sabato 20 ottobre 2018

TRA VOI NON SIA COSI’





MARCO 10,35-45
Paolo Cugini

Il Vangelo che abbiamo ascoltato ci mostra uno squarcio della nostra umanità. Nelle richieste di Giovanni e Giacomo, i figli di Zebedeo e nell'indignazione degli altri dieci, c’è tutto quello che siamo e viviamo: ci rappresentano molto bene. C’è tutta un’umanità mossa dall'istinto di sopravvivenza che smuove l’egoismo umano di cui siamo plasmati, producendo relazioni basate sull'interesse personale, il desiderio di sopraffare l’altro, il bisogno atavico di emergere sugli altri. Il testo ci dice chiaramente che i dodici discepoli Gesù non li ha scelti perché sono migliori degli altri: sono esattamente come tutti gli altri, sono come noi. Questo dinamismo egoistico di cui siamo plasmati si trasferisce poi su tutti i livelli dell’esistenza umana. Lo vediamo molto bene ogni giorno leggendo i giornali. Il modello economico neo-liberale produce giorno dopo giorno sempre più poveri e aumenta i soldi nelle tasche dei pochi ricchi, che non s’importano di nulla se i poveri muoiono. I politici che sono al potere pensano agli affari loro e delle loro famiglie, promuovendo operazioni di facciata per illudere la gente e continuare a fare il bello e cattivo tempo. Venendo anche vicino a noi, possiamo tranquillamente dire che l’egoismo manifestato dai discepoli è ben visibile nelle nostre comunità, in cui spesso sono gli interessi personali che prevalgono, a scapito della comunione. Basterebbe partecipare a qualche consiglio pastorale parrocchiale per confermare quanto sto dicendo. Gli stessi dinamismi umani mossi dall’invidia e dall’egoismo hanno segnato profondamente e tristemente la storia della Chiesa. Quello che stiamo accompagnando in questi giorni – pedofilia, odio nei confronti del Papa, scandali nel clero, poca chiarezza nei conti del Vaticano, ecc. – dicono chiaramente che l’umanità dilaniata dall’egoismo umano ha intaccato anche il corpo di Cristo che è la Chiesa. Siamo immersi in un mondo di egoismo: c’è una possibilità di salvezza?

Leggendo il Vangelo e osservando la vita di Gesù, il suo modo di porsi con gli altri, il suo atteggiamento nei confronti dei più poveri, l’attenzione con le categorie sociali discriminate, come le donne, possiamo dire che in lui l’egoismo non ha prevalso. Gesù è l’unico pezzetto di umanità come il nostro, fatto di carne ed ossa come noi in cui a dominare è l’amore. Non c’è traccia di egoismo nell’umanità di Gesù, nella sua storia. Persino sulla croce Gesù ha amato, perdonando coloro che lo stavano uccidendo. Con il suo modo di essere e di agire, Gesù ha impresso dentro la storia umana il principio dell’amore. Gesù è diverso da tutti gli altri non per le cose che ha, ma per come ha vissuto, per il modo in cui si è relazionato con gli altri, per il modo in cui si è donato gratuitamente e disinteressatamente. In Gesù, nel suo modo di amare, i pregiudizi si spezzano, la verità non è più qualcosa di rigido e inarrivabile, ma è donata in modo semplice attraverso gesti umani di accoglienza, di giustizia, di amore. Gesù è il Vangelo, la proposta nuova di vita autentica, un cammino che tutti possono percorrere se lo desiderano.

Gesù è la speranza dell’umanità, è la nostra unica possibilità di salvezza, perché è l’unico che ci può salvare dalla condanna di una vita immersa nell’egoismo che porta alle divisioni, agli odi, alle discriminazioni, in una parola: alla morte. Siccome ha vissuto solo di amore è l’unico che ci può insegnare quello che ha vissuto. Ascoltando e interiorizzando il Vangelo, scopriamo il cammino che Gesù ha preparato non per fondare una religione, ma per aiutarci a divenire più umani, a far risplendere in noi l’immagine di Dio di cui siamo forniti, ma che il nostro egoismo rende opaco. Ha donato a noi il suo Spirito esattamente per questo: per vivere come Lui ha vissuto, per essere nel mondo il segno della diversità che Gesù ha portato, per riuscire a realizzare nei nostri gesti quotidiani, ciò che ascoltiamo nel Vangelo.

È bello vedere come nella prima comunità sorta subito dopo la morte del Signore, la Sua presenza era ben visibile in mezzo ai cristiani nel modo di relazionarsi, di considerare i beni del mondo, di prendere decisione a favore del bene comune e non cercando interessi personali.  È interessante constatare che nella primissima fase storica, quella che va dagli anni Trenta al Sessanta del primo secolo, la Chiesa popolo di Dio non prevedeva divisioni di ruoli. Quando si parlava di Popolo di Dio, s’intendeva tutti i fratelli e le sorelle credenti nel Signore Gesù. Anche i termini di laico e clero, in questa prima fase, non indicavano divisioni di ruoli, ma l’intera comunità. L’unica divisione che si riscontra in quel periodo è tra credenti e non credenti, tra coloro che sono nella comunità e quelli di fuori, mentre all’interno tutti vivevano in comunione.

Gesù è venuto a liberare l’umanità intrappolata dalle catene dell’egoismo, che sviluppa relazioni viziate dall’invidia, dalla gelosia, di bisogno di emergere sopra gli altri. Spetta noi battezzati accogliere lo Spirito del Signore, che è Spirito di libertà, per vivere da figli e figlie di Dio, liberi dalle catene delle dottrine umane, per esprimere nel mondo la diversità che ci viene dal Signore. È questo il nostro compito nel mondo, ed è questa la ragione d’essere della Chiesa, della comunità cristiana. Se viviamo ciò che siamo, se sapremo essere ciò che gratuitamente abbiamo ricevuto, il mondo, vedendo la presenza del Signore in mezzo a noi, avrà la possibilità di credere in Lui.


Se volessimo attualizzare il discorso per fare parlare il testo di Luca nel nostro contesto attuale potremmo dire: tra di voi, cioè tra noi cristiani che seguiamo il Signore non ci possono essere discriminazioni, esclusioni di persone, come invece avviene tutti i giorni nel mondo.  Tra noi cristiani non ci possono essere pregiudizi. Tra di noi, che siamo in questa chiesa attorno allo stesso banchetto eucaristico, non ci possono essere persone che stanno meglio delle altre, perché contraddiremmo il corpo di Cristo di cui ci alimentiamo. Siamo di Cristo quando accogliamo tutti e tutte come Lui faceva; siamo discepoli e discepole del Signore quando sappiamo vedere nell’altro che incontriamo un fratello, una sorella e non una categoria elaborata dal pregiudizio sociale. Noi non possiamo essere come quelli che vivono nel mondo: siamo diversi, perché amati dal Signore, chiamati da Lui ad essere segno della sua presenza nel mondo.  

sabato 6 ottobre 2018

LO STILE ACCOGLIENTE DI GESÙ





V FORUM CRISTIANI LGBT
5-7 OTTOBRE 2018
ALBANO LAZIALE


Riflessione di J. Martin
Sintesi: Paolo Cugini

Martin propone un confronto tra la proposta di Giovanni Battista e quella di Gesù. Mentre Giovanni Battista mette d’innanzi la conversione e poi l’inclusione nella comunità. Per Gesù, invece, c’è prima la comunità e poi la conversione. Prima di tutto Gesù accoglie le persone. Lo si vede bene nei vangeli. La conversione che Gesù propone è la conversione a cui siamo chiamati tutti. Martin si sofferma sulle storie di alcune persone che si sentivano ai margini narrate nei vangeli.

 La prima è il centurione romano. Mt e Lc raccontano di un centurione che vive a Cafarnao, un villaggio di circa 1550 abitanti. Gesù si propone ad andare a casa del centurione come segno di accoglienza. Il Centurione dice che non è necessario. Gesù guarisce il servo del centurione. Il centurione è un pagano e forse non è nemmeno monoteista, lontano dal mondo giudaico. E’ emarginato e oltre i margini. Quante persone LGBT si sentono così? Gesù lo incontra, lo ascolta, lo accoglie. Così dobbiamo accogliere le persone che si sentono ai margini.

La Samaritana. Gesù si reca ad un pozzo ed incontra una donna Samaritana in Gv 4. Durante la conversazione Gesù gli manifesta la sua identità. Secondo la tradizione Gesù non dovrebbe parlare con lei perché è donna e pagana. Gesù la ascolta e le rivela la sua identità; Gesù non l’accusa pubblicamente, ma la ascolta e interagisce con lei. La Samaritana, a causa della sua situazione, è tenuta ai margini della comunità. Quante persone LGBT si sentono così nella Chiesa? La Samaritana, grazie all’incontro con Gesù, diviene un’apostola e viene reintegrata nella comunità.

Lc narra l’incontro di Gesù con Zaccheo. E’ un simbolo delle persone LGBT, perché si sentono molto emarginate. Zaccheo è piccolo di statura. Quante volte la folla si mette di traverso tra Gesù e le persone LGBT! In mezzo alle persone Gesù decide di parlare con Zaccheo e non con le persone più facoltose della città. Il Vangelo dice che: “tutti quelli che videro iniziarono a mormorare”. Quando offri misericordia, molti mormorano. Per Zaccheo la conversione significa donare ai poveri. Gesù cerca le persone che si sentono ai margini.

Due posizioni, allora, si possono assumere nei confronti delle persone LGBT:
a.       Dalla parte della folla a mormorare e giudicare
b.      Dalla parte di Gesù per accogliere e andare incontro a chi è ai margini





venerdì 5 ottobre 2018

DIO NON DISCRIMINA NESSUNO





V FORUM CRISTIANI LGBT
ALBANO LAZIALE
VENERDÌ 5 OTTOBRE 2018

Atti 15,1-12: RIFLESSIONE DI PADRE PINO PIVA
Sintesi: Paolo Cugini
E’ bello leggere questo brano nel contesto del Sinodo dei giovani, perché ricorda qualcosa che è accaduto subito dopo la morte di Gesù. E’ bello vedere come negli Atti degli Apostoli è una voce liberante, è una voce che libera e non lega.
C’è poi la parresia, il coraggio di Paolo e Barnaba: Dio non discrimina e accoglie tutti. Questa accoglienza per tutti dev’essere visibile.

Paolo e Barnaba dicono che se gli ebrei non accettano il dono della grazia, allora si dirigono ai pagani.
Andare oltre alla legge, per cogliere il cuore. La circoncisione era la legge esterna. Pietro sottolinea che non è il segno esterno che può distinguere, ma il cuore. Lo Spirito Santo scese su di tutti. La purificazione del cuore e l’adesione a Dio si fa mediante la fede e non attraverso una legge esterna.
Tutti possono amare Dio e non qualcuno.

Quando il Signore diventa il centro della mia vita, allora tutto cambia, perché tutto viene assunto da Lui e tutto diviene una meraviglia: la mia vita, quella che mi ha dato.
I Segno che Dio abita in noi: sono i frutti dello Spirito. Galati 5,22s: amore, gioia, pace, magnanimità, apertura verso tutti, bontà, fedeltà, dominio di sé. Se vivo questo significa che sono dello Spirito, al di là di quello che gli altri possono dire, soprattutto quelli legati da una legge esterna.
Dio mi abita e io abito in Dio e la mia vita è pinea di prodigi e segni e lo testimonio.

giovedì 2 agosto 2018

IO SONO IL PANE DELLA VITA (Gv 6, 24-35)





Paolo Cugini


Il brano del Vangelo di oggi si chiude con un’affermazione impressionante. Gesù si dichiara il pane della vita: che cosa significa? La risposta a questa domanda è importante, perché ci permette di cogliere il significato che l’Eucarestia ha per noi, per la nostra vita.
Che cos’è l’Eucarestia nella Chiesa e nella vita di una comunità? E’ un rito che è stato rivestito di un’obbligatorietà, di un precetto la cui osservanza è avvertita come necessaria per ereditare il Regno dei cieli? Questa precettistica e obbligatorietà oggi è percepita solamente dai cristiani di una certa età e dai movimenti cattolici conservatori. Le nuove generazioni, che sono nati e vivono immersi nella cultura postmoderna liquida e non hanno nulla da spartire con l’epoca della cristianità, non sentono l’esigenza di questi riti propiziatori, anche perché non s’interessano né del passato né del futuro, ma vivono immersi nel presente. Ecco perché diviene importante cercare di comprendere il brano di Vangelo di questa domenica.

In quel tempo la folla… si diresse a Cafarnao alla ricerca di Gesù
C’è una folla alla ricerca di Gesù. Già questo è un indizio che rivela l’impostazione di un tema. Solitamente la ricerca di Dio avviene personalmente. Qui abbiamo una folla. E’ una ricerca che sembra viziata in partenza. La folla è anonima, senza volto e senza identità: che senso può avere questa ricerca? Che cosa può cercare di buono una folla? Da che cosa è mossa la ricerca della folla? Non basta cercare Gesù per essere salvi: dipende come lo ricerchi e con chi e perché. Non basta andare in chiesa e partecipare a dei riti e a dei precetti per essere salvi; dipende con che intenzioni ci andiamo, con chi, a fare cosa e perché? Per riconoscere nel volto di Cristo la presenza di Dio occorre uscire dalla folla, occorre cioè metterci la faccia, assumere un’identità, distinguersi, prendere le distanze da ciò che ci nasconde dietro ad un anonimato che è controproducente. Finché rimaniamo tra la folla non siamo nessuno, soprattutto, non siamo qualcuno che Gesù può identificare per dirigerci la sua Parola. Il cammino di fede nasce quando abbiamo il coraggio di uscire allo scoperto, abbandonare la falsa sicurezza della folla, per cercare la protezione del Signore.

In verità in verità di vita voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati
Le parole di Gesù rivelano due livelli di esistenza: la vita materiale e quella spirituale. Due livelli che non sono contrapposti, ma interdipendenti e necessari. La vita materiale, nella condizione di vita umana, dev’essere guidata da quella spirituale: è questo l’ordine delle cose. Il senso di una comunità cristiana dovrebbe servire a questo: aiutare le persone a scoprire il tesoro prezioso della propria vita interiore, della bellezza della preghiera, della meditazione, del mondo spirituale che dà un senso e dei significati alla vita materiale. Gesù smaschera gli uomini della folla che vivono e cercano ciò che sazia, che sfama, che vivono, cioè, ad un livello materiale e non riescono vedere al di là della materialità delle cose e, per questo, non riescono a capire la profondità del messaggio di Gesù. C’è tutta una religione che rimane ad un puro livello materiale e che soddisfa l’istinto di sopravvivenza. Questa religione è a servizio dell’ego soggettivo e non permette nessun cammino al di fuori di sé. Sino a quando rimaniamo nella folla viviamo solamente al livello materiale e soddisfiamo i desideri che derivano dall’istinto di sopravvivenza.

Avete visto dei segni: che cosa vuole dire Gesù con questa espressione? Ci sono dei dati materiali, degli eventi storici che sono portatori di un significato che dev’essere interpretato. Ci sono delle situazioni e anche degli elementi materiali che Gesù ha rivestito di significati che devono essere scoperti, capiti, interpretati e che dicono qualcosa di Lui, della sua presenza, del suo modo di essere e di vivere. In questo caso l’evento di riferimento è la moltiplicazione dei pani e dei pesci il cui primo significato non è l’aver soddisfatto la fame di tante persone, ma di essersi interessato a loro. Il segno che Gesù ha posto dentro l’evento e anche nei pani e nei pesci distribuiti è il significato di una vita per gli altri. Gesù vuole condurre la folla dentro questo mistero, che è il significato autentico della vita e cioè, che la vita che abbiamo ricevuto come un dono ha senso solamente quando viene donata gratuitamente.

Avete mangiato di quei pani e di qui pesci
C’è una fame che muove verso una ricerca. Di che cosa abbiamo fame? Di che cosa ho fame? Cerco ciò che mi alimenta e soddisfa i miei desideri. Che cosa desidero? Di che cosa ho bisogno? Di che cosa ho bisogno per soddisfare il mio desiderio reale? Gli uomini della folla cercano Gesù solamente perché ha soddisfatto la loro fame fisica. Per questo tipo di soddisfazione non c’è bisogno di Gesù: lo può fare chiunque nel mondo. Ciò che invece solo Gesù può fare è alimentare la nostra anima rivelando il significato della vita.

Datevi da fare non per il cibo non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna
Gesù non le manda a dire, ma va subito al centro del problema. C’è il rischio di trascorrere tutta una vita senza arrivare al cuore del problema. C’è il rischio di trascorre tutta la vita all’ombra del campanile senza riuscire a cogliere l’essenza della vita di fede. C’è un alimento che riempie il vuoto che si forma nella nostra vita, dentro di noi, quel vuoto che riempiamo con la materia, ma che dev’essere invece riempito con qualcosa d’altro. E’ Gesù l’alimento di cui abbiamo bisogno, è Gesù il pane della vita, quell’alimento che dura per sempre e che dà un significato perenne alla nostra esistenza affinché tutta la nostra vita, in ogni singolo gesto e in ogni singola scelta diventi come il cibo che mangiamo e che Gesù ci dona, vale a dire: amore.


giovedì 17 maggio 2018

UNA SOLA COSA TI MANCA



Marco 10, 17-30

Paolo Cugini

Mentre Gesù andava per la strada” (Mc 10, 17). Il ministero di Gesù, se così lo vogliamo chiamare, si svolge sulla strada, in un continuo movimento verso Gerusalemme. Strada come luogo per eccellenza dell’incontro, della disponibilità a lasciarsi incontrare, senza filtri, burocrazie, segreterie, o altro. C’è la disponibilità ad un contatto immediato, corpo a corpo, un’accessibilità a tutti. E’ la Chiesa in uscita che, senza dubbio, non l’ha inventata Francesco, ma nasce così, dallo stile di Gesù.

La richiesta del giovane ricco è la tipica domanda che nasce da un contesto religioso, che stimola l’individualismo borghese. E’ la ricerca di una salvezza individuale, esattamente come hanno insegnato i dottori della legge, insegnamento che prima di provocare un cammino verso l’altro, tenta di soddisfare il proprio egoismo. C’è tutta una religione malata, che serve a questo gioco subdolo e ambiguo, che si serve della dottrina per innalzare se stessi sugli altri, invertendo in questo modo l’autentico cammino di fede. Gesù, al contrario, è venuto ad annunciare il Regno dei cieli, mostrando con il suo stile di vita la possibilità di realizzare un pezzo di cielo nelle relazioni nuove, che si possono instaurare tra discepoli e discepole che accolgono la sua Parola. Relazioni non più basate sul possesso, sull’interesse personale, ma sul dono di sé, sulla gratuità, la ricerca della giustizia. La Chiesa, d’altronde, dovrebbe essere proprio questo, vale a dire, uno spazio di umanità differente, nella quale chiunque si sente accolto, senza alcuna discriminazione.

Non è un caso che Gesù, interpellato dal giovane in cerca di gloria religiosa, risponda indicando come cammino da compiere solamente i comandamenti che implicano una relazione, tralasciando gli altri. Del resto, è questo il senso del suo messaggio che troviamo nella buona novella: attraverso di Lui e con Lui, è possibile compiere quel cammino che ci aiuta ad uscire da una vita incentrata su noi stessi per vivere per il Signore e per i fratelli e le sorelle che pone sul nostro cammino (Cfr. 2 Cor 5, 15).

Una sola cosa ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi” (Mc 10, 22). Forse aveva regione Origene a sostenere che, in realtà il giovane ricco non era altro che un bugiardo, perché è impossibile rispettare i comandamenti di Dio, che hanno nell’amore al prossimo il culmine, e non riuscire a condividere i propri averi con i fratelli e le sorelle. La verità del cammino che il Signore propone non consiste nell’osservanza di precetti, di regole o di gesti cultuali, ma nel dono di sé all’altro. La condivisione dei propri beni con i poveri significa la disponibilità alla costruzione di quel regno di giustizia intaccato all’egoismo umano. Una disponibilità che non si ferma alla superficie, ma che cerca di andare alla radice, alle cause.

E’ ascoltano Gesù e la su buona novella che ci rendiamo conto quanto la religione del tempio, che sostituisce la tradizione degli uomini alla Parola di Dio, sia ancora così presente nelle nostre comunità. L’accoglienza agli stranieri o l’attenzione nei confronti di ogni forma di emarginazione – vedi le persone LGBT – invece di trovarci pronti e disponibili, provocano invece tensioni e divisioni nelle comunità cristiane. E allora, quella tristezza narrata nel volto del giovane ricco, si trova spesso stampata anche nei nostri. Il Vangelo è strumento di salvezza, come ci ricorda san Paolo (Rom 1,16) proprio perché è capace di realizzare quello che dice. Ci libera dal peso di una vita concentrata su noi stessi per aprirci agli altri, che è forse l’unico modo per sperimentare la gioia che viene da Dio.

sabato 28 aprile 2018

TOCCATEMI E GUARDATE





Paolo Cugini
Sono parole strane quelle che Gesù rivolge ai suoi discepoli dopo la Risurrezione, per spronarli dinanzi alla loro incredulità. Quel: “toccatemi e guardate” suonano strane nel contesto di una religione abituata a lavorare su dati spirituali, a incentivare il cammino interiore. Eppure, l’invito di Gesù a toccare il suo corpo e a guardare i segni delle ferite lasciati dai chiodi della croce, indica il cammino della Chiesa. Il Dio di Gesù Cristo non è un fantasma: ha un corpo. D’ora innanzi la religione non può più essere accusata di fantasia, perché il Dio che annuncia il cristianesimo ha i contorni ben definiti. Non è qualsiasi cosa che viene annunciato, ma quel corpo che è possibile toccare e vedere. Questo è il compito della Chiesa: aiutare il mondo a toccare e vedere il Signore. E’ il compito della chiesa perché oggi è proprio la Chiesa il corpo di Cristo, come ci ha insegnato san Paolo nelle sue lettere. Per essere vista e riconosciuta come il corpo di Cristo, deve portare i segni dei chiodi, che sono il segno di un amore senza limiti. Deve poter mostrare il fianco ferito dall’odio del mondo e risanato dalla potenza di Dio che lo ha risuscitato.

lunedì 16 aprile 2018

IL BUON PASTORE




GIOVANNI 10, 11-18

Paolo Cugini

Il brano di Vangelo proposto dalla Liturgia di oggi ci stimola a riflettere sui modelli di maternità e paternità che adottiamo e, di conseguenza, sulla qualità delle relazioni che sappiamo instaurare. Che cosa significa essere padre e madre nella società sempre più liquida e post cristiana, società in cui non solo è sempre più difficile decidersi per qualcosa di definitivo, ma anche identificarsi?  Il teologo Armando Matteo, alcuni anni fa, faceva notare come la prima generazione incredula, vale a dire i diciottenni attuali, sono stati i primi ad avere dei padri e delle madri che non hanno trasmesso loro la fede. Invece, infatti, di preoccuparsi di dire Dio ai loro figli, hanno pensato a loro stessi, sono stati per così dire, utilizzando la metafora del Vangelo, dei mercenari. Lo psicoterapeuta Massimo Recalcati nei saggi: Le mani della madre e Il ritorno del padre, evidenzia la difficoltà che oggi gli adulti hanno di assumere il loro ruolo. Mentre la donna fa sempre più fatica ad identificarsi totalmente nel ruolo di madre (finalmente!) come avveniva un tempo, entrando a suo dire in derive di tipo narcisista; l’uomo, a sua volta, non riesce più ad imporsi come il garante familiare della Legge, scivolando in un tipo di relazioni deresponsabilizzanti, che non riescono più ad imprimere nel figlio un significato, le motivazioni di un vissuto. 
Senza dubbio, oggi facciamo più fatica a definire ruoli che un tempo, ma questa difficoltà non è tutta negativa. Più che avere dei riferimenti forti sui quali appoggiarci per tutta la vita, siamo stimolati cercare continuamente nel vissuto quotidiano il modo evangelico per incontrare l’altro, per tessere relazioni che aprano cammini di libertà. Come possiamo essere sicuri della bontà evangelica delle nostre relazioni? Come possiamo percepire la bontà della nostra maternità e della nostra paternità? Il Vangelo di oggi ci suggerisce un criterio: “E ho altre pecore che non provengono da questo recinto, anche quelle io devo guidare”. La paternità e la maternità che noi esercitiamo è autentica quando non si chiude in se stessa, ma si apre al mondo, a tutti coloro che Dio mette sul nostro cammino, quando cioè pensa a chi è fuori. Alzare lo sguardo, guardare al di fuori del recinto delle nostre vite, e pensare all’altro, a colui che non crede, a colui che è nel bisogno e che non è nel giro degli amici e dei parenti, non è qualcosa di normale, ma è il segno di una conversione, il segno che la Parola del Pastore è entrata in noi e sta squarciando il nostro cuore, il segno di un avvenuto riconoscimento reciproco. Quando il povero, l’affamato, chi ha perso casa o lavoro, chi è smarrito, chi è solo come un cane, chi è vittima di pregiudizi entra nel nostro pensiero e vi trova spazio, allora, caro mio, qualcosa di grande è avvenuto. Vengono in mente le parole di Papa Francesco dell’Evangeli Gaudium, quando esortava le comunità ad uscire da una pastorale di conservazione, per uno stile pastorale in uscita. 
Sentire la responsabilità di chi non è in mezzo a noi, di pensare a loro, di coinvolgere chi ci è vicino per uscire, significa essere padri e madri sullo stile del buon Pastore. Alzare lo sguardo per guardare al di là del recinto, del cancello: è il contrario che alzare dei muri per non vedere, per mantenere le distanze, per non sentire le grida dei disperati, la puzza dei poveri, la realtà dei rifiuti umani, come li chiamava Bauman. Mi viene da dire che, proprio in questo contesto culturale in cui sembra non esserci più nulla di definitivo su cui appoggiarci e avere la scusa per demandare a qualcuno più in alto le nostre responsabilità, siamo interpellati in prima persona da coloro che sono al di là del recinto delle nostre case, delle nostre chiese, dei nostri gruppi.
Paolo Cugini, parroco dell’Unità Pastorale Santa Maria degli Angeli-Reggio Emilia

lunedì 9 aprile 2018

ERANO UN CUOR SOLO - DOMENICA IN ALBIS






Il tempo di Pasqua è pieno di positività. La si respira nelle pagine dei vangeli in cui si parla di vita, di una vita che va al di là della morte, di una vita che diviene quindi motivo di speranza nel presente, nel vissuto quotidiano. I discepoli hanno la possibilità di dialogare con il loro Maestro, nonostante fosse stato crocefisso qualche giorno prima. E’ un dato incredibile perché non solo fa luce sull’identità di Gesù, ma soprattutto perché rivela la forza della sua Parola e come questa Parola possa rialzare chi è caduto, posso offrire un cammino. Basta credere in Lui; basta accogliere la sua Parola. E’ bello il tempo di Pasqua perché ci narra la bellezza delle prime comunità: quanta speranza! Erano così pieni di fede della presenza del Signore in mezzo a loro, che non solo si trovavano spesso insieme a pregare, ma le cose non esercitavano più nessuna attrattiva su di loro. E allora, chi aveva di più condivideva con chi aveva meno, affinché nessuno nella comunità vivesse nel bisogno. E’ la fede che s’incarna nella vita. Che voglia di vivere come loro! Don Paolo

giovedì 22 marzo 2018

IL QUARTO CANTO DEL SERVO DI JHWH




DON CARLO PAGLIARI

RONCINA 22 MARZO 2018

Sintesi: Paolo Cugini

I quattro canti del Servo sono stati determinanti delle comunità cristiane della prima ora. Comprendere la Pasqua non è stata una passeggiata per i primi cristiani. Gesù è morto da solo. Umanamente parlando la vita di Gesù è un solenne fallimento, perché con le sue scelte e con le sue parole non è stato capito. Proprio i dodici lo hanno lasciato nel momento più decisivo. Le stesse folle prima lo osannano, poi lo tradiscono. La Pasqua è il riconoscimento che la croce non è un fallimento, una sconfitta, ma una vittoria. La resurrezione è il riconoscimento che Dio ha innalzato il crocefisso. Capire questo non è facile, perché occorre passare per la morte, il fallimento. Il libro più citato dll’AT nel NT? E’ il libro dei salmi, perché è il libro che utilizzavano nella preghiera. E’ leggendo la Scrittura che la croce non è stata una sconfitta.

E’ impressionante la somiglianza del IV canto del Servo e quello che è accaduto a Gesù.

“Ecco il mio Servo avrà successo…” Ci sono qui i verbi che il NT utilizza per parlare della resurrezione, che è un innalzamento, è uno stare in piedi, ristabilito, glorificato. Con un doppio senso perché l’innalzamento vuole dire un vantaggio. Nel Vangelo di Marco l’unica professione di Fede la farà un centurione romano e pagano sotto la croce, un uomo che non aveva conosciuto Gesù. E’ sulla croce che si apre la strada del Regno: oggi sarai con me in paradiso (cfr. Lc 22).

Molti si stupirono di lui, tanto era sfigurato il suo aspetto”. E’ una morte che serve per la salvezza di tutti. E’ accaduto qualcosa di sconvolgente. Qualcosa che non è affascinante. Gesù ha vissuto due condanne a morte, perché la flagellazione per i romani era una condanna a morte. I cristiani prima di disegnare la croce ci mettono tre secoli. Il salmo dice: è il più bello tra i figli dell’uomo. Pilato dice: Ecce homo. Questo è il paradosso. Dov’è questa bellezza? E’ una bellezza che non seduce. Non è uno che ti compra con l’apparente bellezza, con il suo fascino. Non è un manipolatore. Si tratta di cogliere la bellezza che appare se la cerchi in profondità e la percepisci dalla profondità delle sue scelte. E’ la bellezza di colui che non cede dinnanzi al male. Gesù ti mostra il costo dell’amore: è questa la vera bellezza che ti converte.

La croce è il nostro specchio. Quell’uomo sfigurato è la mia immagine ferita dal peccato. Tutto il male del mondo è rappresentato dai personaggi che circondano Gesù in quelle ore in cui scaricano su di lui quello che loro non vogliono vedere. Il crocefisso è quello che avviene nel peccato dell’uomo. L’innocente Gesù si fa carico dei peccati del mondo. Gesù sceglie la mitezza perché sia chiara la violenza che è su di lui. L’uomo sfigurato è il servo del Signore che diventa specchio della mia bruttezza. Eppure, quell’uomo sfigurato, è anche specchio dell’amore paziente e profondo del Dio che è capace di portare il peso degli alti. La croce è la narrazione di come è profondo l’amore di Dio. Gesù è la spugna contro il quale puoi scaricare la tua rabbia e ricevere perdono.

Dio non è assetato di sangue, ma la salvezza è conoscere il volto di Dio e il mio. Il Servo si fa carico di questa missione di liberazione. La mitezza, e il saper stare con forza in quella posizione sarà liberazione della violenza del mondo.

La realtà cambia nel momento in cui riconosciamo i nostri peccati. In tutti i Vangeli Pietro non ha vergogna di dire quello che ha fatto a Gesù, perché è un perdonato. Geremia dirà: quando saranno perdonati i vostri peccati conoscerete Dio.

giovedì 15 marzo 2018

IL TERZO CANTO DEL SERVO DI JHWH (Is 50,4-11)

DIOCESI DI REGGIO EMILIA E GUASTALLA - ZONALE OVEST






LECTIO DIVINA NEL TEMPO DI QUARESIMA

RONCINA – GIOVEDI 8 MARZO 2018


Con DON CARLO PAGLIARI


Sintesi: Paolo Cugini

Il terzo canto del Servo di JHWH descrive il servo quasi come un sapiente.
Il Signore mi dà una lingua da discepolo: il sapiente è colui che ascolta dalla sapienza che viene dall’alto e la vive nel concreto. Ricorda le indicazione che Mosè diede a Giosuè prima di entrare nella terra promessa. Stessa indicazione che JHWH dà al re Salomone. Il servo di JHWH di questo terzo canto segue quindi, il modello sapienziale.
Altra caratteristica: qui abbiamo la testimonianza in prima persona. Qui abbiamo la sua voce. Questo dà forza al testo. In questo canto veniamo a sapere il segreto della forza del servo. Veniamo a sapere che cosa pensa e vive nel momento della prova.

8-9: il servo manifesta una coscienza di sé molto forte. Vivere la mitezza, lo stile non-violento non vuol dire essere bonaccioni o dei deboli. Anche il servo è forte ma la sua non è una forza muscolare, ma interiore.

v. 4: Il Servo medita la Parola giorno e notte. La Parola corrobora la vita del Servo. Cfr. Maria che dà carne alla Parola, la somatizza. Maria è l’immagine del Sapiente che lascia che la Parola generi dentro di lei. Il discepolo ha una lingua nuova. Il servo di JHWH è discepolo in questa prospettiva, che viene dalla relazione con la Parola. Il segreto è ricordarsi di essere discepoli. Così come Gesù diceva: non do la vita da me stesso, ma il Padre. Essere talmente discepoli da riconoscere che tutto viene da Dio. Il dono ricevuto della Sapienza è data perché sia condivisa con gli sfiduciati.

Ogni mattina fa attento il mio orecchio: la preghiera migliore nella Bibbia è sempre quella del mattino. Alla sera è difficile pregare, è difficile ascoltare. Alla sera la preghiera rischia di diventare un monologo. La preghiera del mattino nasce quando tutto deve ancora cominciare stimola il silenzio, l’ascolto. Il discepolo conosce da dove viene la vita, per questo sta in silenzio e ascolta. I bambini cominciano a parlare ascoltando. Cfr. Salmo 27: se tu non mi parli io sono come colui che scende nella fossa. Se non ascolto qualche parola significativa, non ho parole significative. Se non ascolto non so dire nulla. Essere discepolo è la condizione normale dell’uomo e della donna. Ecco perché la preghiera è innanzi tutto silenzio e ascolto. Saper ascoltare è anche un saper vedere.

“Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e non ho posto resistenza”: c’è una sfumatura importante. È qualcosa presente anche nella letteratura profetica. Non è facile avere un rapporto con Dio. La prima resistenza l’abbiamo dentro di noi. Questo servo è servo fino al midollo. Si può resistere all’azione di Dio. La nascita è un’esperienza traumatica. L’esperienza della novità è dura da accettare, è dolorosa. Farsi aprire le orecchie è un’esperienza dura. Chi ha imparato a lottare con il Signore e a prenderlo sul serio, la stessa forza che ha maturato con il Signore la vivrà nella realtà.

Ho presentato il dorso ai flagellatori: qui c’è un’opposizione. Ci sono persone violente che vogliono umiliare e fare del male. La flagellazione è una punizione. Questi non si limitano a ferire il corpo, ma anche l’anima. Qui i nemici vogliono colpire la dignità. Qui c’è la forza del Servo che rimane in piedi in una situazione di grande umiliazione. Come rimanere in piedi in un simile contesto?

Il Signore Dio mi assiste: qui è il punto centrale. La vera forza la si trova in una disciplina interiore. Resistere alle umiliazioni è molto difficile. Si rimane in piedi se si ha la forza che vien da Dio. Il Servo non reagisce. Il Servo non vacilla perché la sua forza interiore gli rivela la sua identità. Il Servo sa che la violenza è il segno di una debolezza. Aggredire l’altro non è segno di forza. La vera forza è indurire il volto e rimanere fermi nella sua dignità. Il Servo sa che cosa è il male e il bene. Chi usa la violenza non ha capito che cos’è il bene. Questo Servo non cade nell’inganno perché è forte dentro di sé. E’ la forza che viene da Dio, dalla consapevolezza della vera sapienza.

Gesù non è uno sprovveduto quando abbraccia la croce. Gesù la sa più lunga di tutti noi. Questo lo ha capito chi lo ha visto morire. Gesù è libero nell’abbracciare la croce. La sua forza è che nonostante le violenze e le umiliazioni subite, i tradimenti dei suoi amici, Gesù non ha risposto con la stessa moneta, perché ha continuato ad agire come agisce Dio. Non ha permesso che il suo cuore si macchiasse di rancore, di gelosia, di rabbia. Il segreto del Servo è che ogni giorno, ogni mattina ha lasciato che la Parola forgiasse la sua umanità.

Sapendo di non restare confusi: Chi cresce nella confusione si logora presto. Siamo di fronte ad una umanità logorata. L’appello che fa il Servo è di ascoltare per prendere forza dal Signore.
10-11: Chi semina nel fuoco brucerà nel fuoco che semina. Morirete nelle frecce che avete acceso. Queste parole sono il frutto dell’esperienza del Servo. Chi usa la spada morirà di spada. Nella passione Gesù rimane progressivamente in silenzio perché sarà l vita stessa a parlare, sarà il suo stile a parlare. La vera battaglia non è mostrare muscolarmente chi è più forte, ma si tratta di far vedere chi non cede al male. Gesù in questo suo silenzio è spettacolare.