1. Premessa
La morte e la
resurrezione intese come un binomio inscindibile hanno un significato
peculiare, anzi unico, nella fede cristiana. Trasporre il binomio nell’universo
semantico-culturale e religioso dell’Antico Testamento, richiede qualche
chiarificazione. La morte e la
resurrezione, pur avendo un significato unico per il credente cristiano, perché
lega entrambe all’evento fondamentale che ha avuto Gesù Cristo come
protagonista, fanno tuttavia riferimento, in un quadro più ampio, ai due poli
entro i quali si svolge l’esistenza umana, la vita e la morte, e alla questione
conseguente che si pone: c’è vita dopo la morte? Il porsi di fronte al mistero
della vita è quindi un fenomeno o atteggiamento universale o universalmente
umano, al quale le religioni danno ciascuna una propria risposta. Essa viene
formulata secondo le categorie concettuali e le immagini proprie di ciascuna
cultura, della quale diventano la cifra più profonda e più propria. L’uomo è un
“animal symbolicum” per essenza, il che vuol dire che egli esprime
l’ineffabilità del mistero della sua esistenza mediante una grammatica
simbolica che gli permette di mediare ciò che è proprio della sua natura: una
compresenza di corporeo e incorporeo, di visibile ed invisibile, di fisiologico
e di psichico, di materia e spirito. Tale grammatica viene costruita dalla
cultura caratteristica di una data società e, a sua volta, come in un circolo
ermeneutico, essa ne plasma il sentire e il pensare.
La stessa fede
cristiana, centrata sulla morte e resurrezione di Cristo, ha avuto bisogno al
suo nascere di mediare l’ineffabilità del suo contenuto con l’immaginario della
società giudaica del tempo, così che storicamente noi possiamo definire la
connotazione culturale della fede cristiana come giudaico-cristiana. A questo
punto, la questione che c’interessa può essere posta in questi termini. Come ha
compreso e vissuto il mondo ebraico prima di Cristo il mistero della vita e
della morte? Ha creduto in una vita ultramondana? Inoltre, è stata sempre
uguale la sua risposta o si è evoluta o trasformata nel tempo? A queste domande
cercheremo di rispondere con questo contributo.
Il
mistero della vita e della morte nel mondo medio-orientale antico e in culture
limitrofe
Non si può
affrontare il nostro tema senza fare accenno alle idee di fondo che permeavano
il contesto religioso dell’antico Medio Oriente, del quale Israele faceva
parte. D’altra parte, da sempre gli studiosi sottolineano con maggiore o minor
forza il debito culturale che Israele aveva con le altre società del tempo nel
forgiare le proprie idee e il proprio credo religioso. Possiamo dire che, come
dato generale, è da constatare la presenza di elementi comuni nella concezione
che le società mediterranee avevano circa la vita e la morte e circa
l’eventuale continuazione dell’esistenza nell’aldilà. Un primo elemento è la
concretezza dei concetti di vita e di morte, legati entrambi all’esperienza
immediata. La vita è nutrimento, benessere, tranquillità, longevità; la morte è
il contrario di tutto ciò e la fine ineluttabile di un percorso che al
confronto con essa viene visto come felice. Proprio la preziosità della vita fa
sì che essa, come secondo elemento comune, sia appannaggio degli dei, i quali
sono i detentori e i datori della vita stessa e, nel contempo, ne decretano la
fine con la morte. Circa la continuazione dell’esistenza dopo la morte, si può
affermare che generalmente l’oltretomba è un regno triste, oscuro, di non vita.
Richiamando un topos letterario
dell’antica Grecia, con la quale
l’antico Medio Oriente ha sempre avuto un rapporto diretto, è ormai famosa
l’affermazione che Achille fa davanti a Ulisse, quando questi visita l’Ade e
nota che tra le ombre dei morti (tale è la consistenza della vita ultraterrena)
l’eroe greco pareva troneggiare come il più autorevole: “Mi riconobbe l’anima
del celere Eacide (Achille) / e piangendo mi rivolse alate parole: / «Divino
figlio di Laerte, Odisseo pieno di astuzie, / temerario, quale impresa più
audace penserai nella mente? // Come ardisti venire nell’Ade, dove i morti /
privi di sensi dimorano, le ombre degli uomini estinti?». / Disse così ed io
rispondendogli dissi: / «Achille, figlio di Peleo, tra gli Achei il più
valoroso, / son venuto per sentire Tiresia, se un consiglio // mi dava…Nessuno
/ di te più beato, o Achille, in passato e in futuro: / prima infatti, da vivo,
ti rendevamo onori di dei // noi Argivi, ed ora hai grande potere tra i morti /
qui dimorando: non t’angusti, Achille, la morte». / Dissi così e subito
rispondendomi disse: / «Non abbellirmi, illustre Odisseo, la morte! / Vorrei da
bracciante servire un altro uomo, // un uomo senza podere che non ha molta
roba; / piuttosto che dominare tra tutti i morti defunti…»” (Odissea XI, 471-491,). Un’atmosfera
tetra pervade il mondo dell’oltretomba. Su di essa si proietta l’idea che della
vita e della morte avevano quelle culture. Non tutte allo stesso modo però,
come si vedrà considerando ciascuna di esse in dettaglio.
a) Egitto
L’ Egitto è la cultura che si offre come
esempio originale di condivisione da un lato del modo di vedere comune sopra
espresso, e dall’altro di differenziazione da esso in forza del peculiare culto
dei morti e della concezione della vita dell’oltretomba che ha avuto. Anche per
gli antichi egizi la morte, espressa con la radice mt (comune in questo con tutto il mondo semitico) è qualcosa di
triste e di angoscioso, legato strettamente all’esperienza concreta della vita:
“La morte viene, rapisce il bambino che è ancora in grembo a sua madre, così
come l’uomo quando è diventato vecchio” (Anii
V 2-4); “Non c’è un messaggero della morte che accetti regali” (Petosiris II 90). La durata della vita è
nelle mani degli dei e la sua fine è qualcosa che si teme, tanto che la si
esorcizza con eufemismi che hanno a che fare col sonno: “L’Occidente (il regno
dei morti) è la terra del sonnecchiamento, una perenne oscurità, la dimora di
coloro che sono là (i morti), dormire è la loro occupazione; essi non si
risvegliano per vedere i loro fratelli” (Stele
BM 157). Mentre si fa sentire fortemente questa visione malinconica della fine
della vita e del suo perdurare nell’aldilà, contemporaneamente l’Egitto ha
sviluppato tutta una serie di teologie sul mondo dell’oltretomba e sulla durata
perenne di una vita di pace, di godimento e di gloria. All’inizio ciò era concesso
solo ai faraoni e alla famiglia reale, ma via via lungo la sua storia la
società egiziana ha coinvolto anche il resto della sua gente in tale destino di
vita eterna. È interessante come s’immaginasse il processo che conduce dalla
vita terrena a quella ultraterrena. Al momento della morte il ba (anima) lascia il corpo, dopo va a
posarsi vicino al defunto allorché è nella tomba, mantiene il contatto con i
vivi e ne accetta i sacrifici funerari (è insomma una specie di elemento
mediatore). A sua volta, il ka (il
“sosia”, la forza vitale del defunto) continua a vivere e assicura anche la
vita ultraterrena del defunto; attraverso i riti funerari questi diventa un ach , cioè un “trasfigurato” e può
vivere insieme agli dei. Quest’ordine d’idee va inquadrato nel concetto
egiziano di ‘nkh = “vita”,
raffigurato nel simbolo della croce ansata e che esprime una nomenclatura di
significati tutti riconducibili a quello fontale di energia che appartiene
innanzi tutto al mondo divino e che, come tale, si fa cibo e sostentamento di
tutti gli esseri viventi (componente concreta del concetto), soprattutto del
re, il faraone, il quale è contemporaneamente colui che riceve la vita e colui
che l’amministra; tanto è vero che il faraone viene chiamato “copia vivente”
degli dei. Per gli antichi egizi, la vita e la morte sono le due facce di una
stessa realtà, l’esistenza. Questa verità è rispecchiata anche dal ciclo
giornaliero del sole: il dio-sole Ra attraversa il cielo di giorno per morire,
andando verso occidente, di notte e assumendo le sembianze del dio-mummia
Osiris; indi, durante la notte, la dea del cielo Nut concepisce la nuova vita e
la rinascita di Ra. Si può dire che per gli egizi la vita più piena, quella
degli dei, nasce dalla morte; ma la stessa affermazione include il binomio
morte-vita del faraone e di tutti coloro che via via verranno coinvolti in
questo stesso processo di vivificazione. Significativo è questo inno al sole in
favore del defunto re Pepi: “Parole da recitare: Tu ti svegli in pace, o
purificato, in pace! / Tu ti svegli in pace, o Horo dell’est (il figlio di
Osiris, equiparabile a Ra che rinasce), in pace! / Tu ti svegli in pace, o ba dell’est, in pace! / …/
Tu dormi nella tua barca della notte / e ti svegli nella barca del giorno, /
giacché tu sei colui che guarda oltre gli dei, / (mentre) non c’è nessun dio
che guardi oltre te. / O padre di Pepi, o Ra, prendi questo Pepi con te, per la
vita, presso tua madre Nut. / Possano le porte del cielo essere aperte per
questo Pepi, /…/ Quando questo Pepi viene a te, possa tu farlo vivere. / Ordina
che questo Pepi possa sedere al tuo fianco, / a fianco di colui che s’immerge
di mattina nell’orizzonte/…./ Egli vola, egli vola (via) da voi uomini come le
anatre, / egli ritira le sue braccia da voi come un falco, /…/ Pepi ritira se
stesso dai legami della terra, / Pepi si libera da uno stato negativo ” (Pyr. 1478-1483).
b) Mesopotamia
Il mondo mesopotamico aveva idee molto
diverse circa la vita e la morte. Certamente condivideva con l’Egitto
quell’idea triste e pessimistica pur ivi presente, ma è proprio attorno ad essa
che ruotavano fondamentalmente il rapporto vita-morte e la visione
dell’esistenza ultraterrena, senza dare spazio a qualsiasi lume di speranza.
Nel poema di Gilgameš è scritto: “Quando gli dei crearono l’umanità, decisero
per l’umanità la morte e trattennero la vita nelle proprie mani” (Gilg III, 3-5; X, vi 13-16). Nell’epopea di Atrakhasis si
afferma che il motivo per cui gli dei hanno stabilito la morte per gli uomini è
quello di limitarne la moltiplicazione, dato che il diluvio primordiale non ne
aveva raggiunto l’annientamento. Anche gli assiro-babilonesi indicano la morte
con metafore quali “addormentarsi”, “riposare”, ma quel che segue è spaventoso.
Dal cadavere che si decompone esce un alito, un’ombra, uno spirito cattivo (etemmu; il morto veniva chiamato mîtu e la morte mûtu: ritorna la comune radice semitica) che può danneggiare coloro
che sono ancora in vita. L’oltretomba o regno dei morti, chiamato “terra”, “il
grande mondo sotterraneo” o Arallu,
veniva immaginato come un luogo dell’orrore, un luogo di giudizio e senza
ritorno. Nel mito di Nergal ed Ereškigal, la coppia divina degli dei signori
degl’inferi, così viene descritto l’oltretomba verso cui viaggia Nergal: “(Egli
va) verso il paese del non ritorno, / verso la casa delle tenebre, l’abitazione
di Irkalla, / verso la casa da cui chi entra non esce più, / per un viaggio, la
cui via è senza ritorno, / per la casa in cui gli abitanti sono privi di luce,
/ dove la polvere è il loro nutrimento, l’argilla il loro cibo, / essi sono
vestiti come uccelli, ricoperti di piume, / non vedono la luce, brancolano nel
buio, / dove regna terrore e lamento / piangono e gemono come colombe” (II
59-III 7). E la dea Ištar, finita negl’inferi, lamenta: “Con gli Anunnaki io
bevo qui acqua; / invece di pane io mangio argilla, / invece di birra io bevo
acqua putrida! / A me spetta piangere per i giovani / che hanno lasciato dietro
di sé le loro spose, / piangere per le giovani strappate dal grembo dei loro
mariti, / piangere per l’inerme bambino / che anzitempo è stato mandato qui!” (Discesa di Ištar agli inferi, rr. 33-36).
Questi testi ed altri, come la stessa epopea di Gilgameš, trattano il problema
della fine ineluttabile della vita umana e del tremendo mistero della morte,
sviluppando di esso l’aspetto dolente e angoscioso. Non sembra esservi neanche
il conforto di una componente etica che possa dare un senso alla morte come
convocazione ad un giudizio ultraterreno. La concezione delle società
mesopotamiche è determinata dal fato o dalla volontà arbitraria degli dei. Lo
stesso problema del male, che con quest’ordine d’idee ha un rapporto stretto,
risente di questo determinismo pessimistico. Certo non si possiedono
attualmente tutti i testi della letteratura assiro-babilonese, ma quelli che
abbiamo offrono soltanto quest’idea angosciosa della morte e dell’aldilà. Un elemento
invece che per gli studiosi fa ancora problema è che gli stessi dei, almeno
alcuni di essi, sono soggetti alla morte; talora per mescolare il loro sangue
con l’argilla da cui verrà creato l’uomo, come nel mito del dio Kingu sconfitto
dal dio Marduk, talaltra si tratta dell’uccisione di vecchi dei, la cui morte
permette la nascita di dei più giovani. A questo contesto appartiene la figura
del giovane dio Dumuzi / Tammmuz, divinità della vegetazione, che muore per poi
risorgere, a somiglianza dei processi stagionali della natura. È una ferma convinzione,
comunque, che la vita eterna è un privilegio che solo gli dei possiedono. Si
tratta di una caratteristica di fondo che li fa anche dispensatori di vita e fa
identificare spesso ciascuno di essi come muballit
miti = “colui che rende vivo il morto”; ma sembra che il senso preciso
della denominazione sia quello di guarire il malato: a questo tendono le
preghiere perlopiù di valore esorcistico. Un ruolo particolare nel dispensare
la vita lo gioca il re, così come si credeva anche in Egitto. Egli veniva
ritenuto, ad es., “il signore che mantiene in vita Uruk, in quanto dona al suo
popolo abbondanza d’acque” (CH II 37), oppure si diceva: “quando vidi il volto
del re, ritornai in vita (cioè mi rianimai)” (ABL 880). Abbiamo comunque sempre
a che fare con un concetto concreto, materiale o psicologico, di vita, inteso
come sussistenza. In realtà, i miti assiro-babilonesi trattano spesso
dell’impossibilità per l’uomo di vivere in eterno. Questo affermano l’epopea di
Gilgameš e il mito di Adapa (in quest’ultimo, l’eroe rifiuta cibo e bevande
vitali perdendo così la capacità di vivere per l’eternità).
c) Area semitico-occidentale: Ugarit (Ras
Shamra)
Le popolazioni
dell’area semitico-occidentale non
presentano grandi varianti a quanto detto finora. Dall’antica Ugarit (odierna
Ras Shamra) ci sono pervenuti dei poemi che toccano il tema della vita e della
morte, anche se in chiave mitologica. Nel poema “Ba’al e la morte” (UT 67. 49+62 [I* AB.I AB]) si racconta
dell’uccisione del dio della tempesta e della vitalità naturale, Ba’al, da
parte della personificazione della morte, Mot (il nome vuol dire appunto
“morte”)[i].
Siccome Ba’al ha a che fare con l’origine delle acque (nubi, pioggia), viene
invitato da Mot, che langue per la sete, ad entrare nella sua gola; Ba’al,
accettando l’invito si vota così alla morte, manifestantesi nell’aridità estiva
dei campi. Sua sorella Anat, dolente, lo seppellisce, facendolo entrare nel
sotterraneo regno dei morti. Ma Anat è una dea guerriera che non si accontenta
di constatare la morte di Ba’al; ella vuole anche vendicare il fratello. Così,
affronta Mot e lo fa a pezzi. Al momento opportuno, Ba’al torna in vita e tutta
la natura rifiorisce. Come si può osservare, questo mito è simile a quello di
Tammuz e rappresenta in personificazioni mitiche i processi stagionali che
comunque hanno a che fare in certo qual modo con la morte e la risorgenza della
vita; in altri termini, se il mito è una rappresentazione figurata dei processi
stagionali, questi ultimi a loro volta diventano metafora del legame tra il
fenomeno della vita e quello della morte. In quest’ordine di affermazioni
dobbiamo inserire il poema pure ugaritico dei Refaim (UT 121.122.123-124 [I R.II R.III R]). Nei tre frammenti trovati a
Ugarit si parla della convocazione a banchetto di questi personaggi misteriosi,
i Refaim, i quali, da un attento esame anche di altri testi che li citano,
sembrano consistere in qualcosa che sta tra le ombre dei trapassati ed eroi
semidivini o sovrumani. Un’iscrizione bilingue in punico e in latino della
Tripolitania del I sec. d.C. fa corrispondere al punico l’l[nm] ‘r’p’m la traduzione
D(is) M(anibus), cioè i Mani, gli dèi
dei defunti. I Refaim ugaritici sembrano comportare anche una componente
collegata con la guarigione, la fertilità e la sicurezza della discendenza
umana. In ogni caso, gli studiosi hanno stabilito con sufficiente accordo che
essi sono gli stessi di cui parla talvolta l’Antico Testamento (Is 26,14.19;
Sal 88,11; Gb 26,5; Pro 2,18; 9,18). I Refaim sono un’interessante commistione
mitica delle ombre del regno dei morti e di una parvenza di vita funzionale che
tuttavia sussiste ancora nell’aldilà. A questo dato rimanda il culto dei
defunti che sicuramente gli abitanti di Ugarit dovevano esercitare. Di solito,
l’indagine esegetica veterotestamentaria attorno ai possibili influssi su
Israele da parte della cultura circostante, tralascia due società con le quali
esso ha pur tuttavia avuto delle relazioni molto strette e decisive per le
svolte impresse, almeno dall’esterno, alle sue convinzioni religiose
tradizionali: la società iranica e
quella ellenistica. L’indagine, che
pure c’è ed è copiosa, è lasciata a studi specialistici o settoriali, oppure,
in riferimento all’ellenismo, se ne fa un campo di ricerca più prossimo al
Nuovo Testamento che all’Antico.
d) Società iranica
La
società iranica ha una lunghissima
storia, quanto lunga è la storia delle popolazioni indo-iraniche[ii].
Esse hanno popolato quei territori che corrispondono più o meno a quello
dell’odierno Iran, della Russia meridionale e dell’Afganistan, con propaggini
verso l’Anatolia e contatti molto decisi col mondo greco, specialmente durante
il regno della dinastia achemenide, di origine persiana, (VI-IV sec. a.C.), una
delle tante coloriture etniche di cui si componeva la gamma delle genti
iraniche. La politica di espansione dei re achemenidi ha fatto sentire la sua
mano pesante sul mondo greco, che pure li ha vinti, da un lato, e sul mondo
medio-orientale dall’altro. Israele, tra gli altri popoli, è stato lungamente
soggetto al dominio persiano, come attesta la stessa letteratura dell’AT (1-2
Cronache, Esdra-Neemia, ecc.). Ora, la religione iranica ha qualcosa di
originale e di solido che può essere presentato come un unico e nel contempo
complesso processo storico distinguibile in tre tappe: 1) la religione prima di
Zaratustra o Zoroastro, coincidente perlopiù con il mazdeismo; 2) la religione
di Zaratustra, il profeta e maestro di una riforma radicale; 3) la religione
dopo Zaratustra. In questa sede noi non possiamo interessarci della religione
iranica, se non per quei punti che riguardano il tema che stiamo svolgendo. Al
di là delle differenze, talora anche radicali tra una fase storica e l’altra, è
indubitabile che vi sia un filone importante sempre presente in ciascuna di
esse: la resurrezione dei morti e la vita ultraterrena. L’haoma iranico (in India soma)
era nella fase pre-zoroastriana la bevanda liquorosa, tratta dalla pianta
omonima, che nel sacrificio appunto dell’haoma,
conferiva l’immortalità; il sacrificio era un rito di comunione. Circa il
destino ultimo degli uomini, le gatha,
antiche composizioni poetiche sacre, parlavano del “ponte” che le anime dei
defunti debbono attraversare per dirigersi verso il luogo del giudizio e della
separazione dei buoni dai cattivi. Il ponte, dice l’antico poema capitale Avesta, è custodito da due cani con
“quattro occhi”. Tre giudici attendono le anime per giudicarle: Mitra, Sraoša e
Rašnu (che hanno un parallelo, nella Grecia preellenica, in Minosse, Eaco e
Radamanto). L’Avesta afferma che le
anime buone vanno in paradiso (pardes
= “paradiso, giardino” è una parola persiana), salendo tre scalini,
corrispondenti alle stelle, alla lune e al sole, il gradino più alto.
Interessante è in questa visione religiosa la presenza delle fravaši, che sono degli esseri che sotto
certi aspetti richiamano i Refaim del
mondo semitico, sotto altri rappresentano dei geni protettori. In ogni caso,
essi presiedono a ogni manifestazione di vitalità (la crescita delle piante, la
gravidanza) e accompagnano il defunto nel trapasso. Zaratustra
(Duchesne-Guillemin pone la sua comparsa nei primi secoli del I millennio a.C.)
ha con la sua riforma religiosa affinato molto l’antico sistema religioso,
correggendolo e spiritualizzandolo. L’haoma
non è più una bevanda inebriante, ma una bevanda mistica; inoltre, il dualismo
radicale che caratterizzava le credenze a lui antecedenti, viene risolto in
chiave monoteistica (anche se permane nella dottrina zoroastriana un dualismo
di fondo), facendo di Ahura Mazda l’unico dio, attorno al quale ruotano entità
divine inglobate per “filiazione” (lo Spirito santo,
e) Cultura greca, ellenismo
La seconda delle
due culture che vanno esaminate con particolare attenzione quando si traccia
una mappa d’influssi storico-religiosi su Israele, è l’ellenismo, cioè quel grandioso fenomeno socioculturale e religioso
che ha avuto inizio a partire dalla diffusione della cultura greca voluta da Alessandro Magno (IV sec. a.C.). In realtà,
essa, pur operando da elemento di trasformazione e di coagulazione di varie
espressioni culturali, è stata a sua volta coinvolta in un processo di scambio
e di autotrasformazione. Si è avuto così quell’evento storico straordinario che
è stato appunto l’ellenismo. Esso ha creato un forte impatto sociopolitico,
culturale e religioso su tutti i territori conquistati da Alessandro Magno,
compresa la fascia siro-palestinese, e si è protratta per diversi secoli, fino
all’era romana (IV sec. a.C. – III sec. d.C.). Diversi libri dell’AT hanno una
relazione con l’ellenismo, sia per contrasto (1 e 2 Maccabei, parzialmente il
Siracide) sia per condivisione (
Gen 5: i patriarchi
Sal 16,12
Sal 37
Sal 41
Salmo 49,15-15
Qoelet
Sap
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