martedì 30 settembre 2025

DECIDERSI

 



 

 

Paolo Cugini

 

Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, Gesù prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme (Lc 9,51).

 

Prendere decisioni in modo coerente: è questo che insegna Gesù. Spesso, la vita ci pone davanti a scelte difficili, talvolta dolorose, che non possiamo evitare. Gesù ci mostra, attraverso il suo esempio, quanto sia importante non fuggire dalle proprie responsabilità, anche quando esse comportano sofferenza e sacrificio. Il suo insegnamento ci invita ad affrontare le sfide della vita con coraggio e consapevolezza, senza cercare scorciatoie o vie di fuga. Arrivare a prendere decisioni con fermezza e coerenza non è un processo immediato. Richiede un cammino personale fatto di riflessione, di presa di coscienza di chi siamo e, soprattutto, di ciò che desideriamo profondamente. Dietro ogni scelta ponderata ci sono anni di maturazione interiore, interrogativi, silenzi, e momenti di ascolto autentico di sé. Anche la maturità spirituale e la capacità di scegliere con coerenza sono frutto di un lungo percorso.

Nella vita di Gesù questo cammino è evidente. Egli si alzava all’alba per pregare, oppure trascorreva intere notti in meditazione e dialogo con il Padre. Amava cercare luoghi isolati, lontani dalla folla, per trovare uno spazio di silenzio e raccoglimento. Il deserto, spesso citato nei Vangeli, diventa simbolo di questo incontro personale e profondo con Dio. Gesù ci insegna che dedicare tempo alla preghiera e alla meditazione è fondamentale per non agire d’impulso, ma in sintonia con la propria vocazione e percorso di vita. Un passaggio significativo si trova nel Vangelo di Luca (Lc 9,51), quando Gesù decide di intraprendere il cammino verso Gerusalemme, pur sapendo che lo attendeva la morte. Questa scelta, compiuta con grande coerenza rispetto a tutto il suo percorso precedente, dimostra una profonda responsabilità: egli non fugge, ma affronta il suo cammino con lucidità e determinazione. Gesù preferisce la fedeltà al suo messaggio, anche a costo della vita.

Uno dei grandi insegnamenti di Gesù è proprio questo: imparare a non fuggire da sé stessi, dalle proprie responsabilità, piccole o grandi che siano. Nella quotidianità, siamo spesso tentati di evitare ciò che ci mette alla prova, di rimandare le scelte difficili o di ignorare le conseguenze delle nostre azioni. Gesù ci invita invece a guardarci dentro, a riconoscere le nostre paure, e ad affrontarle con maturità. Solo chi ha il coraggio di assumersi le proprie responsabilità può crescere davvero. Oltre all’esempio concreto, Gesù ci offre anche un metodo per porre scelte coerenti nella nostra vita, soprattutto nei momenti delicati e senza ritorno. Dedica tempo alla meditazione e alla preghiera, impara a conoscerti, evita gesti impulsivi e privi di senso, ma agisci sempre in coerenza con il tuo cammino. Questo approccio non solo aiuta a prendere decisioni più sagge, ma rende le nostre scelte più autentiche e profonde.

Seguire l’esempio di Gesù non significa solo imitare i suoi gesti, ma interiorizzare un modo di vivere basato sulla responsabilità, la coerenza e la ricerca continua del senso profondo delle proprie azioni. Solo così le nostre decisioni saranno davvero significative, illuminate dalla luce della consapevolezza e della fede. Ricordiamoci: ogni scelta richiede il coraggio della rinuncia e la forza della coerenza.

sabato 27 settembre 2025

GUARDANDO OLTRE

 



 

Paolo Cugini

Allora l’angelo che parlava con me uscì e incontrò un altro angelo, che gli disse: «Corri, va’ a parlare a quel giovane e digli: “Gerusalemme sarà priva di mura, per la moltitudine di uomini e di animali che dovrà accogliere. Io stesso – oracolo del Signore – le farò da muro di fuoco all’intorno e sarò una gloria in mezzo ad essa (Zc 2,6s).

 

Avere visioni, sognare ad occhi aperti, guardare lontano e vedere ciò che gli altri non vedono, è questo che fanno i profeti, ed è questo che fa Zaccaria. Che cosa vede? Intravede il realizzarsi della profezia di Isaia 2,4s, quando il profeta, in un contesto di grande pericolo per Gerusalemme, vede la città riempirsi di popoli provenienti da tutte le regioni della terra, attratti dalla parola che esce dal Tempio. È proprio questo sogno di Isaia che Zaccaria intravede. Cose di profeti, che provengono da una personalissima e profonda esperienza del Mistero, che apre loro la mente, li fa andare oltre, a interpretare gli eventi del tempo presente non con uno sguardo puramente umano, ma con gli occhi infuocati dal desiderio di giustizia. E così Zaccaria, non solo vede il realizzarsi della profezia di Isaia, ma va oltre. Ci sarà così tanta gente, scrive Zaccaria, arriveranno così tante persone che non ci sarà più bisogno di costruire mura. Storicamente non avverrà, ma non importa. Ciò che conta è sognare, è aiutare un popolo ad andare oltre, a non fermarsi alle apparenze, ma a credere nella possibilità di qualcosa di nuova.

I profeti, nella storia dell’umanità, sono sempre stati coloro che hanno scardinato le certezze, che hanno osato parlare quando tutti tacevano, che hanno visto il verde anche dove c’era solo deserto. La loro visione, spesso derisa come follia, è in realtà fiamma che accende i cuori spenti e apre sentieri là dove il cammino sembrava perduto. Zaccaria raccoglie il sogno di Isaia e lo rilancia, lo amplia, lo rende ancora più audace: una Gerusalemme senza mura, una città aperta, un’umanità chiamata a radunarsi non per paura, ma per attrazione verso la luce che è parola e giustizia. In definitiva, che cosa siamo senza la speranza? Che vita sarebbe se fossimo sepolti nella mera materia, in un vissuto senza luci, nelle tenebre di un mondo chiuso in se stesso? Per fortuna ci sono loro, i profeti, che ci prendono per mano con il sorriso e ci fanno vedere vita dove noi vediamo morte, ci fanno correre sui prati del tempo presente, mentre non credevamo che fosse solo deserto.

Che folli questi profeti! Eppure, non c’è nulla di più ragionevole che imparare a vedere oltre le mura, oltre le paure, oltre ciò che appare. È la follia dei profeti a ridestare il cuore degli uomini, a insegnare che la speranza non è un sogno vano, ma la spinta vitale che ci permette di rialzarci, costruire, amare di nuovo. 

venerdì 26 settembre 2025

IL GRANDE ABISSO

 




 

Paolo Cugini

 

«Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio». Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. «Il Figlio dell’uomo - disse - deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno» (Lc 9, 21-22).

Nella vita, le domande hanno un potere spesso sottovalutato: alcune aprono strade nuove, altre le chiudono con decisione. Altre ancora, invece, ci aiutano a capire a che punto siamo del nostro percorso, quale tipo di ricerca stiamo compiendo e come procede la nostra crescita personale e spirituale. Le domande rivelano infatti qualcosa di chi le formula e la profondità del rapporto che cerca di instaurare con il proprio interlocutore. Ma, come in ogni dialogo, dopo la domanda arriva la risposta, ed è qui che le cose si complicano. A volte la risposta sorprende, altre volte delude. Può capitare di ricevere risposte che paiono dimostrare una comprensione profonda, ma che in realtà sono completamente fuori contesto. In queste situazioni, è fondamentale prestare attenzione alle risposte che diamo: non bisogna precipitarsi, né credere troppo in fretta di aver capito tutto. Spesso le domande più semplici nascondono insidie, sono veri e propri trabocchetti volti a sondare chi siamo e dove siamo arrivati nel nostro cammino.

Questa dinamica è evidente nel celebre brano evangelico di Luca 9, 21-22, dove Gesù interroga i discepoli sulla sua identità. Pietro risponde senza esitazioni, chiamando Gesù “il Cristo di Dio”. Apparentemente sembra aver colto nel segno, sembra aver compreso la vera natura di Gesù. Ma la risposta di Gesù sorprende: si autodefinisce “Figlio dell’uomo”. Ecco il trabocchetto, la trappola che rivela la distanza tra la percezione di Pietro e la realtà profonda del mistero di Cristo. Tra i due titoli messianici — “Cristo di Dio” e “Figlio dell’uomo” — esiste un abisso. Pietro, pur seguendo Gesù da tempo, pur avendo ascoltato le sue parole e assistito ai suoi prodigi, non ha ancora modificato la sua comprensione di Gesù. Rimane ancorato alle sue sicurezze, alla visione che aveva all’inizio del cammino. Gesù, con la sua risposta, invita i discepoli ad entrare in questo abisso, ad abbandonare le proprie certezze, per lasciarsi plasmare dalla novità profonda che egli porta. È in questo salto, che può generare paura e smarrimento, che si diventa davvero suoi discepoli. Solo chi accetta di lasciare le proprie sicurezze e di immergersi nell’ignoto che Gesù propone può avvicinarsi alla risposta della grande domanda: “E voi, chi dite che io sia?”

Non si tratta di trovare una definizione corretta, né di rispondere con le parole giuste. Si tratta di intraprendere un cammino di trasformazione, di lasciarsi interrogare e sorprendere, di andare oltre le formule per entrare nel mistero. Le domande, quando sono vere, ci costringono a metterci in gioco, a uscire dalla zona di comfort e a esplorare territori sconosciuti. La risposta, per quanto possa sembrare adeguata, non sempre svela la verità: spesso è solo il primo passo verso una comprensione più profonda. Il dialogo tra Gesù e Pietro ci insegna che, per scoprire la nostra vera identità e quella di chi ci sta accanto, occorre il coraggio di abbandonare le certezze e di entrare nell’abisso delle domande che cambiano la vita.

giovedì 25 settembre 2025

CERCAVA DI VEDERLO

 



Paolo Cugini

 Chi è dunque costui, del quale sento dire queste cose? E cercava di vederlo (Lc 9,9).

In ogni fase dell’esistenza, ci troviamo a interrogarci sul significato della nostra vita. La ricerca di senso non è solo un interrogativo filosofico, ma un percorso concreto, fatto di tappe, scoperte e cambiamenti. Il desiderio di capire chi siamo e cosa ci stimola è ciò che ci impedisce di vivere in balìa della routine, facendoci intraprendere un viaggio verso l’autenticità e la pienezza. Quando parliamo di ricerca di senso, è importante distinguere tra una ricerca positiva e una negativa. La ricerca di senso positiva nasce dal desiderio di crescita, curiosità e apertura verso nuove possibilità. È quella che ci spinge a metterci in cammino, a uscire dalla passività e dalle abitudini che ci anestetizzano. Al contrario, la ricerca negativa spesso si nutre di insoddisfazione sterile, rimpianto o fuga dalla realtà: è una ricerca che rimane ferma, che non produce movimento né cambiamento. Restare immobili, prigionieri di pensieri ricorsivi, ci fa perdere vitalità e gusto per la vita.

La crescita personale inizia proprio con il gesto, a volte simbolico, di alzarsi dal proprio “sofà”, cioè dalla zona di comfort. Questo movimento interiore è fondamentale: uscire dalla passività, mettersi in gioco, accettare di non avere tutte le risposte. Solo chi è disposto a muoversi, anche nell’incertezza, può cogliere le opportunità che la vita offre. Così si passa dalla semplice sopravvivenza alla vera esperienza di vita, dove ogni giorno può portare piccole scoperte e nuove stimolazioni. Le domande sono la scintilla che accende la ricerca personale. Chiedersi: “Cosa mi interessa davvero?” oppure “Dove voglio andare?” significa aprire una breccia nella routine e accendere una luce sul percorso. Le domande non sono segno di debolezza, ma di vitalità: sono il primo passo verso la chiarezza, la conoscenza di sé e il cambiamento. È bene coltivarle, proprio come si coltiva un giardino, perché sono il motore invisibile che ci spinge avanti.

Spesso il risveglio del desiderio e della ricerca non avviene in solitudine. Persone, incontri casuali, eventi inaspettati sono veri catalizzatori: una parola ascoltata al momento giusto, un sorriso, una storia condivisa possono farci vedere le cose da una prospettiva nuova. Non sottovalutiamo mai la forza delle relazioni e delle esperienze: Lasciarsi toccare dagli altri amplia i nostri orizzonti e ci aiuta a chiarire ciò che ci interessa davvero. Il risveglio del desiderio è un processo personale e non segue orologi o calendari. Può avvenire all’improvviso, in un momento di crisi, oppure gradualmente, attraverso piccole scoperte quotidiane. Fondamentale è non forzare i tempi: il desiderio spesso si manifesta quando meno ce lo aspettiamo, magari dopo un periodo di stasi. Accogliere questa energia, senza giudizio, è il primo passo per alimentarla.

Il desiderio è come una pianta: va curato, nutrito e protetto. Alimentarlo significa dedicarsi alla conoscenza, alla scoperta di sé e degli altri, impegnandosi ogni giorno in piccoli gesti. Leggere, ascoltare, osservare, apprendere: sono tutte attività che tengono vivo il desiderio e lo trasformano in energia vitale. Le abitudini giocano un ruolo centrale nella qualità della vita e nell’intensità del desiderio. Le abitudini positive, come la curiosità, la gratitudine, il movimento fisico, il dialogo, nutrono il desiderio e ci spingono verso nuove mete. Al contrario, abitudini negative come la lamentela, l’isolamento, la procrastinazione, spengono lentamente la nostra energia vitale. Essere consapevoli delle proprie abitudini permette di scegliere, giorno per giorno, la direzione da prendere. Anche dopo momenti di stasi, è sempre possibile riattivare il desiderio. Basta un piccolo cambiamento, una nuova domanda, un incontro inatteso per risvegliare la voglia di vivere e di crescere. Non bisogna mai perdere la speranza: la vita è fatta di cicli, e ogni ciclo porta con sé la possibilità di ricominciare.

La ricerca di senso, il desiderio e la crescita personale sono il cuore pulsante di una vita piena. Non lasciamo spegnere la fiamma che ci anima: coltiviamo le domande, circondiamoci di persone stimolanti, accogliamo i cambiamenti e impariamo a nutrire il nostro desiderio ogni giorno. Così facendo, ci avviciniamo un passo in più a quella gioia autentica.

 

 

mercoledì 24 settembre 2025

E LI MANDO'

 



 

Paolo Cugini

 

Gesù convocò i Dodici e diede loro forza e potere su tutti i demòni e di guarire le malattie. E li mandò ad annunciare il regno di Dio e a guarire gli infermi (Lc 9,1).

Essere padre o madre non significa soltanto generare una vita, ma assumere la straordinaria responsabilità di trasmettere un senso della vita. In un mondo spesso segnato da incertezze e condizionamenti culturali, la paternità e la maternità si rivelano come autentici percorsi di dono: donare forza positiva, fiducia, gioia di vivere e desiderio di condivisione. Questi doni non sono semplici parole, ma radici profonde che nutrono la crescita personale e relazionale, rappresentando ciò di cui il mondo ha più bisogno oggi.

Ogni gesto d’amore, ogni parola di incoraggiamento, ogni abbraccio sincero è una scintilla che accende la fiducia e la gioia nei figli. La forza positiva che i genitori trasmettono non nasce dal desiderio di controllo, ma dalla capacità di educare con il cuore: insegnando la bellezza della vita e la speranza anche nei momenti difficili. Così, la condivisione diventa uno stile di vita. Essere genitori, educatori, cristiani chiama a una sfida interiore: confrontarsi con le proprie fragilità e combattere il male che ciascuno porta dentro di sé. La crescita personale è un cammino fatto di coraggio, consapevolezza e umiltà. Solo attraverso la lotta contro il proprio egoismo, la paura e le ferite passate, si può diventare testimoni autentici di forza positiva. Questo processo di guarigione non è mai del tutto concluso, ma ogni piccola vittoria sul male interiore si riflette in un esempio vivo per i figli, capace di generare fiducia in chi ci circonda.

Le conquiste interiori, le piccole e grandi vittorie contro le proprie ombre, diventano patrimonio condiviso. I figli osservano, imparano, e si nutrono della resilienza e della gioia che vedono incarnate nei loro genitori. Nella quotidianità, ogni scelta di bene, ogni parola gentile, ogni gesto di perdono, rafforza la comunità domestica e crea un clima di fiducia che si irradia anche verso l’esterno. È come se il bene personale si moltiplicasse. La felicità è reale solo quando è condivisa e la testimonianza della propria crescita diventa seme di cambiamento anche per i compagni di viaggio.

Medico, cura te stesso dice il Vangelo, ricordando che non si può aiutare veramente gli altri se prima non si è affrontato il proprio dolore. Prendersi cura delle proprie ferite, accettare le fragilità e cercare la guarigione è un atto di responsabilità. I figli hanno bisogno di adulti che sappiano essere sinceri, che non nascondano le proprie debolezze, ma che le elaborino con coraggio. Solo così si diventa capaci di sostenere gli altri, di offrire ascolto autentico e di trasmettere quella forza che nasce dalla vulnerabilità accolta e trasformata. Il Vangelo propone una liberazione radicale dai condizionamenti culturali e dalle paure che spesso bloccano la trasmissione dei contenuti importanti della vita. Gesù annuncia una logica nuova: il dono di sé come via privilegiata per la realizzazione personale e comunitaria. Nel Regno di Dio, la grandezza si misura non con il potere, ma con la capacità di servire e di amare senza riserve. Questa logica del dono rompe gli schemi della tradizione, invitando i genitori e gli educatori a scegliere la libertà, la giustizia e la fraternità come pilastri dell’educazione. Vivendo il pensiero di Cristo, si inaugura una nuova cultura che supera i limiti delle tradizioni umane. Il Regno di Dio non è una realtà futura, ma si costruisce ogni giorno nella scelta di mettere al centro la persona, la relazione, il rispetto e la dignità. Qui la paternità e la maternità trovano il loro significato più vero: diventare strumenti di libertà, di giustizia sociale, di uguaglianza concreta. Le scelte radicali che i genitori compiono per il bene dei figli e della comunità sono semi di speranza che germogliano nel terreno del mondo. La libertà, la giustizia e l’uguaglianza non sono conquiste scontate, ma frutti di scelte coraggiose e radicali. Trasmettere ai figli il desiderio di giustizia significa educarli a non accontentarsi dell’apparenza, a cercare il bene comune, a diventare cittadini consapevoli e responsabili. La cura delle ferite, la capacità di perdonare, la lotta contro il male interiore, sono la base su cui si costruisce una comunità più giusta, libera, capace di accogliere la diversità e di promuovere la pace. Questa è la cura di cui il mondo ha bisogno oggi più che mai.

 

 

sabato 20 settembre 2025

IL SEME GETTATO

 




 

Paolo Cugini

 

Nella parabola del seminatore (Lc 8,5s), Gesù racconta di un uomo che esce a seminare: alcuni semi cadono lungo la strada, altri su terreno roccioso, altri ancora tra le spine, e infine alcuni in buona terra, dove portano frutto. Questa immagine, così semplice e immediata, racchiude una potenza espressiva che attraversa i secoli, rinnovando ogni volta il suo significato. Il seme non è solo una piccola realtà biologica: è una promessa, un simbolo di potenzialità, di attesa e di trasformazione. La parabola ci invita a guardare oltre l’apparenza, a leggere nella vita stessa la possibilità di germogliare e di crescere, anche quando le condizioni sembrano avverse.

Nel seme, la pedagogia trova una metafora potente. Esso rappresenta la fase iniziale di ogni percorso: l’infanzia di un progetto, il pensiero che si affaccia nella mente, il desiderio che prende forma. Pedagogicamente, il seme è la fiducia nel futuro, l’investimento nell’educazione, la cura di ciò che ancora non si vede ma che può diventare grande. Esteticamente, il seme è bellezza nascosta, promessa silenziosa, attesa che si compie nel tempo. L’immagine del seme ci ricorda che ogni crescita parte da ciò che è piccolo e invisibile, e che la vera ricchezza si trova nella capacità di riconoscere il valore di ciò che non è ancora compiuto. Ogni seme contiene in sé la potenzialità di diventare qualcosa di unico. Tuttavia, il suo sviluppo dipende da molteplici fattori: il terreno, il clima, la cura ricevuta. Il processo di crescita non è mai lineare; conosce momenti di attesa, di difficoltà, di lotta contro le avversità. Solo quando trova le condizioni favorevoli, il seme può germogliare e crescere, dando origine a una pianta che, a sua volta, produrrà frutto. Questa dinamica riflette la nostra stessa crescita personale: portiamo dentro di noi semi di talento, sogni, desideri, ma è solo attraverso il tempo, la pazienza e il coraggio di affrontare le sfide che possiamo arrivare alla maturazione. Il percorso di maturazione richiede di accogliere la vulnerabilità, di non temere gli ostacoli, di restare fedeli al cammino iniziato.

La parabola sottolinea il ruolo del terreno: non tutti i semi portano frutto, perché non tutti i terreni sono adatti. Il terreno simboleggia il contesto, la disponibilità a ricevere, la capacità di accogliere la novità. La cura diventa dunque centrale: il seminatore è chiamato ad amare il proprio lavoro, a non scoraggiarsi di fronte agli insuccessi, a preparare con pazienza il terreno affinché il seme possa svilupparsi. Questa immagine si riflette nella nostra vita: ogni relazione, ogni progetto, ogni sentimento ha bisogno di tempo, di attenzione, di rispetto dei ritmi naturali. “Non si può raccogliere dove non si è seminato”, recita un vecchio proverbio italiano: il frutto della crescita dipende dalla dedizione e dalla premura che si è disposti a offrire.

Essere custodi dei semi significa assumersi la responsabilità della crescita, della maturazione, della fedeltà alle promesse racchiuse in essi. Ogni seme che germoglia è risposta a una chiamata, è testimonianza di una cura ricevuta. Il cammino verso la fruttificazione è segnato da scelte consapevoli, dalla capacità di sostenere il fragile, di proteggere ciò che è debole e di accompagnarlo fino a quando diventa forte. Solo così si può vedere il miracolo della trasformazione: ciò che era invisibile si mostra, ciò che era potenziale si realizza. La maturità non è solo il raggiungimento di un obiettivo, ma il processo stesso di essere fedeli al proprio sviluppo, di restare aperti al cambiamento, di coltivare la speranza anche nei momenti di difficoltà.

La parabola del seminatore e la metafora del seme ci invitano a guardarci dentro con occhi nuovi: quali semi stiamo coltivando nella nostra vita? Quali terreni stiamo preparando? Siamo capaci di riconoscere la bellezza della crescita, anche quando è lenta e silenziosa? Prendersi cura di un seme significa credere in qualcosa che ancora non si vede, imparare che la pazienza è la misura della responsabilità e che la maturazione è il frutto di una fedeltà quotidiana. In ognuno di noi vive la forza di un seme: la possibilità di trasformare il piccolo in grande, il silenzio in parola, la speranza in realtà. L’invito è a diventare seminatori consapevoli, custodi attenti e artisti della crescita, per dare alla nostra vita e a quella degli altri la possibilità di fiorire.

venerdì 19 settembre 2025

C'ERANO CON LUI ALCUNE DONNE

 



Paolo Cugini

In quel tempo, Gesù se ne andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio.  C'erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria, chiamata Maddalena, dalla quale erano usciti sette demòni; Giovanna, moglie di Cuza, amministratore di Erode; Susanna e molte altre, che li servivano con i loro beni ( Lc 8, 1-3).

 

Vale la pena riportare integralmente questi versetti. Dicono, infatti, di una presenza poco riconosciuta, anzi, del tutto nascosta negli altri vangeli. Si tratta della presenza delle donne tra i discepoli di Gesù. Si può, allora, tranquillamente parlare di discepoli e di discepole al seguito di Gesù, seguito che creava scandalo perché non si era mai visto un Maestro in Israele andare per le strade della Palestina con un gruppo di uomini e donne. In un contesto storico e culturale in cui nella cultura patriarcale del tempo, le donne non erano per nulla considerate, la scelta di Gesù assume i contorni di una rivoluzione silenziosa ma profonda. Il testo sottolinea che Gesù decostruisce la cultura patriarcale dominante non con discorsi, ma con gesti, con scelte precise. Contrariamente a quanto avviene nella maggior parte dei testi e della prassi successiva, Gesù non solo accoglie le donne tra i discepoli, ma le rende parte attiva della comunità in cammino, suscitando scandalo e interrogativi.

Tuttavia, in pochi decenni la proposta di Gesù di una comunità di discepoli e discepole uguali sparisce, non solo dai testi, ma anche dallo stile di vita delle comunità. Il principio evangelico di uguaglianza viene così messo da parte, rimpiazzato da nuove strutture che cancellano la memoria del modello originario. Gesù non ha paura delle donne, ma le pone al centro delle comunità, ne fanno parte. È il principio di uguaglianza ristrutturato, così com’era all’origine. Nonostante la successiva marginalizzazione, il ruolo delle donne permane centrale nel momento fondativo della fede cristiana. Sappiamo il ruolo di grande importanza che proprio le donne avranno dopo la morte di Gesù. Saranno le donne le prime grandi testimoni del mistero della resurrezione. Saranno loro ad annunciare il vangelo della resurrezione di Gesù ai discepoli impauriti. Un dato che, se letto senza veli ideologici, avrebbe dovuto rappresentare una svolta nella storia ecclesiale. Il messaggio evangelico, nella sua radicalità, afferma che Il Vangelo è un messaggio di uguaglianza. Sino a quando nella Chiesa le donne non avranno il loro posto non si potrà parlare non solo di uguaglianza, ma di un’istituzione voluta da Cristo. Questa affermazione invita a un ritorno alle origini, a riscoprire, nella prassi e nella struttura ecclesiale, quella capacità di accoglienza e parità che era al cuore del movimento di Gesù.

La presenza delle donne tra i discepoli e nel primo annuncio della resurrezione non è un dettaglio marginale, ma il segno di una rivoluzione profonda, troppo presto rimossa dalla memoria ecclesiale. Rileggere il Vangelo con occhi nuovi significa restituire alle donne il posto che avevano nei testi e nella comunità delle origini, riconoscendo che solo così la Chiesa potrà dirsi fedele alla sua vocazione più autentica.

giovedì 18 settembre 2025

LO SGUARDO DI GESU'

 




Lo sguardo diverso di Gesù: oltre la logica della competizione

Paolo Cugini

 

 Per questo io ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato. Invece colui al quale si perdona poco, ama poco (Lc 7,48).

 

Viviamo in un mondo dove ogni relazione sembra essere filtrata dalla lente del confronto e della competizione. Sin da piccoli impariamo a leggere la realtà attraverso il nostro istinto di sopravvivenza, che ci spinge a stabilire gerarchie, a dividere tra chi è migliore e chi è peggiore, a perseguire la meritocrazia come unico metro di giudizio. Guardiamo gli altri a partire da ciò che ci manca, e spesso ci troviamo a disprezzare chi vive meglio di noi, proprio perché la loro serenità o il loro successo diventano uno specchio delle nostre insoddisfazioni. In questa dinamica, anche la religione rischia di essere ridotta a un altro strumento di competizione: la fede come trofeo, la pratica spirituale come medaglia, la ricerca dell’approvazione come fine ultimo.

Eppure, in questo scenario, la figura di Gesù si staglia in modo radicalmente differente. Gesù guarda la realtà in un modo che disorienta e, al tempo stesso, affascina: il suo sguardo sovverte le logiche umane, perché non nasce dal bisogno di affermarsi sugli altri, ma dall’amore incondizionato e dalla misericordia. Lui non entra nella scena della vita guidato dal desiderio di rivalità, non si pone come antagonista. Gesù non valuta le persone secondo criteri meritocratici, ma secondo una giustizia che si fonde con la compassione. Non gli interessa ciò che limita o rende manchevole una persona, ma ciò che può elevarla, ciò che può essere redento e portato a compimento.

Gesù non si ferma agli aspetti esteriori, alle etichette, alle performance; il suo sguardo va dritto al cuore, dove si nasconde la vera storia di ogni essere umano. È questo sguardo che salva, che libera dalla meschinità degli sguardi egoistici, incapaci di accogliere davvero l’altro senza metterlo alla prova. Lo sguardo di Gesù è uno sguardo d’amore che non ferisce, ma guarisce; non giudica, ma comprende; non esclude, ma include. Per questo i poveri, gli afflitti, gli emarginati, gli esclusi sentivano in lui qualcosa di unico e sconvolgente: uno sguardo che non li metteva in competizione con il resto del mondo, ma che li faceva sentire accolti, ascoltati, rispettati.

In Gesù, ciascuno poteva trovare un cuore di padre e madre insieme, una presenza solida e affidabile in cui riposare. La sua accoglienza non era condizionata dal merito, dalla virtù o dal successo, ma dalla semplice realtà dell’essere umano, nella sua dignità intangibile. Ecco perché lui non dà importanza al peccato in quanto errore da condannare, ma al peccatore come persona da sollevare. Tutta la differenza sta qui: non è ciò che facciamo a definirci davanti a Dio, ma il modo in cui siamo guardati e accolti da lui.

Questo sguardo di Gesù è ancora oggi sfida e promessa per ciascuno di noi. Ci invita a uscire dalla logica del giudizio e della rivalità, a scoprire nella misericordia il vero centro della vita cristiana. Solo accogliendo questo sguardo potremo davvero sentirci bene, accolti, compresi, e capaci di accogliere e comprendere a nostra volta.

 

mercoledì 17 settembre 2025

LA LUCE DEL MISTERO

 




 

Paolo Cugini

 

“Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!” (Lc 7,32).

 

C’è una durezza di cuore

che sfida le leggi segrete della materia,

una pietra che galleggia

nel fiume della Storia,

mentre messaggi chiari come lampi

sussurrano il Mistero 

è impossibile non credere,

eppure cieca resta l’anima,

cieco il cuore che non vede il visibile,

che non coglie ciò che grida

d’essere abbracciato dagli occhi.

Così vaghiamo, erranti

sulle strade del mondo,

ciechi pur col sole

a splendere sopra le nostre teste.

Ostinati abitiamo le nostre tenebre,

con la luce che ci danza intorno 

com’è possibile tanta ottusità?

Da quale abisso sale

questa caparbietà che ci immerge

e ci strappa alla pace

del Mistero che ci viene incontro?

Forse è paura, solo paura

di una felicità troppo luminosa,

paura del Mistero che domanda

di aprire gli occhi

e scoprire un mondo nuovo

 e ammettere la cecità,

abbracciare il cambiamento.

Allora scegliamo il buio

invece della luce,

camminiamo tra ombre

invece di correre

sotto il sole,

ci chiudiamo nel guscio

per non aprirci alla vita.

Chi si abitua all’oscurità

la confonde con la realtà,

chi trascura la luce del Mistero

si condanna a una vita povera,

piccola e misera.

Eppure, basterebbe poco:

aprire gli occhi per un istante,

spalancare le braccia

alla vita che attende.

C’è ancora tempo

per questo piccolo gesto

capace di rivoluzionare

il nostro cammino.

 

martedì 16 settembre 2025

AL DI LA' DELLE COSE

 



 

Paolo Cugini

 

Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, alzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare (Lc 7,13s).

 

C’è vita nascosta

tra le spire della morte,

un palpito che attende uno sguardo

capace di vedere oltre la cenere,

oltre la soglia del visibile.

Lo sguardo di Gesù penetra il mistero:

dove la nostra vista si arresta,

lui scorge germogli sotto la neve,

luce nella notte, speranza nel sepolcro.

Solo con occhi interiori

si colgono i segreti della realtà,

oltre le apparenze, oltre i dati

che il tempo ci consegna ogni giorno.

Serve un cuore che ascolta,

una mente che non giudica,

una mano che non si ritrae.

C’è una vita che pulsa

sotto la crosta dell’addio,

un respiro che attende una parola,

una possibilità che fiorisce

sulle labbra del dubbio.

Ci sono lacrime segrete da asciugare,

voci mute che chiedono ascolto,

desideri di speranza

in paesaggi disperati.

Quante volte

lo sguardo superficiale si ferma

alla pietra del sepolcro,

ignorando il canto

che nasce nella notte!

C’è una mano tesa nel mondo,

aspetta chi la stringa,

chi inviti a rialzarsi,

a riprendere il cammino interrotto.

Finché c’è respiro,

finché la vita palpita anche solo in un istante,

c’è speranza che attende,

c’è una rinascita possibile

al di là di ogni morte apparente.

 

giovedì 11 settembre 2025

La Via profetica dell’amore evangelico

 




Annuncio di cambiamento e di rinascita nell’umanità

 

Paolo Cugini

A voi che siete in ascolto, sia chiaro il messaggio: amate chi vi osteggia, fate del bene a chi vi perseguita, benedite coloro che vi scherniscono, elevate preghiere per chi vi maltratta. In queste parole, tratte dalla sorgente viva del Vangelo, si cela la rivoluzione del tempo presente e futuro. Qui risiede la forza che trasforma, la novità che sconvolge le logiche del mondo. Un cammino viene indicato, non solo esteriore ma soprattutto interiore, una via che attraversa il cuore, spinge la coscienza a rinascere. Prima di ogni gesto esterno, è necessario lasciarci penetrare dalla verità: ogni persona, ogni volto che incrociamo, è fratello e sorella, compagni di viaggio nell’avventura umana.

Questa è la conversione profonda richiesta: non vedere più nel volto dell’altro una minaccia da combattere, ma un’anima da amare, un’esistenza da accogliere. Il cambiamento chiesto dal Vangelo è arduo, perché le fondamenta della nostra natura sono segnate dal conflitto, dalla paura, dall’istinto di sopravvivenza che ci spinge a difenderci, a contrattaccare, a distruggere.

Ma ecco il segno dei tempi: un nuovo paradigma si leva all’orizzonte, un invito a cambiare il cuore, a trasfigurare le nostre relazioni. Il Vangelo ci chiama a una veglia costante, a un lavoro interiore che non conosce tregua. Passare dalla durezza alla misericordia, dalla vendetta al perdono, dalla chiusura all’apertura, è opera immane, ma necessaria per chi vuole entrare nella logica del Mistero. La prima tappa è il riconoscimento della propria fragilità, della propria umanità ferita e impulsiva. Questo risveglio è provocato dall’ascolto della Parola, che penetra, svela, smaschera, orienta pensieri e azioni. Poi, gradualmente, si tratta di mettere in pratica segni nuovi, gesti che incarnano l’annuncio evangelico: esercitarsi nel perdono, coltivare la gratuità, offrire sé senza calcoli.

Solo chi persevera in questa formazione interiore, chi si lascia trasformare dalla luce divina, può essere profeta di misericordia e apostolo di pace. La via è lunga, la fatica grande, ma il premio è la comunione, la fraternità universale, il volto nuovo dell’umanità riconciliata. Così il Vangelo, oggi come ieri e domani, interpella il cuore, chiama al cambiamento, annuncia una possibilità di risurrezione ad ogni essere umano.

 

mercoledì 10 settembre 2025

Beati voi, poveri: La logica sovversiva del Vangelo

 




Paolo Cugini

 

«Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio» (Lc 6,20).

Il grido del Vangelo contro l’ordine del mondo

Beati voi, poveri! Non è una carezza, non è una consolazione: è un grido che squarcia il cielo e la terra, un tuono che abbatte i palazzi dei potenti. Vostro è il regno di Dio! Ecco la parola che abbatte i troni, che rovescia la logica imposta dai secoli, che umilia i ricchi e innalza gli ultimi. Leggo queste parole di Luca come taglio di spada dopo il servizio Caritas, davanti a volti segnati dalla fatica e dalla fame: davanti a Dio, sono loro i benedetti, i destinatari di una rivoluzione che non lascia scampo.

Il Vangelo esplode nel cuore della storia, annientando le certezze del moderno, distruggendo i miti della ricchezza e del successo. Benedici i poveri, maledici i ricchi: questa è la legge che nessun sistema può sopportare, che nessuna civiltà osa accogliere senza tremare. Accogliere questa beatitudine è entrare in guerra con la mentalità dominante, schierarsi contro la corrente, prendere a pugni i muri dell’indifferenza. È un cammino che pretende la morte del vecchio io, la decostruzione radicale dei sogni imposti dal potere.

Beati voi, poveri: non è una dottrina per anime deboli. È una chiamata al rovesciamento, una marcia nella contromano della storia, verso una meta che nessuno ha il coraggio di nominare. La povertà evangelica non è miseria subita, ma scelta di spoliazione, di sfida, di abbandono ai territori dell’altro. Chi si mette in cammino come discepolo, entra in questa lotta: lascia, perde, si annulla per trovare, in chi è escluso e perseguitato, il vero senso della storia.

Questa beatitudine è una sfida gettata tra le rovine delle civiltà. Gesù traccia il senso della storia in poche parole, assolute, tremende: la sorpresa è totale, la novità ci trova impreparati, incapaci di reagire. Non basta capirla; bisogna lasciarsi travolgere, assimilare, vivere. Il cammino non è solitario: è una convocazione per formare la comunità dei poveri, spogliati da Cristo, rivestiti di fuoco e di amore. Voi, poveri, siete il cuore che pulsa nel buio, la profezia che giudica il mondo. Il tempo dei miti è finito: ora regna la logica del Vangelo, che esalta chi non ha nulla e annienta chi possiede tutto. Beati voi, poveri: la storia è vostra, il regno vi appartiene.

 

martedì 9 settembre 2025

IMMERSO NEL MISTERO

 




 

Paolo Cugini

 

Il brano del Vangelo secondo Luca «Gesù se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio» (Lc 6,12), ci offre un’immagine potente della preghiera di Gesù. Questo gesto, che si ripete in diversi momenti della sua vita, rivela il carattere profondamente personale e vitale che la preghiera assume per lui. Non è un caso che i Vangeli ci restituiscano spesso questa scena: Gesù che si ritira in luoghi solitari, immerso nella natura, lontano dal clamore e dalla folla. Anche in altri passi si sottolinea il suo desiderio di solitudine per dialogare con il Padre: «Al mattino presto, quando era ancora buio, Gesù si alzò, uscì e si ritirò in un luogo deserto, e là pregava» (Mc 1,35). Questi momenti non sono semplici pause, ma vere e proprie immersioni nel Mistero, occasioni per ascoltare, riflettere e comprendere ciò che accade.

Gesù non si rifugia nella preghiera come evasione dalla realtà, ma la vive come esperienza di radicamento profondo nella sua missione e nella sua identità. Non prega nella sinagoga, non si rifugia nella ritualità liturgica, ma cerca il silenzio e la solitudine, perché la preghiera per lui è un dialogo intimo, un confronto sincero con il Mistero che chiama “Padre”. Basta ricordare quanto accade prima della scelta dei Dodici: «In quei giorni egli andò sul monte a pregare e passò la notte in orazione, e quando fu giorno chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici» (Lc 6,12-13). Gesù si affida a Dio prima delle decisioni fondamentali, lasciando che la preghiera orienti e illumini le sue scelte.

Nella notte del Getsemani, la preghiera si fa ancora più intensa, drammatica: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22,42). Qui Gesù mostra quanto la preghiera sia lotta, affidamento, ricerca di senso nelle ore più oscure. È il luogo in cui si riconosce il proprio limite e, insieme, si trova la forza di dire “sì” al Mistero che abita la vita.

La preghiera di Gesù è uno spazio di ascolto, di interiorizzazione, di ricerca profonda di se stessi nella relazione con il Padre. Come ricorda anche il Vangelo di Matteo: «Ma tu, quando preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo nel segreto» (Mt 6,6). È un invito a un’esperienza che non si esaurisce in un dovere, ma diviene necessità vitale: un tempo per fare verità dentro di sé, per non perdersi negli eventi, per interpretare con chiarezza ciò che si vive.

Se le parole e i gesti di Gesù sono così limpidi e coerenti, lo si deve proprio a questa sua abitudine di immergersi nel silenzio, di sostare nel Mistero, di riflettere e ascoltare. La preghiera, nella sua esperienza, non è mai fuga dal mondo, ma la condizione fondamentale per essere pienamente se stessi, e quindi autenticamente disponibili agli altri.

Infine, questa relazione profonda con il Padre si traduce in una luce che illumina anche chi sta intorno: «Voi siete la luce del mondo» (Mt 5,14), dice Gesù ai suoi discepoli. Chi attinge all’esperienza della preghiera diventa trasparente, capace di verità, di relazione autentica, di apertura agli altri. Così la preghiera, nella vita di Gesù, diventa scuola di autenticità, di ascolto, di relazionalità e di dono. Non qualcosa da aggiungere alla vita, ma linfa che la sostiene e la rende vera.

 

lunedì 8 settembre 2025

COME ACQUA CRISTALLINA

 



 

Paolo Cugini

Gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa (Mt 1,19).

Il passo evangelico in cui Giuseppe riceve, nel sogno, la visita dell’angelo del Signore (Mt 1,19) rappresenta uno dei momenti più suggestivi e profondi del racconto cristiano. In esso si intravede non soltanto il turbamento e la delicatezza di un uomo chiamato a custodire il Mistero, ma anche la qualità rara della sua coscienza, definita giusta. Questo episodio, pur privo di una base storica verificabile, rivela una sensibilità spirituale che ha segnato profondamente la prima comunità cristiana.

La figura di Giuseppe emerge come icona della giustizia intesa non solo come rispetto della legge, ma, soprattutto, come purezza di cuore. La giustizia di Giuseppe è una limpidezza interiore che gli permette di cogliere la volontà di Dio persino nel sonno, senza bisogno di segni esteriori o di parole esplicite. Questo aspetto richiama direttamente le Beatitudini (Mt 5,8): “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio”. La purezza di Giuseppe, la sua trasparenza, fa sì che il Mistero non gli sia estraneo, ma, al contrario, palpiti dentro di lui, si riveli nelle pieghe sottili della sua esistenza quotidiana.

In tutta la narrazione evangelica si respira una profonda semplicità: Giuseppe non è un uomo potente o autorevole, ma un artigiano, un uomo della quotidianità, che vive la sua fede con la naturalezza di chi sa riconoscere il divino nel piccolo e nel fragile. Il sogno, nella tradizione biblica, è spesso il luogo della rivelazione. Ciò che colpisce è che Giuseppe non mette in discussione la veridicità di quanto gli è stato comunicato: accoglie con semplicità, si fida, fonda tutta la sua esistenza su quel messaggio ricevuto nella debolezza di un sogno notturno. È il paradosso del Mistero cristiano: ciò che è grande si manifesta nel piccolo, ciò che è potente si rivela nella fragilità.

L’immagine di Giuseppe che coglie le vibrazioni del Mistero nel sogno rimanda a quella coscienza da bambino capace di stupore, di apertura, di fiducia. La trasparenza del suo cuore lo rende capace di scorgere Dio anche dove altri vedrebbero solo ombra o incertezza. È questa disposizione interiore che permette a Giuseppe di essere protagonista silenzioso e determinante dell’incarnazione: l’umiltà, la semplicità, la capacità di ascolto diventano le sue vere forze.

La storia di Giuseppe è, in fondo, una meditazione sui paradossi del Mistero cristiano. Dio non si impone con la forza ma si lascia intravedere nella debolezza, nel sogno, nel silenzio. Questa modalità di comunicazione è distante dalla mentalità meritocratica e materialista contemporanea, dove tutto deve essere dimostrato, misurato, guadagnato. Nel racconto evangelico, invece, contano la giustizia, la coscienza limpida, la semplicità del pensiero e l’umiltà dei gesti. È uno spazio in cui l’uomo non si afferma per merito, ma si dispone ad accogliere il Mistero.

Pur priva di riscontri storici, la vicenda di Giuseppe offre numerosi spunti spirituali. Innanzitutto, ci invita a rivalutare il valore della coscienza, della trasparenza interiore, della capacità di ascolto. In un mondo spesso confuso e rumoroso, la storia di Giuseppe ci ricorda che la voce di Dio può giungere nel silenzio, nella semplicità, persino nel sogno. Ci provoca a riscoprire la giustizia come purezza di cuore, a credere che il Mistero si riveli a chi custodisce una coscienza limpida e aperta.

Il sogno di Giuseppe è un invito a entrare nel Mistero con occhi semplici e cuore puro. È la testimonianza di una fede che non ha bisogno di grandi segni per riconoscere la presenza di Dio: basta la trasparenza di una coscienza che, come uno specchio, riflette la luce del divino. In questa storia, la debolezza del sogno diventa la forza dell’esistenza e la giustizia si trasforma in quella purezza che permette di vedere Dio, anche nel buio della notte.

 

martedì 2 settembre 2025

LA PAROLA CHE SANA

 




Paolo Cugini


Che parola è mai questa, che comanda con autorità e potenza agli spiriti impuri ed essi se ne vanno? (Lc 4,36).

C’è una parola che cura l’anima: questo è il senso del brano. Come avviene questo processo di cura? C’è una presenza, quella di Gesù, che con la sua parola provoca e scuote il male presente nelle persone. Lo spirito impuro è tutto ciò che dentro di noi resiste al bene e si sente attratto da cammini di morte. C’è una parola che risvegli il senso originario della vita autentica, perché esce da un uomo, Gesù, nel cui stile di vita si vedono i segni della vittoria sulla morte. Per questo la sua parola è percepita come autentica, perché ciò che diceva e insegnava como leader religioso, non erano semplicemente precetti da obbedire, come facevano i capi religiosi del popolo d’Israele, ma insegnamenti che provenivano da un vissuto. C’è un male nel mondo e dentro di noi; c’è uno spirito impuro che non ci permette di vivere in modo autentico, perché prende il sopravvento sui nostri istinti, che ci fanno agire in modo immediato, senza riflessione e, spesso, l’istinto ci porta su cammini violenti, di possesso, di egoismo.

Gesù è l’uomo del silenzio, colui che viene dal deserto e continuamente cerca spazi di silenzio nella usa giornata. Gesù è l’uomo della preghiera, della meditazione, è colui cioè, che si prende il tempo per riflettere sulle proprie decisioni, sulle situazioni vissute e le vive alla luce della sua relazione con il Padre. Forse è per questo che la sua Parola sembra venire da altrove ed incide così profondamente nelle coscienze che l’accolgono. 

lunedì 1 settembre 2025

PORTARE AI POVERI IL LIETO ANNUNCIO


 



Paolo Cugini


«Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l’unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, 
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi,
a proclamare l’anno di grazia del Signore».
Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all’inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato»
(Lc 4,16s).

Come fa, un uomo come Gesù, dal suo spessore spirituale e culturale, identificarsi con un simile progetto? Quanta forza c’è nel percepire che la nostra grandezza non è determinata da titoli, soldi, potere, ma dal modo in cui ci doniamo, soprattutto nella relazione con i più poveri? Per vincere la pressione che la pressione della proposta del mondo esercita implicitamente e anche consapevolmente nella nostra coscienza, occorre essere arrivati ad un punto coscienza di sé così grande da essere un’alternativa. È possibile essere persone differenti, indipendentemente dai soldi e dai ruoli sociali: è questo il messaggio rivoluzionario di Gesù.

 C’è un cammino che può essere realizzato, che ci conduce in una dimensione nuova, una consapevolezza autentica di sé stessi, perché non la fa dipendere da cause esterne, ma dalla ricchezza che troviamo in noi stessi. Questa è la grande sfida, la cui proposta si trova nel Vangelo, che diventa proposta possibile per me oggi grazie all’azione dello Spirito Santo, che lavora interiormente per mostrarci la verità di ciò che leggiamo nel Vangelo.