Dt 8, 2-3. 14-16; 1Cor 10,16-17Gv 6,
51-58
Paolo Cugini
Perché
la liturgia ci fa leggere questo brano nel giorno in cui celebra la solennità
del Corpus Christi? Non sarebbe stato meglio leggere il brano di Es 12, che
ricorda la prima Pasqua ebraica? Anche il Vangelo di questa liturgia non
riporta la narrazione dell’ultima cena di Gesù, ma Gv 6, che è uno dei capitoli
che riporta il significato dell’eucaristia.
Quindi, anche questo testo del Deuteronomio vuole offrire un contenuto
d’interpretazione del rito, ed è in questa prospettiva che lo leggiamo.
Ricordati
di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi
quarant'anni nel deserto (Dt 8,2).
Prima
di tutto ci dev’essere un ricordo di un cammino, che è il cammino della nostra
vita che non è casuale, ma che è guidato dalla mano provvidenziale del Signore.
Si entra nell’assemblea della domenica con questo ricordo, con la percezione di
essere in un cammino che, per sua natura è lungo. Viene detto anche, che il
cammino si compie nel deserto e ciò significa che non è rettilineo, non è una
progressione veloce verso una meta visibile, ma un cammino in cui spesso ci si
perde, perché nel deserto non ci sono indicazioni, non s’intravede la meta. Nel
deserto l’unica certezza che si ha è quello che si ha nel cuore, per questo
diventa importante il versetto successivo: per umiliarti e metterti alla
prova, per sapere quello che avevi nel cuore. Non si può far parte
dell’assemblea eucaristica se non si ha il contatto con il proprio cuore, con
la propria coscienza, con la consapevolezza di quello che siamo, delle nostre
fragilità, di quello che abbiamo nel cuore. Tra le cose che troviamo nel cuore
c’è anche il nostro modo di cogliere Dio, di pensarlo. Il cammino nel deserto
della vita dovrebbe condurci a distruggere gli idoli che ci simo costruiti, le
fantasie su di Lui, per fare spazio alla sua manifestazione, a come Lui
desidera presentarsi a noi., Per questo, il tempo di deserto, che è il senso
del cammino della nostra vita, è tempo di umiliazioni, perché dovremo accettare
che ci siamo sbagliati su di Lui, che abbiamo lasciato spazio affinché gli
altri ci convincessero della loro religione, quella religione sociale che
troviamo a buon mercato sin dalla nascita; quella religione di comodo che
nessuno mette in discussione, sino a quando nel deserto della vita scopre che
il dio di quella religione corrisponde solo ad interessi umani, tremendamente
umani. Questo tipo di umiliazione diviene fondamentale per lasciare spazio al
pane di vita, che è il Vangelo, la Parola del Signore, che è la vera vita, la
luce, l’amore di cui siamo plasmati e che è il senso profondo della nostra
vita, del nostro cammino.
Chi
mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui.
È comoda pensare che il rito, la sua
partecipazione, risolva tutti i problemi della vita cristiana. Come se nel
culto si risolvesse la vita cristiana, Sventrare il culto per cogliere
l’essenza del messaggio che contiene: è il senso della liturgia di oggi. Di che
cosa sta parlando Gesù? Di che sangue e di che carne sta parlando? Certamente
non stava mettendo il discorso sul piano materiale, cioè non stava parlando
delle sue fibre muscolari, del suo plasma, piastrine, dei suoi globuli rossi e
bianchi, così come probabilmente intendevano i suoi interlocutori. E allora di
cosa parlava, a cosa alludeva? La sua carne è la sua persona, il suo stile, il
suo modo di stare nel mondo in mezzo agli altri; le sue scelte, la sua sete del
Padre. Mangiare la sua carne vuole dire, allora, assimilare questo specifico
stile di essere presente al mondo nella storia degli uomini e delle donne,
masticarlo, ruminarlo, che vuole dire pensarlo, assimilarlo, meditarlo,
dedicare tempo per farlo proprio.
E cosa vuole dire Gesù quando invita
gli ascoltatori a bere il suo sangue? Che cosa simbolizza il sangue nella
tradizione giudaica? La vita. Quanto sangue vedevano gli israeliti quando
andavano al tempio! Il Sangue di Gesù è la sua vita donata gratuitamente. Bere
il suo sangue significa questo: pensare a come ha donato la vita, amando i suoi
che erano nel mondo sino alla fine; amando sino al punto da lasciarsi
consegnare al nemico da uno dei suoi discepoli. Bere il suo sangue significa
questo, vivere in modo gratuito e disinteressato, donando la vita per le
sorelle e i fratelli, soprattutto i più bisognoso, per coloro che non contano
nulla, per lo meno per la società. Più che moltiplicare delle messe, si tratta
di aiutarci a vivere ciò che riceviamo nella celebrazione eucaristica: un pane,
una vita spezzata per noi e un sangue versato per amore di tutti, affinché
tutti possano avere la possibilità di uscire dai torbidi cammini religiosi per
entrare umilmente nel cammino del Signore. Dietro a Lui.
Poiché vi è un solo pane, noi siamo,
benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all'unico pane (1 Cor 10,17). Partecipare dell’unico
pane fatto da molti grani di frumento e dell’unico vino costituito da molti
acini significa che nella comunità del Signore la diversità non è un problema,
ma una necessità. È Perché lo Spirito Santo suscita carismi diversi da mettere
a servizio della comunità che questa stessa rende visibile al mondo la
comunione, segno della presenza del Signore in mezzo a noi. Veniamo alla mensa
di Gesù, invitati da Lui, per cibarci di quell’unico pane che trasforma la nostra
umanità e la rende capace di cammini nuovi di comunione.
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