stabilito con sufficiente accordo che essi sono gli stessi di cui parla talvolta l’Antico Testamento (Is 26,14.19; Sal 88,11; Gb 26,5; Pro 2,18; 9,18). I Refaim sono un’interessante commistione mitica delle ombre del regno dei morti e di una parvenza di vita funzionale che tuttavia sussiste ancora nell’aldilà. A questo dato rimanda il culto dei defunti che sicuramente gli abitanti di Ugarit dovevano esercitare. Di solito, l’indagine esegetica veterotestamentaria attorno ai possibili influssi su Israele da parte della cultura circostante, tralascia due società con le quali esso ha pur tuttavia avuto delle relazioni molto strette e decisive per le svolte impresse, almeno dall’esterno, alle sue convinzioni religiose tradizionali: la società iranica e quella ellenistica. L’indagine, che pure c’è ed è copiosa, è lasciata a studi specialistici o settoriali, oppure, in riferimento all’ellenismo, se ne fa un campo di ricerca più prossimo al Nuovo Testamento che all’Antico.

 

d) Società iranica

La società iranica ha una lunghissima storia, quanto lunga è la storia delle popolazioni indo-iraniche[ii]. Esse hanno popolato quei territori che corrispondono più o meno a quello dell’odierno Iran, della Russia meridionale e dell’Afganistan, con propaggini verso l’Anatolia e contatti molto decisi col mondo greco, specialmente durante il regno della dinastia achemenide, di origine persiana, (VI-IV sec. a.C.), una delle tante coloriture etniche di cui si componeva la gamma delle genti iraniche. La politica di espansione dei re achemenidi ha fatto sentire la sua mano pesante sul mondo greco, che pure li ha vinti, da un lato, e sul mondo medio-orientale dall’altro. Israele, tra gli altri popoli, è stato lungamente soggetto al dominio persiano, come attesta la stessa letteratura dell’AT (1-2 Cronache, Esdra-Neemia, ecc.). Ora, la religione iranica ha qualcosa di originale e di solido che può essere presentato come un unico e nel contempo complesso processo storico distinguibile in tre tappe: 1) la religione prima di Zaratustra o Zoroastro, coincidente perlopiù con il mazdeismo; 2) la religione di Zaratustra, il profeta e maestro di una riforma radicale; 3) la religione dopo Zaratustra. In questa sede noi non possiamo interessarci della religione iranica, se non per quei punti che riguardano il tema che stiamo svolgendo. Al di là delle differenze, talora anche radicali tra una fase storica e l’altra, è indubitabile che vi sia un filone importante sempre presente in ciascuna di esse: la resurrezione dei morti e la vita ultraterrena. L’haoma iranico (in India soma) era nella fase pre-zoroastriana la bevanda liquorosa, tratta dalla pianta omonima, che nel sacrificio appunto dell’haoma, conferiva l’immortalità; il sacrificio era un rito di comunione. Circa il destino ultimo degli uomini, le gatha, antiche composizioni poetiche sacre, parlavano del “ponte” che le anime dei defunti debbono attraversare per dirigersi verso il luogo del giudizio e della separazione dei buoni dai cattivi. Il ponte, dice l’antico poema capitale Avesta, è custodito da due cani con “quattro occhi”. Tre giudici attendono le anime per giudicarle: Mitra, Sraoša e Rašnu (che hanno un parallelo, nella Grecia preellenica, in Minosse, Eaco e Radamanto). L’Avesta afferma che le anime buone vanno in paradiso (pardes = “paradiso, giardino” è una parola persiana), salendo tre scalini, corrispondenti alle stelle, alla lune e al sole, il gradino più alto. Interessante è in questa visione religiosa la presenza delle fravaši, che sono degli esseri che sotto certi aspetti richiamano i Refaim del mondo semitico, sotto altri rappresentano dei geni protettori. In ogni caso, essi presiedono a ogni manifestazione di vitalità (la crescita delle piante, la gravidanza) e accompagnano il defunto nel trapasso. Zaratustra (Duchesne-Guillemin pone la sua comparsa nei primi secoli del I millennio a.C.) ha con la sua riforma religiosa affinato molto l’antico sistema religioso, correggendolo e spiritualizzandolo. L’haoma non è più una bevanda inebriante, ma una bevanda mistica; inoltre, il dualismo radicale che caratterizzava le credenze a lui antecedenti, viene risolto in chiave monoteistica (anche se permane nella dottrina zoroastriana un dualismo di fondo), facendo di Ahura Mazda l’unico dio, attorno al quale ruotano entità divine inglobate per “filiazione” (lo Spirito santo, la Giustizia, il Buon Pensiero e l’Applicazione) o per appropriazione attributiva (Potere, Integrità e Immortalità), che lo aiutano a combattere le forze del male o lo Spirito distruttore. Circa il destino dei defunti, per Zaratustra esiste una sorte individuale e una collettiva. L’individuo che muore si vede venire incontro la sua daena, che è una parte di lui, sotto forma di fanciulla. L’anima passa il “ponte” e si avvia al giudizio che verrà eseguito sulle sue parole, azioni e pensieri; dopodiché, verrà smistata in un luogo buono se risulterà essere stata buona, cattivo se invece è stata cattiva. Il destino collettivo invece s’inquadra nell’aspettativa zoroastriana di un grandioso evento futuro, nel quale il fuoco (elemento fondamentale del culto zoroastriano) in una specie di ordalia farà nelle mani di Aša (= la Giustizia) da giustiziere nel distinguere i buoni dai cattivi. Nel mirare a quel momento di sapore escatologico e apocalittico, Zaratustra invoca da Ahura Mazda l’avvento di figure di “salvatori” che rinnoveranno il mondo, anzi lui stesso chiede di essere tra quei salvatori, il massimo dei quali è il Saoshyant (il salvatore supremo). La dottrina di Zaratustra contempla in definitiva una resurrezione dei morti, anche se l’idea si consoliderà solo con lo zoroastrismo successivo. La dottrina di Zaratustra divulgata dai suoi discepoli, in realtà, col tempo ha lasciato che s’infiltrassero elementi dell’antica religione iranica pagana. Da un lato hanno ripreso vigore varie divinità, prima messe in ombra o fatte convergere sotto il dominio superiore di Ahura Mazda, dall’altro si è accentuato il dualismo già insito nella religione iranica. Zaratustra, come si è detto, aveva cercato di risolvere il dualismo facendo di Ahura Mazda l’unico dio supremo e facendo slittare il dualismo sui due spiriti, lo Spirito santo (Spenta Mainyu) e lo Spirito dell’errore (Angra Mainyu); i successori di Zaratustra invece hanno riportato su Ahura Mazda il principio del bene e lo hanno contrapposto direttamente allo Spirito del male. Un’altra novità è stata l’evoluzione conferita al concetto di fravaši, che divengono ora gli spiriti dei giusti con una natura che ne fa degli esseri preesistenti che in seguito si uniscono agli uomini al momento della loro nascita. Si è consolidata intanto quell’idea di resurrezione dei morti già prospettata da Zaratustra nel quadro di un grande evento finale dominato dal fuoco del giudizio. Il rituale dello yasna sembra servisse soprattutto a procacciare l’immortalità ai defunti, ai quali era destinata l’offerta del darum (pane consacrato) e del ghee, nel quadro di una rievocazione della cosmogonia, che anticipava a sua volta l’escatologia generale.

 

e) Cultura greca, ellenismo

La seconda delle due culture che vanno esaminate con particolare attenzione quando si traccia una mappa d’influssi storico-religiosi su Israele, è l’ellenismo, cioè quel grandioso fenomeno socioculturale e religioso che ha avuto inizio a partire dalla diffusione della cultura greca voluta da Alessandro Magno (IV sec. a.C.). In realtà, essa, pur operando da elemento di trasformazione e di coagulazione di varie espressioni culturali, è stata a sua volta coinvolta in un processo di scambio e di autotrasformazione. Si è avuto così quell’evento storico straordinario che è stato appunto l’ellenismo. Esso ha creato un forte impatto sociopolitico, culturale e religioso su tutti i territori conquistati da Alessandro Magno, compresa la fascia siro-palestinese, e si è protratta per diversi secoli, fino all’era romana (IV sec. a.C. – III sec. d.C.). Diversi libri dell’AT hanno una relazione con l’ellenismo, sia per contrasto (1 e 2 Maccabei, parzialmente il Siracide) sia per condivisione (la Sapienza di Salomone). È necessario quindi dare per sommi capi quelle note dominanti che ci permettano di affrontare più tardi direttamente il tema di questo articolo. Vi è da dire innanzi tutto che l’ellenismo, inteso come la risultante di un incrocio e di una mescolanza di apporti culturali, contiene molti elementi sincretistici mutuati, tra l’altro, proprio dalla religione iranica, appena esaminata. È pur vero che l’avvento di Alessandro Magno e della sua politica aveva creato un oscuramento della religione iranica, che durerà parecchi secoli fino all’insediamento della dinastia sasanide (224-636 d.C.); del resto, la dinastia parta (quindi, iranica) degli Arsacidi (250 a.C. – 224 d.C.), pur tenendo testa e soppiantando il dominio ellenistico, era andata ellenizzandosi culturalmente sempre più. Tuttavia, nonostante questo, la cultura iranica non poteva veramente scomparire. Proprio la natura sincretistica dell’ellenismo ha reso possibile l’introduzione di elementi iranici nella miscela greca; anzi, si è arrivati al punto che qualsiasi trattato di astrologia, di magia o di alchimia, pur avendo molto poco di iranico, veniva posto sotto l’autorità di Zoroastro. Un monumento di Antioco di Commagene riporta una lista di dei iranici reinterpretati nelle corrispettive figure greche: Zeus Oromasdes; Apollo Mitra Elio Ermes (un’ unificazione d’immagini); Artagne Ercole Ares (idem). La stessa antica tribù iranica dei Magi, che durante l’impero achemenide aveva consolidato un proprio potere sacerdotale, col passare del tempo era stata ellenizzata nell’immaginario comune, come dimostra Dione Crisostomo nella sua Cosmogonia. Vi è da precisare però che la centralità era passata alla figura di Mitra, al quale è stata attribuito anche il significato di Salvatore di origine solare con una funzione escatologica; era in altri termini rimasta quella visione di un’era finale di giudizio, nella quale ai buoni sarebbe stata data con la resurrezione l’immortalità e ai cattivi l’annientamento nel fuoco che avrebbe fatto deflagrare l’universo. Ad ogni modo, non è quello iranico il solo elemento culturale e religioso che si miscelava nel calderone greco. Una larga parte veniva dalla religione egizia, in particolare quella sviluppatasi ad Alessandria, che metteva insieme antiche credenze (quelle più sopra esaminate) a nuove trasformazioni, quali la collocazione centrale della dea Iside, moglie del dio-mummia Osiride e madre di Horus di cui il faraone era l’incarnazione da vivo, e del dio Serapide. Un ruolo però non piccolo è stato giocato da un elemento proveniente dall’interno della stessa cultura greca: la religione dei misteri. Questa espressione religiosa, che ha nei misteri eleusini l’espressione più famosa e tra le più arcaiche dell’antica Grecia, sembra essere stata da sempre la mitizzazione e ritualizzazione di primordiali interpretazioni della realtà umana socio-politica e religiosa e di passioni umane convogliate e canalizzate nel quadro di un rito segreto d’iniziazione. Questa cultura dei “misteri”, nei quali vanno ricordati anche quelli orfici e dionisiaci, aveva una funzione interpretativa e ordinativa dell’esistenza in chiave soteriologica. Certo, la soteriologia dei secoli precedenti all’ellenismo era piuttosto immanente alla realtà terrena: si trattava soprattutto del raggiungimento di un’armonia socio-politica e morale e della propria continuità nella discendenza; del resto, i miti di Demofonte, di Ulisse o di Orfeo confermavano l’ineluttabilità della mortalità umana; tutt’al più nella vita ultraterrena gl’iniziati potevano contare su di un processo di “eroizzazione” che dava loro una qualche soddisfazione in più rispetto agli altri defunti. La vocazione alla soteriologia ha tuttavia sperimentato delle trasformazioni, allorché questa tradizione dei misteri si è incontrata con altre espressioni culturali, frammentandosi, mescolandosi e riemergendo con nuove aspirazioni. La domanda sul destino dell’anima dopo la morte si è fatta più decisa e più forte. Se l’anabíosis (= il ritorno alla vita) di Dioniso dopo la sua morte violenta è il mito di morte e resurrezione di un dio, per gli orfici e i pitagorici  la soteriologia consiste in un processo di ascesi e purificazione che prepara a migliori esistenze future (dottrina della metempsicosi). È in questo quadro storico-culturale e religioso che Israele ha vissuto la sua storia peculiare.

Gen 5: i patriarchi

Sal 16,12

Sal 37

Sal 41

Salmo 49,15-15

Qoelet

Sap

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