Riflessione profetica sulla cecità interiore e il
cammino verso la luce
Paolo Cugini
Gesù allora si fermò e
ordinò che lo conducessero da lui. Quando fu vicino, gli domandò: «Che cosa
vuoi che io faccia per te?». Egli rispose: «Signore, che io veda di nuovo!». E
Gesù gli disse: «Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato»
(Lc 18, 39-44).
C'è
un male sottile che serpeggia tra le pieghe dell'anima, un'ombra che si insinua
silenziosa e che, col tempo, rischia di tramutarsi in condizione permanente: la
cecità della coscienza. Non è una malattia visibile, non lascia segni tangibili
sulla carne, ma colpisce più in profondità, accecando la nostra capacità di
vedere, di distinguere, di orientarci nel mare agitato della vita. Non si
guarisce dalla cecità della coscienza restando fermi, immobili, ad aspettare
che il miracolo cada dall’alto come pioggia in una notte d’estate. Non basta
nemmeno implorare una guarigione, incastrati nella ripetizione di parole che
non generano vero cambiamento. È necessario compiere un movimento, un’uscita
consapevole dalla propria condizione di cecità, un atto di volontà che ci
spinga verso la sorgente della luce. Eppure, spesso le nostre gambe tremano, il
cuore esita, la mente si confonde. C’è bisogno di qualcuno che ci prenda per
mano, che ci aiuti ad arrivare a chi può restituirci la vista e mostrarci la
luce. Nessuno si salva da solo: la solidarietà, l’amicizia, la guida di chi ha
già percorso quel sentiero diventano fari nel buio.
C’è
un pericolo grave che incombe su chi indugia troppo nell’oscurità della propria
condizione interiore. Quando la mente si abitua troppo a vivere nelle tenebre,
si rischia di scambiarle per il proprio orizzonte naturale, di perdere la
memoria stessa della luce. In quel momento, si consuma il dramma del non
ritorno: l’abisso che trasforma il buio in normalità, che rende incapaci di
desiderare la verità, la bellezza, la vita piena. Prolungare la permanenza
nelle tenebre, lasciando che la negatività pervada ogni aspetto dell’esistenza,
danneggia irreparabilmente la nostra capacità di vedere, di sperare, di osare.
Siamo responsabili delle nostre oscurità, come delle nostre resurrezioni.
Nel
Vangelo di Luca, il cieco lungo la strada non rimane in silenzio. Egli grida,
rompe la quiete della disperazione dando voce al desiderio di luce. Quel grido
è il primo atto della volontà, la scintilla che accende la possibilità di
cambiamento. Non è Gesù a raggiungere il cieco, bensì il cieco che, aiutato, si
avvicina al Maestro. È la volontà di uscire dalla propria zona d’ombra che apre
la strada al miracolo. Non esistono miracoli o interventi improvvisi che
possano risolvere ciò che ci affligge se non siamo noi, innanzitutto, a
desiderare la guarigione, a compiere il passo fuori dalle nostre tenebre. Siamo
noi i protagonisti dei nostri stessi danni, ma anche delle nostre resurrezioni.
Nessuno può scegliere per noi: la libertà, questa terribile e meravigliosa
dote, ci pone davanti alla responsabilità delle nostre scelte. L’uscita
volontaria dal male è il segno di una fede viva, che non si limita a parole, ma
diventa azione, movimento, cambiamento concreto. È la fede che ci salva, perché
è la risposta personale al dono gratuito di amore che il Mistero ci rivela in
Gesù. Non si tratta di una fede passiva, ma di una fede che attinge alla
sorgente della luce e dell’amore dentro la storia, ogni volta che lo vogliamo.
La
profezia che oggi risuona per ognuno di noi è un invito coraggioso: non restare
immobili nella notte della coscienza, non identificare mai il buio con
l’orizzonte possibile della vita. C’è una fonte di luce, di amore, di salvezza,
alla quale possiamo attingere, ma solo se lo vogliamo davvero. Sta a noi
iniziare il cammino, gridare, uscire, cercare la luce con tutto il cuore.
Perché solo lì, sulla soglia tra ombra e chiarore, avviene il miracolo della
rinascita.
Nessun commento:
Posta un commento