venerdì 19 dicembre 2025

NON AVEVANO FIGLI

 





 

Paolo Cugini

 

Essi non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni (Lc 1,6).

 

C’è un mistero, profondo e silenzioso, che attraversa la trama della nostra esistenza: quello della speranza che resiste oltre i confini della razionalità, della fede che osa credere laddove tutto sembra precluso. La storia di Elisabetta e Zaccaria si erge come un faro nella notte, narrandoci che l’impossibile può davvero diventare possibile. È una storia che parla di attese consumate dal tempo, di desideri sepolti dalla polvere della quotidianità, ma anche di svolte inattese che sovvertono ogni previsione umana. Meditare su questa vicenda ci conduce a riconoscere il valore inestimabile della speranza, capace di ridare senso e futuro dove tutto appariva irrimediabilmente perduto.

Elisabetta e Zaccaria vivono l’esperienza della sterilità e della vecchiaia, condizioni che nella cultura del tempo rappresentavano il sigillo definitivo sull’impossibilità di una discendenza, su una terra senza germogli e su un domani senza promesse. In questa condizione, la disperazione non è un sentimento passeggero, ma una compagna silenziosa che si insinua tra le pieghe dei giorni e appesantisce i sogni. Il grembo sterile di Elisabetta è metafora di tutte quelle situazioni umane dove la speranza sembra aver smesso di germogliare: storie interrotte, progetti svaniti, attese che si tramutano in rassegnazione. Anche la loro avanzata età è l’immagine di una vita che si approssima al tramonto, dove l’attesa di un miracolo appare quasi una follia. C’è una lezione sottile e profonda che ci giunge da Elisabetta e Zaccaria: quella di abitare la propria fragilità, di non fuggire dinanzi ai segni della mancanza, ma di sostarvi con coraggio. Imparare a convivere con i sintomi della morte, siano essi la solitudine, la delusione, la malattia o il vuoto, significa rimanere fedeli a se stessi anche quando le circostanze sembrano volerci strappare ogni speranza. Il loro attaccamento alla vita, pur nella prova, è già un atto di fede: non lasciano che la disperazione abbia l’ultima parola, ma continuano a rivolgere il cuore a quell’Oltre invisibile che può sorprendere.

Elisabetta incarna, con umiltà e fermezza, la forza silenziosa di chi non si arrende. La sua fede non è clamorosa né gridata, ma sussurrata giorno dopo giorno, in una perseveranza che non teme la polvere del tempo. Di fronte allo sguardo giudicante della società, al peso delle proprie domande, Elisabetta non perde la dignità né la dolcezza del cuore. Il suo coraggio è quello di rimanere aperta al dono, di custodire la possibilità anche quando tutto suggerirebbe di richiudersi. In lei si compie il miracolo della fiducia che non si spegne, una luce che arde sotto la cenere dell’abitudine.

All’improvviso, il vento del Mistero scuote le tende della loro casa: là dove c’era aridità, ora sboccia la vita; dove regnava il silenzio, ora risuona la gioia. La sofferenza di Elisabetta si trasforma in canto, il suo grembo in culla di nuova speranza. La realizzazione di un sogno impossibile non è solo il compimento di un desiderio personale, ma il segno che il Mistero della Vita sa sorprendere e capovolgere ogni pronostico umano. La gioia che sgorga è quella che nasce dall’attesa fedele, dal saper rimanere vigili anche quando la notte sembra interminabile.

In questa storia risplende la logica paradossale del Mistero: l’amore si manifesta proprio laddove le ombre sembrano più fitte, la vita germoglia dal deserto, la grazia si insinua nelle crepe della nostra vulnerabilità. La fede di Elisabetta e Zaccaria non è cieca ostinazione, ma apertura fiduciosa all’imprevedibile. È la luce di un Amore che non si lascia sconfiggere dalle tenebre, che trasforma la notte in aurora. Questa luce ci insegna che il senso profondo della vita non si coglie con i calcoli umani, ma si rivela a chi sa attendere e accogliere. La storia di Elisabetta e Zaccaria ci invita a riscoprire il valore della preghiera silenziosa, della meditazione che scava negli abissi del cuore e fa spazio al Mistero. È nel raccoglimento che si apprende l’arte di ascoltare ciò che la vita suggerisce sottovoce, di distinguere la voce della speranza dal brusio delle paure. Il cammino spirituale non è fuga dalla realtà, ma immersione più profonda in essa, fino a riconoscere nella trama degli eventi un disegno più grande. Pregare è affidare al Mistero le proprie ferite, meditare è lasciarsi plasmare dalla fiducia che, anche quando non si vede, qualcosa sta già germogliando.

La storia di Elisabetta e Zaccaria si fa oggi profezia e provocazione: invita ciascuno di noi a credere nella possibilità, a non temere i deserti interiori, a non arrendersi quando tutto suggerirebbe di smettere di sperare. In un mondo spesso dominato dall’efficienza e dalla logica del risultato, la spiritualità ci ricorda che la vita fiorisce proprio laddove impariamo ad attendere, a fidarci, a lasciarci sorprendere. Che il coraggio di Elisabetta ci sia di esempio: nella notte, la luce attende solo di essere accolta. E forse, proprio quando tutto sembrerà perduto, il Mistero ci sorprenderà ancora, facendoci intravedere che l’impossibile è lo spazio dove la speranza prende dimora.

 

 

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