venerdì 21 giugno 2024

MEDITAZIONI SULLA VOCAZIONE DI MOSE’

 




 

Paolo Cugini

(gennaio 2005- Monastero delle carmelitane di Bonfim-Bahia Brasile)

 

Contenuto spirituale di Es 3-4

Le 4 obiezioni domande di Mosè a Dio, all’inizio della sua vocazione:

1 Es 3,11: chi sono io per andare dal Faraone e per togliere gli Israeliti dall’Egitto?

È la obiezione logica dinnanzi alla proposta di Dio che supera le mie aspettative, previsioni. Soprattutto supera l’idea che ho di me stesso. Questo è un dato importantissimo: crescendo nel tempo i faccio un’idea che di me stesso che nonostante tutto rimane al di qua dell’idea che Dio ha di me. L’idea che mi costruisce in contatto con il mio ambiente, la mia famiglia, gli amici, il lavoro è relativo a questo ambiente determinato a questo ambiente. L’entrata di Dio nella mia storia spezza la […] della mia identità che mi sono costruito e mi colloca su di un altro orizzonte, che non avevo previsto, pensato, collocato. Per certi aspetti nessuno è preparato ad accogliere una proposta del genere. Se  vogliamo riflettere nella storia di Mosè c’erano già i segni del liberatore. Quando, per esempio, uccide l’Egizio perché stava maltrattando un ebreo, in questo episodio si può vedere un germe la vocazione del futuro liberatore. Con una grande differenza: qui è Mosè che prende l’iniziativa e, scontrandosi con la dura realtà, fugge per paura delle conseguenze. Nell’evento del roveto ardente l’iniziativa è di Dio. È Dio che lo chiama per nome e lo investe di una missione di liberazione del popolo d’Israele. Che cosa significa, allora, questo incarico di YHWH e Mosè? In primo luogo una fedeltà, una continuità. Il Dio che si manifesta a Mosè è lo stesso che si era rivelato ad Abramo, Isacco e Giacobbe: è il Dio dei padri! Dicendo così Dio fa riferimento con una memoria storica, ad eventi che appartengono al popolo d’Israele: non è quindi un Dio sconosciuto, anonimo, impersonale. È il dio della relazione, del dialogo personale. È il Dio libero che sceglie chi vuole. Abele invece di Caino, Giacobbe invece di Esaù, Efraim invece di Manasse, Giuseppe invece… È il Dio che sceglie non secondo criteri e logiche umane, ma secondo criteri che sono nascosti. Certamente la scelta di Dio su un uomo per chiamarlo ad una missione non è secondo il merito o, tantomeno, le qualità personali. Queste sono caratteristiche che già sono presenti nell’apparizione di Dio a Mosè, ed è a questa storia, a questa identità che YHWH fa riferimento per manifestarsi e per auto presentarsi.

Attualizzando questo dialogo, questa prima domanda, che cosa si può dire? Che per avere la certezza che la chiamata viene da Dio e non è frutto di un mio desiderio o di una mia illusione o di altri desideri, ci vuole un minimo di conoscenza del passato del popolo d’Israele, Il Dio che chiama Mosè per liberare il suo popolo è questo: è il Dio di Isacco, Giacobbe Abramo, Giuseppe. Se è questo vuole dire che non è un altro. La conoscenza della storia che Dio ha costruito e nel quale Dio stesso si è manifestato distrugge gli altri dei, gli idoli che la mia fantasia ha costruito. Dio si fa presente nella mia storia e fa riferimento ad un passato. Questo è già un dato significativo. Il modo di Dio di presentarsi all’uomo è delicato e attento affinché l’uomo non l’identifichi con un oggetto estraneo a sé. Guardando attentamente a come dio si è presentato a Mosè non c’è un’eccessiva sottolineatura della trascendenza, ma anche della storia, della sintonia di Dio con l’uomo, della delicatezza. Mosè con il gregge di pecore entra nel deserto giungendo al monte di Dio, l’Moreb (che una traduzione identifica con il Sinai). Già qui ci sono vari dati interessanti. Il primo è il fatto che se l’Moreb è chiamato “monte di Dio”, ciò significa che c’è già una tradizione, un costume che fa di questa montagna qualcosa di speciale. C’è dietro cioè, già una storia di incontri di Dio con l’uomo. Che tipo d’incontri la Bibbia tace, ma il semplice fatto di definire l’Oreb il monte di Dio, lo dice lunga sulla differenza di questa montagna dalle altre. Il secondo dato interessante è l’entrata di Mosè nel deserto Schökel, nella Bibbia portoghese traduce: “transumando nel deserto. È bello questo transumare, maggiore quasi senza una nota di Mosè per il deserto, quasi guidato dalle stesse pecore segue di una libertà e di una spogliazione interna che lo predispongono al dialogo con Dio. Nel deserto, il luogo per antonomia dell’incontro con Dio. Luogo di silenzio e solitudine in cui l’uomo è predisposto ad entrare in sé stesso, ascoltarci e ascoltare il silenzio. È simpatico pensare che, preso per i suoi pensieri, in mezzo nella riflessione, Mosè si è lasciato guidare dalle pecore al monte di Dio, l’Oreb. […] sentimento, che si è rivelato ricco di novità e poi Dio è apparso! È apparso con una delicatezza impressionante. È apparso in punta di piedi, per non turbare Mosè nei suoi pensieri. È apparso in un roveto ardente che, secondo una antica tradizione è un arbusto selvaggio umile, disprezzato. Più silenzioso e delicato di così è impossibile! Lo ha distolto dai suoi pensieri con un arbusto inutile, selvaggio, disprezzato. Non è questo un versetto, un evento di […] vangelo? Non si può dare a questo versetto un valore messianico? Il Dio dei padri, di Abramo, Isacco e Giacobbe è lo stesso che si è manifestato a Mosè in un roveto ardente ed è il medesimo che si manifesterà all’umanità in una Mangiatoia. Dio è grande nella semplicità. Per manifestarsi non ha bisogno della grandezza umana, ma fa grande l’uomo rivelandosi nella semplicità.

Un altro dato che mi chiama attenzione è che l’incontro tra Dio e Mosè è frutto della sola volontà di Dio. Mosè non si è preparato per questo incontro. C’è una volontà assoluta di Dio che precede tutto. Mosè non si preparato: ci ha pensato Dio. C’è una tradizione che dive la vita di Mosè in 3 momenti:

a)   0-4 anni: vita in Egitto fino all’uccisione dell’Egiziano

b)   40-80 anni  vita nel deserto come pastore, sposo di Sefora

c)   80-120 anni dall’incontro con Dio nel deserto al viaggio nel deserto con […]

Ciò significa che Mosè aveva 80 anni quando Dio l’ha chiamato per compiere la sua missione. Non l’ha scelto nel fiore dell’età, ma alla fine. E poi, come sappiamo dai versetti successivi, non l’ha scelto per delle particolari doti oratorie: era balbuziente. Solo un dato è certo: Dio l’ha scelto e basta.

Con un passato così, con una storia così la domanda di Mosè è pienamente giustificabile: “Chi sono io per andare dal faraone e per togliere gli israeliti dall’Egitto?” La chiamata personale di Dio getta immediatamente una luce sul passato di Mosè, sulla sua storia. Esiste una discrepanza infinita tra quello che lui pensa di essere (aveva 80 anni) e quello che Dio sa di Lui e vuole che lui sia.

Questa è vocazione: il mistero di una chiamata personale, di una scelta che mi supera. Cioè significa che se misuro la chiamata sulle mie forze, le me mie capacità, i miei pregi, i miei limiti, sono pazzo. La chiamata di Dio non si basa sul merito, sulle qualità personali, sulla preparazione personali, ma è azione libera di Dio

 

 

Problema serio: c’è tutta una riflessione vocazionale che viene fatta da alcuni anni, soprattutto da alcuni “profeti” della liberazione che nega alla vocazione il dato personale, il dato biblico della scelta, per cui non si capisce più il motivo di una vita consacrata. Su questa linea è per esempio J. Comblin. La sapienza è un dono che viene dall’alto: donami, Signore, questa sapienza perché io possa cogliere la profondità della Tua Parola.

 

(Riprendendo la riflessione su Es 3).

La chiamata di Dio produce una riflessione, un’entrata in se stessi, una ricerca di senso, unna ridefinizione della propria identità che solamente la risposta nel tempo può definire. L’identità, infatti, da questo momento in poi è data dall’intensità della risposta personale. Non è che Dio non tenga conto del passato e della storia personale. Al contrario, come già diceva, la chiamata offre una profonda chiave di lettura unitaria del proprio passato. Il fatto centrale, però, è che osservando quello che accade in Mosè, l’identità personale è contenuta impotenza nella chiamata, che solamente l’intensità, la volontà, la forza della risposta realizzerà.

“Io sto con te”. Questa è la risposata di Dio, alla domanda imbarazzante di Mosè. Dio non lo consola facendo leva sulle sue qualità, incoraggiandolo mostrandogli i suoi meriti. No, niente di questa consolazione umana. Al contrario Dio mostra a Mosè che d’ora innanzi tutta la sua vita, la sua azione, il suo pensiero dovrà confidare sulla presenza di Dio. Anche questo è un dato estremamente interessante e significativo della dinamica della chiamata.

Attualizziamo: il chiamato, colui che Dio sceglie, per la sua missione deve abituarsi a non contare sulle proprie forze, ma sulla forza di Dio, non sulle proprie capacità, ma sulla presenza storica di Dio. Il vocazionato è per autonomia colui che si affida a Dio! Pena il fallimento della missione.

“Io sto con te”: vuole dire anche, abituarsi ad un dialogo profondo con il mandante della missione; cercare in questo dialogo che è la preghiera, di ripostare tutti i problemi della missione perché siano risolti non come criteri umani, ma come da Dio stesso. Altro dato interessante è che, così come Schökel traduce i verbi sono al presente e ciò significa che la vocazione di Mosè non ha semplicemente un inizio e una fine. O meglio, nella dinamica della vocazione Dio non si trova solamene all’inizio e poi, corre per aspettarmi alla meta. “Io sto con te” significa un accompagnamento personale che mi deve aiutare a spogliarmi delle mie sicurezze personali per apprendere ed affidarmi quotidianamente, ogni istante in Dio. “Io sto con te” è una promessa grandissima. Del resto sono le stesse parole che l’Angelo Gabriele dice a Maria nella scena evangelica dell’Annunciazione “rallegrati piena di grazia, il signore sta con te”. Abituarsi a convivere con questa presenza, che è pienezza di grazia: è il senso della vocazione. Questo versetto indica anche il cammino che gli adatti alla formazione vocazionale dovrebbero compiere: aiutare il vocazionato a stare alla presenza di Dio, a gustare questa presenza, a coglierne la profondità, la totalità. L’autenticità della chiamata la si vede nella passione che i chiamato mette per stare alla presenza del Signore, per cercarla con tutte le forze e a tutte le ore.

“Io sto con te” rivela, inoltre, un altro dato significativo. La chiamata è relazione con Dio. Nasce da un appello che esige una risposta. È la dinamica del dialogo che mi apre al trascendente, al divino. Anche questo dato è portatore di significati. Dio vuole realizzare qualcosa e ha bisogno di me, conta con me. Nel presente della vita mi mostra il cammino che devo compiere. In realtà nella Chiamata di Mosè Dio gli […] l’orizzonte generale della sua vocazione: andare dal Faraone per togliere dall’Egitto il popolo d’Israele. Solo che questa chiamata andrà definendosi progressivamente con il tempo. La realizzazione del piano di Dio passerà attraverso e continue ribellioni del popolo, le intercessioni di Mosè, le sorprese del cammino. Ancora una volta: la vocazione non è un dato prefissato nel tempo con dinnanzi un cammino lineare. E la capacità di camminare con Dio, apprendendo a confidare in Lui, ad affidarsi a Lui. È chiaro che sarà Mosè ad affrontare i problemi, a scontarsi con la durezza del popolo, ad affrontare i nemici. Ma in tutto e per tutto Mosè avrà l’appoggio di Dio. È Dio, la sua volontà che sta dietro a questo piano di salvezza. Terribile sarebbe sostituirsi a Lui, credersi il protagonista della missione. Per questo la vocazione si radica nell’oggi della storia, alla concretezza del quotidiano, nella realtà nuda e cruda della vita presente. “Io sto con te” è la consolazione alla quale Mosè sempre dovrà fare riferimento.

Perché è tanto importante insistere su questo aspetto? In parte l’ho già scritto, ma c’è un altro dato significativo. Difatti nel Vangelo di Matteo, quando Gesù si congeda dai discepoli: “Andate… Io starò con voi fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).

Tutto ciò che è avvenuto per Mosè, vale per i discepoli, per la Chiesa, la quale è tale solamente se vive questo rapporto costante con il Signore. Questa è la grande consolazione del discepolo: la presenza costane del Signore.

 

[Parentesi esegetica. Gesù è della discendenza di Davide e Davide è della Tribù di Giuda. Giuda è il 4° figlio di Giacobbe che ha avuto con Lia. Giuda in ebraico si scirve: hwdh che significa dar grazia (a Dio). Eucarestia, in cui celebriamo la Pasqua di Gesù, figlio di Davide della tribù di Giuda in greco significa “azione di grazia”. MI sembra estremamente significativa questa coincidenza].

 

[(Nota: le pecore sono animali che s’incontrano in tutti i passaggi importanti della storia della salvezza Mosè, Davide, Gesù (è il buon pastore; è l’agnello immolato). Anche le patriarchie erano pastori. Giacobbe quando andrà in Egitto per visitare il figlio Giuseppe e per rimanere in Egitto si alloggerà con la famiglia in Gessen (perché gli Egiziani considerano impuri i pastori) (nota di Schökel)]

Riprendo Es 3: questi versetti che sto commentando provocano una riflessione e delle domande dentro di me: Signore, Tu mi hai chiamato a servire la Tua chiesa per delle ragioni che solo Tu sai, hai visto il tuo servo De Paolo alla ricerca di Te o, in vari momenti si è perso? Mi chiedo: ho vissuto il mio ministero in Miguel Calmon come risposta ad una missione da Te affidatami tramite la Chiesa, o mi sono sostituito, impossessandomi della missione? Perdonami Signore per tutte le volte che non ti o obbedito.

 

Riflessioni Vocazionali su Es3, meditando sulle domande di Mosè a JHWH.

2) Se loro (gli egiziani) mi chiederanno come si chiama, che cosa gli risponderò (Es 3,13).

Dopo essersi interrogato sulla propria identità, l’attenzione di Mosè si rivolge adesso sull’identità di Dio. La chiamata provoca un cammino nell’intimo del mistero di Dio. Chi sei Tu, che mi chiami e mi mandi a compiere una missione tanto grande, qual è la tua identità, il Tuo nome. La richiesta di Dio che stimola un cammino di interiorizzazione in Mosè, provoca come conseguenza un cammino di ricerca di Dio. Senza dubbio Mosè già aveva sentito parlare di Dio. Le tradizioni dei patriarchi erano conosciute e quindi una vaga idea di chi era Dio. La chiamata provoca un cammino di conoscenza di Dio che distrugge gli idoli e le fantasie su Dio per una conoscenza autentica e profonda di Lui. Perché è tanto necessario questo cammino alla ricerca di Dio? Perché la vita e l’amore vengono da Dio e se non la conosco bene rischio di rivolgermi a sogni, illusioni che mi possono dare nulla e mi smontano. C’è un altro sdato significativo. JHWH è il Dio personale, che chiama per nome. Il rapporto personale di amore e amicizia richiede la conoscenza di entrambi. Curioso notare che prima di essere chiamato per questa missione Mosè non si era interessato nell’approfondire la conoscenza di Dio e del suo nome. Ora lo cerca, vuole sapere, conosce chi è colui che lo sta inviando per questa missione. Costante è ancora una ricerca imperfetta, funzionale alla missione, ma è già un primo passo importante per quell’esperienza profonda di Dio che caratterizzerà la vita di Mosè da questo momento in poi. Il Dio che chiama per nome desidera farsi conoscere, rivelarsi e lo fa scegliendosi gli amici. Mosè è chiamato ad essere non solo l’esecutore materiale di una missione, ma l’amico di Dio, colui con il quale Dio parla “faccia a faccia”.

 

“Dio disse a Mosè: “sono colui che sono”. Così dirai agli Israeliti: “Io sono” mi invio a voi”.

Che cosa significa questo nome? Tanti commenti sono stati fatti. Ma per una riflessione spirituale che cosa significa questa autodefinizione di Dio? Senza dubbio, come sostiene Alonso Schökel il significato del come è quello di colui che l’essere e fa esistere. Yahweh è una forma passiva del verbo hw h=essere, esistere. In altre parole, Dio si definisce come l’assoluto, colui che non riceve l’essere da nessuno, ma che è lui stesso la fonte dell’essere e della vita. Allora Mosè si trova dinnanzi la fonte stessa della sua vita, dal suo esistere della sua storia. La conoscenza di Lui diventa motivo per penetrare in profondità il senso pieno della vita. Per questo è importante conoscere Dio, così come egli si è manifestato e non appena segnando un istinto interiore umano. Il Dio dei padri, il Dio di Abramo, Isacco, e Giacobbe non è appena uno degli dèi possibili, una delle tante immaginazioni, illusioni possibili, ma. È la fonte della vita. E Mosè non si trova dinnanzi ad un semplice enunciato teorico IHWH radica nella storia, la verità della propria manifestazione. Difatti nei versetti successivi JHWH mostra che cosa accadrà nel futuro, quale sarà l’atteggiamento del popolo di Israele e la reazione del faraone tutto si compie nel tempo e la realizzazione del piano di Dio nella storia sono la prova della Verità della sua Parola. E così Mosè dovrà apprendere e confidare totalmente nel Signore, ad appoggiarsi alla sua Parola.

v. 16-22: Dio invita Mosè a fare memoria al popolo d’Israele degli eventi che hanno determinato il cammino del popolo, eventi che hanno come protagonista Dio. Forse memoria non è semplicemente raccontare una storia, ma la storia, l’unica storia che ha segnato la presenza di Dio in mezzo al popolo. Non a caso Sant’Agostino nelle confessioni diceva che la caratteristica di Dio Padre è la memoria. Ricordando gli eventi il popolo scopre il passaggio di Dio nella storia, un Dio che non è più […] agli altri dei, ma diventa unico, perché è il Dio che ha seguito con la sua presenza quegli eventi che si sono inseriti nel popolo d’Israele facendolo appartenere a Dio.

In questa narrazione di ricordo degli eventi passati emerge anche il motivo della chiamata di Mosè. Perché, infatti, Dio ha chiamato Mosè? “…Vede come gli Egiziani mi trattano. HO deciso di togliermi dall’apprensione degli egiziani e farmi salire al paese dei cananei…” (Es 3,16-17). La stessa riflessione si trova in Es 2,23-25: “Il grido di aiuto degli schiavi giunsero a Dio. Dio ascoltò i loro lamenti e si ricordò dell’alleanza fatta con Abramo, Isacco e Giacobbe; e vedendo gli Israeliti, Dio s’interesso per loro” (traduzione di Schökel).

Sono 4 verbi che provocano la chiamata di Mosè da parte di Dio: ascoltare, ricordare, vedere, interessarsi. L’ascolto delle grida del popolo provoca il ricordo della storia passata, dell’alleanza fatta con i patriarchi d’Israele. Questo ricordo provoca un movimento che conduce Dio a vedere la visione un interesse per la causa degli schiavi Israeliti. Rimane in tutti i modi aperto un problema cruciale fin qui risolto! Com’è che storicamente si è manifestato l’interesse di Dio per la sofferenza del suo popolo? La risposta al problema si incontra pochi versetti più avanti. Nella prima parte, infatti del dialogo fra JHWH e Mosè, JWHW dice: “Ho visto l’oppressione del mio popolo in Egitto, ho ascoltato i suoi lamenti contro gli oppressori, ho prestato attenzione alle sue sofferenze e sono disceso per liberarli dagli egiziani…” (Es 3,7-8a). in questo versetto ci sono due aspetti che destano la mia attenzione. Il primo è il fatto che, confrontando questo testo con Quello di Es 2,23-25 si può notare che è avvenuta un’interpretazione.  Infatti, dove prime c’erano lamenti ora si trovano lamenti di oppressione. È l’oppressione la novità. Quelli che al tempo di Giuseppe erano stati i benefattori adesso sono oppressori. Per questo il popolo grida. Da libero è diventato schiavo e i padroni stanno rendendo loro la vita insopportabile, pesante. Attualizzando e spiritualizzando: è facile capire perché questi versetti siano diventati così importanti nel contesto dell’America latina. Richiami di schiavi, di poveri, senza terra, casa, diritti basilari grida giorno e notte al Signore. C’è un oppressore che sta rovinando la vita di milioni di esseri umani. Questo testo insegna che Dio non rimane insensibile: ascolta, si ricorda della storia dia amore e di alleanza con il proprio popolo, vede l’oppressione e s’interessa. È in quest’ultimo verbo che si nota la seconda novità del testo di 3,7-8 rispetto a Es 2,23-25. Di fatto Dio s’interessa dal popolo Scendendo. Dio è sceso dal cielo. È bellissimo perché ricorda il mistero dell’incarnazione “E il verbo si fece carne e abitò tra noi” “(Gv1,14). La liberazione del popolo dalla schiavitù passa attraverso la discesa di Dio. Dio che dal cielo scende: e cosa fa? Chiama Mosè. La chiamata di Mosè è provocata dalle grida del popolo. Non ci sarebbe la vocazione di Mosè senza le grida del popolo d’Israele. Tra la vocazione di Mosè e il popolo d’Israele c’è un legame intrinseco. Questa è la differenza tra la discesa di Dio nell’Esodo e la discesa del Verbo. La Dio è disceso e ha chiamato Mosè per guidare il popolo fuori dall’Egitto. Qua il verbo si è fatto carne e Lui stesso è venuto ad abitare in mezzo a noi per guidarci all’incontro con il Padre.

Si possono attualizzare questi versetti dicendo che la vocazione al sacerdozio è legata al popolo di Dio? Forse. Dove il popolo chiede Dio suscita operai per la sua messa. Posso guardare alla storia di Mosè per capire qualcosa della mia chiamata? Credo di sì. Quali sono gli elementi della vocazione di Mosè che mi possono aiutare nella valutazione della mia vocazione?

1.   La dimensione (psicologica introspettiva: la vocazione (chiamata) mi conduce ad un viaggo dentro me stesso, la mia storia, fornendomi allo stesso tempo una chiave di lettura unitaria (è accaduto ciò?)

2.   La dimensione teologica: la chiamata produce un movimento fuori di me per conoscere colui che mi chiama. È la ricerca sulla natura, identità di Dio, che non si può non placare. La preghiera, le ore dedicate allo studio e alla riflessione sono in questa direzione.

3.   La dimensione storica: l’incontro personale con JHWH mi conduce ad una memoria storica che mi inserisce nel cammino storico del popolo d’Israele. È la chiamata che m’inserisce in questa storia secolare. Il sacerdote è, allora, l’uomo della memoria, colui che ricorda il suo passato e il passato del popolo a lui affidato. Tutto ciò non per una semplice nostalgia ma perché ricordando possa riconoscere, […] la presenza di Dio nella storia. Il riconoscere in questa prospettiva diventa, si trasforma in un processo di rinvenimento.

4.   La dimensione ecclesiale: così come la vocazione di Mosè è scaturita dal grido di oppressione del popolo d’Israele, la stessa cosa si può dire per la vocazione sacerdotale. Il prete è a servizio di una comunità, di una chiesa, di un popolo in cammino di liberazione.

5.   La dimensione sociale: la sensibilità di Dio con la sofferenza del popolo d’Israele diventa sensibilità di Mosè. Il sacerdote è colui che non sopporta vedere il “suo” popolo soffrire. La Chiesa diventa allora un popolo che cammina per liberarsi dall’oppressione.

 

Voltando a Es 1 Terza domanda di Mosè a JHWH.

 

3 ”E se non crederanno in me e non mi daranno attenzione, e se diranno che il Signore non mi è apparso?” (Es 4,1).

La terza domanda di Mosè pone l’attenzione sul popolo. Abbiamo visto come la chiamata in promo luogo si ripercuote sullo stesso Mosè, sulla sua identità, il suo passato, la sua storia. In secondo luogo, la chiamata produce un movimento verso il mistero di Dio, rivelando che il Dio conosciuto fino ad ora era solamente un […] di tradizioni. Ora come terzo momento la chiamata pone in discussione il rapporto di Mosè con il popolo di Israele. In fin dei conti l’obiezione di Mosè è giusta: lui e della stessa razza del popolo, non ha nulla di speciale rispetto agli altri. Ciò significa che i primi a dubitare dell’autorità di Mose non saranno gli egiziani, ma la gente d’Israele. La vocazione colloca Mosè in una posizione di comando nel popolo, senza che il popolo lo abbia eletto. Come fa il popolo a capire che in quella scelta c’è la volontà di Dio? È questo il problema di Mosè.

Attualizzando: la chiamata o, meglio, la risposta alla chiamata deve produrre una trasformazione così profonda da essere riconoscibile dal popolo di appartenenza (famiglia, amici, ecc…). La verità della chiamata stai in una trasformazione (invisibile agli occhi umani) che viene percepita da coloro che riconoscono dalla nascita. Anche perché Mosè non è inviato al guidare un popolo straniero, Bensì il proprio popolo. In risposta a queste perplessità di Mosè, JHWH dà tre segni: il bastone che si trasforma in serpente, la mano che si ammala e poi guarisce, l’acqua del Nilo che si trasforma in sangue. Che cosa significano questi segni? In primo luogo, che si tratta di segni esterni, di poteri non del tutto eccezionali visto che i maghi del faraone riuscivano a fare la stessa cosa. Nel finale del capitolo 4 il testo dice che il popolo credette a questi segni. Per Mosè quindi, questi segni non sono stati necessari per essere accettato dal suo popolo. Provo, allora, tentare di approfondire, per quello che mi è possibile il significato di questi segni. Il primo è il bastone che, come ricorda Alonso Schökel, era lo strumento di lavoro. Anche i discepoli di Gesù trasformano il loro strumento di lavoro: le reti da pescatori di pesci a pescatori di uomini. Schökel dice che si tratta di trasmutazioni. Il primo segno dovrebbe avvenire allora nel proprio ambito di lavoro. L’a mano è l’origine dell’azione e diviene scolorita, come senza sangue. Che cosa significa? Non saprei. La stessa ignoranza riguarda anche il terzo segno, quello dell’acqua. In ogni modo, il vocazionato, accompagnando il testo ha diritto a chiedere dei segni a JHWH perché diventi visibile, agli occhi del proprio popolo, una differenza di posizione in mezzo a loro. Per Mosè si tratta del servizio della guida. Sono dei segni esterni che confermano una scelta operata da Dio. Da quello che emerge dal testo, Dio esaudisce Mosè (anche se non è ben chiaro il significato intrinseco di questi segni).

 

4 “Mosè però insistette con il Signore: “Io non ho facilità di parole”… Mosè insistette. No, signore, manda chi non è […]

(Es 4,10-13).

 

È il rifiuto di essere differente di essere così tanto diverso da come si conosceva e da come lo vedevano gli altri. La chiamata dà una nuova identità, una nuova visione di sé, una specie di seconda pelle che in realtà è la vera pelle, ma alla quale non ci si è abituati. È il rifiuto di essere diversi da quelli della propria razza, popolo. Sono le domande che mi rivolgevo all’inizio del cammino: “perché, Signore, proprio io? Perché a me chiedi di rinunciare ad una vita […], ad un lavoro, una casa, una famiglia? Perché mi chiedi stare dinanti agli altri. Perché mi chiedi di diventare sacerdote di una Chiesa che mi scandalizza? Perché mi chiedi di andare ad inseguire una parola che io stesso non so vivere?”. Forse è questo il senso spirituale esistente della balbuzie di Mosè. Che cosa devo dire al Faraone? Che cosa parlare quando non ho parola? Sono i versi, gli anni della ribellione, in cui il vedersi diverso dagli altri pesa. E allora siccome non lo si accetta appieno si fanno compromessi, si cerca di camuffarsi per sentirsi normale, per essere accettati. Sì, anche perché la chiamata produce una solitudine che, all’inizio e a volte, per parecchio tempo, è sfinente, pesantissima. Sono i tempi in cui il vocazionato deve abituarsi ad indossare questa nuova pelle, fino al tempo in cui la sentirà definitivamente Sua.

 

Che cosa gli risponde JHWH dinnanzi a questa fortissima obiezione?

 

Il Signore si arrabbiò con Mosè e gli disse: “Aronne, tuo fratello il levita, so che parla bene… Parlagli e mettigli la mia parola nella sua bocca” … Egli parlerà al popolo nel tuo nome, egli sarà la tua bocca e tu sarai il suo dio” (Es 4,14-16a).

 

È una risposta che rigetta Mosè dentro il mistero stesso di Dio. La chiamata di Dio per fare di Mosè la guida del popolo d’Israele non è stata dettata da criteri umani. Difatti, dinnanzi alla risposta di Dio nuovamente si potrebbe obiettare: JHWH non poteva vedere Aronne, che bisogno c’era di Mosè? Se era Aronne che sapeva parlare bene e se era di un capace di parlare che c’era bisogno, perché questa intermediazione di Mosè? Ancora una volta non si può fare altro che ripetere che la chiamata è un mistero i cui criteri rimangono nascosti in Dio. Il fatto che “il Signore si arrabbiò con Mosè” sta a significare proprio questo: è inutile cercare alla tua umanità, o storia ragioni che sono da cercare altrove. Il chiamato deve abituarsi a cercare le risposte alle proprie domande non nella logica umana, ma in Dio. Ed è qui che nascono i problemi perché l’uomo non pensa come pensa Dio. E di fatto sarà in questa diversità di logiche che sorgeranno gli scontri tra il popolo d’Israele e Dio con in mezzo Mosè a fare da mediatore. Mosè sarà solo, ma in questa solitudine avrà la possibilità di assaporare l’amicizia di Dio. Si diventa amici di Dio se si accetta di seguirlo, di obbedirgli e entrare nel suo modo di pensare. Nel dialogo con Mosè, Dio spezza tutte le sue resistenze, lo sfianca fino a mostrargli l’impossibilità del rifiuto. D’ora innanzi la sua vita sarà il Signore e lui solo con la missione da lui affidata. Tutto il resto non conterà più nulla. È questo che Mosè capisce ed esegue immediatamente, tornando a casa e congedandosi dalla sua stessa famiglia nel deserto per tornare in Egitto ed affrontare il Faraone.

Non Si affronta il Faraone per vincerlo se non con mandato specifico di Dio e dopo un lungo cammino interiore.

Il significato della presenza di Aronne nella missione può significare la dimensione di comunione. Aronne non ha un rapporto diretto con Dio, Mosè si. Mosè dovrà dire al Faraone le Parole che Dio rivela a Mosè.

 

 

domenica 2 giugno 2024

X DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO Anno B

 




(Gn 3,9-15; Sal 129; 2 Cor 4,13-5,1; Mc 3,20-35)

 

Paolo Cugini

 

L’esperienza della vergogna non nasce esclusivamente dal senso di colpa, come spesso si pensa. C’è qualcosa di più profondo, che viene dalla nostra coscienza. Ogni persona, infatti, percepisce che cosa sia giusto o sbagliato. È come una voce interiore che ci allerta su alcuni elementi fondamentali dell’esistenza la cui trasgressione provoca un malessere interiore più o meno forte. Sfogliando le pagine dei mistici e anche dei filosofi troviamo questo dato importate sul quale le letture di oggi cercano di farci riflettere. La Chiesa insegna che c’è una voce dentro di noi che ci allerta sulla verità delle cose. È nella coscienza che Dio manifesta la sua volontà (Gaudium et Spes, 16). Anche se con sfumature diverse, lo stesso Immanuel Kant ribadiva questa stessa idea quando diceva: “il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me”.

Dopo che Adamo ebbe mangiato dell'albero, il Signore Dio lo chiamò l'uomo e gli disse: «Dove sei?». Rispose: «Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto». Riprese: «Chi ti ha fatto sapere che eri nudo? Hai forse mangiato dell'albero di cui ti avevo comandato di non mangiare? (Gen 3, 9s). Il libro della Genesi descrive questa realtà primordiale ed universale, con una narrazione che rivela la sensibilità dell’autore biblico sui temi legati all’esperienza umana. Quando agiamo contro un comando che ci è stato dato, facciamo l’esperienza del limite e della trasgressione. La disobbedienza al comando è un atto che non rimane nascosto, perché manifesta immediatamente la sua negatività e, allo stesso tempo, il riconoscimento implicito della bontà del comando. Mentre il comando che percepiamo interiormente agisce come forma di protezione umana e sociale, la disobbedienza ci pone in pericolo. Dopo la disobbedienza Adamo ha paura e si nasconde perché è nudo, vale a dire, percepisce la sua vulnerabilità. Il problema, a questo punto, diventa capire come resistere alla tentazione irresistibile della trasgressione del comando. Il tema è delicato perché la trasgressione non pone in gioco solamente la vita del trasgressore, ma anche delle persone vicine, della comunità. Una trasgressione, può, infatti, innescare una catena negativa di dissimulazione della verità.

Come può satana scacciare satana? (Mc 3,21). La situazione di mistificazione della verità, il livello di trasgressione è divenuto così radicato da confondere il portatore della verità, cioè Gesù, con il menzognero. È il tema del Vangelo di Oggi. Gesù viene accusato di essere posseduto da un demonio per quello che dice e fa. Ciò significa che non viene riconosciuto per quello che è Il contesto, comunque è drammatico perché all’inizio del brano si dice che i suoi lo vogliono prelevare perché si diceva che fosse “fuori di sé”. Alla fine della scena arrivano anche sua madre, i suoi fratelli e le sue sorelle, anche loro per portarlo via. È la descrizione di un dramma, del per orso della Parola di Dio manifestata nel cuore dell’uomo e della donna che non la riconoscono più come vera, autentica, mettendo in questo modo in discussione la stessa autenticità di Gesù come Figlio di Dio. C’è una menzogna così forte e profonda, che ha scardinato la verità al punto che non è più riconoscibile come tale.

Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre. Il discorso torna all’inizio. È possibile riconoscere la verità che viene da Dio solamente facendo quello che c’è scritto. La verità, dunque, prima di essere un precetto da imparare in modo razionale, è un’esperienza personale. C’è un nuovo percorso che l’umanità deve compiere, un nuovo cammino che Gesù è venuto a tracciare. D’ora innanzi il problema non consiste più nell’obbedienza a precetti e norme esterne, ma imparare ad ascoltare il cuore, la propria coscienza perché è proprio nella coscienza che Dio ha riversato il suo amore. È proprio questo il contenuto della profezia di Geremia 31,34 ripreso al capitolo 8 della lettera agli ebrei. Anche Sant’Agostino nel quinto secolo ripeteva lo stesso tema: “non uscire da te stesso, ma ritorna in te, perché è nell’interiore dell’uomo che abita la verità”.

Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno.  Infatti, il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili (2 Cor 4,14s). Anche Paolo è dello stesso parere. Si tratta di rafforzare l’uomo interiore, vale a dire la nostra coscienza, dedicando tempo al silenzio e alla meditazione. Solo così sarà possibile comprendere la verità che Dio ha impresso nel nostro cuore, riconoscerla e viverla di conseguenza.