ESERCIZI SPIRITUALI
GALEAZZA 23-26 SETTEMBRE 2021QUINTA MEDITAZIONE
La parte
centrale del Vangelo secondo Luca (9, 51-19, 27), quella lunga sezione che
racconta il viaggio di Gesù con i suoi discepoli verso Gerusalemme, può essere
considerata un cammino di iniziazione al discepolato: c’è il racconto di un
itinerario; mentre si cammina verso Gerusalemme, Gesù istruisce i suoi
discepoli sulle necessità della vita del credente. Tra queste istruzioni un
posto grande ha, secondo S. Luca, l’uso del denaro e dei beni; tanto che alcuni
capitoli sono dedicati proprio a questo tema. Il brano che abbiamo ascoltato ne
è in qualche modo un esempio: ci sono due fratelli che litigano per una
eredità; uno di loro si rivolge a Gesù per chiedere il suo arbitrato ma riceve
un rifiuto e un’esortazione ad evitare la cupidigia. L’episodio si capisce
facilmente, anzitutto le liti per l’eredità sono fatali e antiche quanto è
l’uomo, e nemmeno il legame di parentela che unisce i fratelli è una garanzia
per evitarlo, anzi sembra che questo renda le liti ancora più aspre, spesso
senza possibilità di accordo. Dicevo: uno dei due fratelli si rivolge a Gesù;
perché? Perché Gesù si presenta come un rabbi. In Israele i rabbi sono i
maestri della legge, conoscono la legge di Mosè e tutte le spiegazioni e le
casistiche che gli esperti hanno raccolto durante i secoli; sono quindi
giuristi, possono essere chiamati ad operare come giudici o come avvocati o
come arbitri, proprio per la loro professione e conoscenza. Ma Gesù non si
colloca nella linea tradizionale dei rabbi e rifiuta decisamente ogni arbitrato.
Perché non è questa la missione che lui ha ricevuto dal Padre; egli è qui per
annunciare il Regno di Dio, per sottomettere alla sovranità di Dio la vita delle
persone; le decisioni giuridiche sui beni materiali non lo interessano. E
d’altra parte Gesù ha una famiglia, ma è quella costituita dai discepoli
che «ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8,
21). Se una vita dovesse riguardare questa famiglia, la vita della comunità, ne
sarebbe coinvolto Gesù stesso; ma le liti che riguardano la famiglia del mondo
(per motivi mondani), non sono per Lui, le sente come estranee.
Però da
quest’episodio Gesù ricava una lezione precisa: «Guardatevi e tenetevi
lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita
non dipende dai suoi beni» (Lc 12, 15). Per vivere sono necessarie molte
cose, anche il denaro attraverso cui le cose possono essere acquistate; ma
bisogna guardarsi bene dal confondere il senso della vita con i beni necessari
per sostenerla. Forse questo è uno degli equivoci più presenti nella nostra
società che, dicono gli esperti, è ricca di mezzi ma povera di fini. “Ricca di
mezzi”, si capisce: non c’è mai stata nella storia una società umana che avesse
a disposizione tanta ricchezza e strumenti per arricchire la vita. E questo va
bene. Ma dice Gesù: “Sarebbe un’illusione identificare questa abbondanza dei
mezzi con la felicità o anche solo con la pienezza della vita”. L’uomo è un
essere che pensa e quindi non riesce a fare niente se non per uno scopo degno
dello sforzo che si fa per raggiungerlo, altrimenti la vita dell’uomo rimane
inevitabilmente vuota e priva di sapore, di gusto e di senso; e quale può
essere il fine, se non consacrare la propria vita a qualche cosa di bello, di
grande e di degno? Non voglio demonizzare la ricchezza, ma se uno è ricco deve
pure avere qualche cosa al cui servizio mettere questa ricchezza; e deve essere
qualche cosa di utile e di buono, altrimenti la ricchezza diventa sterile e la
vita dell’uomo ricco diventa una vita inaridita e rinsecchita dai soldi.
Gesù spiega
tutto questo con una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un
buon raccolto. Egli ragionava tra sé: Che farò, perché non ho dove riporre i
miei raccolti? E disse: Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di
più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso:
Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia,
bevi e datti alla gioia» (Lc 12, 16-19). Molto spesso le parabole giocano
su una svolta improvvisa che capovolge l’aspetto iniziale delle cose. Nel
nostro caso il protagonista è dipinto come una persona in gamba e fortunata: il
raccolto è tanto buono che i granai non riescono a contenerlo. Cosa c’è di male
in questo? Evidentemente nulla, perché non si dice che quell’uomo sia stato
disonesto o che abbia accumulato il suo capitale angariando gli operai. Si dice
solo che il risultato del suo lavoro è stato ottimo. Ebbene, provate a collocare
un uomo così nella nostra società e chiedetevi che valutazione meriti, che voto
riceverebbe dall’opinione pubblica? Non sarebbe un voto ottimo? È un bravo
imprenditore, ha operato con successo, ha avuto anche fortuna: il bel tempo o
la pioggia sui suoi campi al momento opportuno; bravo e fortunato.
«Stolto»:
questa è la parola che cambia tutto e che deve risuonare con forza contrastando
i nostri giudizi, le attese e le valutazioni. Agli occhi del mondo è un uomo di
successo. «Stolto», dice Dio. E naturalmente dobbiamo pensare che il
giudizio di Dio sia più vero di quello che daremmo istintivamente noi. «Stolto»
non dice disonesto, perché non è questo che il racconto vuole sottolineare; ma
stolto significa poco intelligente. E bisognerebbe aggiungere poco furbo.
Capite, un uomo che ha fatto molti soldi è considerato poco furbo. Non è
paradossale? Non va contro tutti i nostri schemi mentali? Dobbiamo allora
tentare di capire perché è data una valutazione di questo genere. E la parabola
dà due indicazioni per capire.
1). La prima: «Questa
notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi
sarà?» (Lc 12, 20). E possiamo spiegare: i beni materiali possono anche
essere molti e preziosi, ma sono sempre beni esterni all’uomo, che in quanto
tali non cambiano l’essere, il valore della persona. Se ci si preoccupa solo di
questi beni, si finisce per avere molto, ma per essere poco. Il valore di una
persona non dipende da quello che ha, ma da quello che è. Una verifica di
questa realtà è proprio la morte. Di fronte alla morte, tutto quello che l’uomo
possiede è inutile, perché passa a qualcun altro, agli eredi, non rimane al
proprietario. Oltre alla morte, rimane solo quello che l’uomo è: la sua bontà o
cattiveria, la sua saggezza o stoltezza, la sua mitezza o prepotenza. Cioè, se
tu hai fatto buon uso del tuo denaro, il bene che hai fatto ti accompagna per
l’eternità, ma solo perché tu sei diventato buono, perché la decisione di fare
del bene con il denaro ha plasmato il tuo cuore e lo ha reso bello, della
bellezza dell’amore fraterno. È il tuo cuore pulito, generoso e leale che
varcherà il limite estremo della morte e che entrerà al cospetto di Dio, non il
denaro. Essere o avere è un’alternativa che è ripresa spesso dai filosofi,
dagli psicologi e dai predicatori. Naturalmente non si tratta di contrapporre
le due realtà, ma di metterle nel rapporto giusto. Non vuole dire: solo
l’essere è importante e l’avere non conta nulla. Invece, vuole dire: essere è
lo scopo e l’avere è il mezzo e lo strumento. È solo se queste due cose sono
collocate al posto giusto che allora la nostra vita diventa un’esistenza
matura. Il rischio sempre presente è che l’avere occupi tanto l’attenzione, il
desiderio e il progetto dell’uomo, che non rimane il tempo o l’energia per
educare o arricchire il cuore per formare la coscienza e maturare la
personalità. Allora si è materialmente ricchi, ma spiritualmente meschini;
apparentemente belli, ma sostanzialmente vuoti. Un tempo si diceva: l’uomo manichino,
che è ricoperto di un vestito bellissimo e fa figura, tanto che ci si ferma per
ammirarlo; si valuta il valore del vestito firmato e però ci si ferma lì. Ma
questo è un uomo? Sopporteremmo di essere valutati così? Per il valore del
vestito che portiamo? Valiamo così poco? Solo una distesa di magazzini di
grano? Oppure un portafoglio di carte di credito? Ecco, quello che il Vangelo
vuole, è difendere l’umanità dell’uomo, il primato del cuore, della coscienza,
della libertà e della ricchezza dei sentimenti; insomma, l’uomo come Dio lo ha
pensato e sognato ad immagine e somiglianza di Lui. Forse che i soldi possono
dire molto di questa somiglianza con Dio? I soldi ci fanno somigliare a Dio? Di
questa somiglianza non ne parla meglio la sincerità e la lealtà? Ma si potrebbe
dire: però l’uomo della parabola poteva anche essere sincero, leale e generoso?
Di questo il racconto non ne parla, non lo dice, ma non lo nega neanche; ed è
vero. Ma la parabola vuole insistere sul rischio che comporta la ricerca dei
beni esterni. Siccome l’uomo può fare attenzione ad una cosa sola alla volta, e
siccome la sua vita è una sola e il tempo che ha a disposizione è limitato,
l’energia che spende per fare i soldi non gli rimane a disposizione per altri
scopi. Toccherà a lui cercare con fatica l’armonia che gli permetterà di
crescere nel modo giusto: tanto impegno per fare soldi, quanto è necessario per
crescere come persona umana e come credente. Perché lo scopo è questo: il mezzo
deve essere subordinato e sintonizzato sullo scopo. Il problema dell’uomo della
parabola è di avere misurato il valore della vita sulla quantità del grano
prodotto dai suoi campi; ne ha ottenuto una quantità immensa, da essere
convinto di avere risolto il problema della vita.
2). C’è un
secondo motivo per cui il protagonista della parabola viene definito stolto.
Dice il Vangelo: «Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce
davanti a Dio» (Lc 12, 21). Il primo contrasto era: beni esterni e crescita
interiore dell’uomo personale. Il secondo contrasto è: per sé o davanti a Dio.
Dice il Vangelo: Ho un’idea di me stesso e mi spendo per realizzarla. E va
bene; ma non basta. Dio ha una certa idea di me ed è a questa che devo
rispondere: alla chiamata e vocazione del Signore. Io sono quello che il
Signore chiama, quel nome che il Signore mi ha dato. Devo imparare a crescere
in questa identità, non in quello che si aspettano gli altri da me, nemmeno in
quello che mi aspetterei io da me stesso, ma in quello che Dio si aspetta da
me. La vita dell’uomo, quando risponde alla chiamata di Dio, raggiunge la sua
pienezza, altrimenti rimane monca. L’uomo della parabola aveva raggiunto la
meta che si era prefisso, ma non aveva risposto alle attese di Dio, non ha
compiuto quello che era prezioso davanti a Dio, mentre rimane solo quello che è
prezioso davanti a Dio. Il discorso del Vangelo si conclude con una lunga
esortazione di Gesù alla fiducia in Dio Padre, che è onnipotente e quindi tiene
tutto nelle sue mani. È Padre misericordioso e quindi vuole la vita dell’uomo.
Allora diventa possibile avere fiducia, anzi diventa, secondo il Vangelo,
l’unica strada per trovare pace e serenità: «Non datevi pensiero per la
vostra vita, di quello che mangerete; né per il vostro corpo, come lo
vestirete. La vita vale più del cibo e il corpo più del vestito» (Lc 12,
22-23). Non state con l’animo in ansia. Proviamo a spiegare questo discorso:
l’uomo, come tutte le creature, ha bisogno di altre cose per vivere, e siccome
è una creatura complessa ha molte più necessità delle altre creature. Come il
giglio dei campi, l’uomo ha bisogno di luce e di calore, di minerali e di
acqua; come gli uccelli del cielo, ha bisogno di cibo e di spazio libero in cui
muoversi. Ma oltre a tutto questo l’uomo ha bisogno di conoscenza, di affetto,
di amore, di salute e di soldi; ha bisogno di essere accettato e perdonato. E
si potrebbe continuare a lungo. Da questa condizione nascono spontaneamente
l’ansia e l’inquietudine. Io ho bisogno di pane e allora sono in ansia finché
non ho trovato il pane; e quando l’ho trovato posso rimanere ancora in ansia
perché qualcun altro potrebbe portarmelo via. E così l’inquietudine diventa
infinita; quando mi mancano le cose necessarie, sono in ansia per il timore di
non raggiungerle; quando le ho sono in ansia per la paura di perderle. Così la
vita passa tra un desiderio ansioso e una paura ossessiva. Il desiderio di
vivere, si tramuta in ansia e paura dalla quale sembra impossibile liberarsi.
Provate a pensare al paradosso della società contemporanea, è, come dicevamo,
incomparabilmente più ricca di tutte le forme di società che ci hanno preceduto
nei secoli. Ma questa ricchezza si è trasformata in serenità e in sicurezza?
Sembra proprio di no. L’uomo di oggi vive impaurito ed incerto come l’uomo di
sempre. Dunque, non è la ricchezza che toglie l’ansia, non è dalla ricchezza o
dalla forza che scaturisce la sicurezza. Ancora: abbiamo inventato migliaia di
macchine per rendere più leggero e veloce il lavoro dell’uomo. Dovremmo quindi
vivere con maggiore libertà, invece siamo sempre più indaffarati. Come è stato
scritto, con il moltiplicarsi delle nostre macchine diventiamo sempre più
stanchi, ansiosi, nervosi e insoddisfatti, perché qualunque cosa abbiamo,
vogliamo qualche cosa di più. Insomma la tecnica non sembra averci regalato del
tempo, ma sembra avercelo rubato. Naturalmente non è colpa della tecnica; è il
nostro cuore che non riesce a trovare l’atteggiamento giusto. Ogni cosa che
possediamo diventa uno sprone, un tormento per cercare qualche cosa d’altro,
per una cupidigia infinita. C’è il modo di uscire da questa catena? Da questo
tormento?
Il Vangelo risponde:
«Non cercate che cosa mangerete e berrete, e non state con l’animo in ansia:
di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo; ma il Padre vostro sa che
ne avete bisogno. Cercate piuttosto il regno di Dio, e tutte queste cose vi
saranno date in aggiunta» (Lc 12, 29-31). Si tratta di metterci davanti a
Dio e di prendere coscienza dell’amore provvedente di Dio verso di noi, e
quindi di imparare di affidarci. «Dio veste meravigliosamente i gigli del
campo; nutre i corvi che pure non seminano e non mietano». Ora l’uomo è,
davanti a Dio, certamente più prezioso dei gigli del campo e dei corvi; e se
Dio nella sua provvidenza si prende cura di queste creature che valgono
relativamente poco, volete che non si prenda cura dell’uomo che Dio ha chiamato
ad essere suo figlio? Naturalmente il Vangelo non vuole dire che dobbiamo
imitare i corvi e quindi rinunciare a seminare o a mietere; o che dobbiamo
imitare i gigli e quindi attendere il raggio del sole o lo scroscio d’acqua.
Dio ci ha dato la testa e le mani perché ci s’impegni a pensare con la testa e
a lavorare con le mani. Ma possiamo fare questo senza troppa ansia per il
futuro, mantenendo la fiducia in Dio che è Padre e vuole per noi la vita.
Potrebbe sembrare un invito alla passività o alla serenità superficiale, ma non
è così. Gesù non dice che non dobbiamo fare nulla; dice invece che dobbiamo
cercare il regno di Dio. Ora il regno di Dio è l’esercizio concreto della
sovranità di Dio sul mondo, quindi dobbiamo cercare di far sì che il mondo,
l’uomo e la storia si muovano nella linea dell’obbedienza a Dio, alla sua
Parola. Non c’è bisogno di spiegare che questo è un compito immenso, che
coinvolge tutti i nostri pensieri ed azioni. L’esistenza dell’uomo di fede è
attiva e mai rassegnata, è sempre alla ricerca di un ordine che supera ogni
possibile realizzazione mondana. Ma è una ricerca fiduciosa e non ansiosa,
perché parte dalla convinzione che la salvezza del mondo non dipende da noi, e
che la nostra ricerca è sostenuta e resa efficace dall’amore di Dio. Voglio
dire: alla nostra vita c’è una base, un fondamento, che ci è stato regalato
gratis e che quindi non ci viene portato via da nessuno. È questo fondamento
che noi non possiamo porre, ma che Dio ci regala, la base della nostra fiducia
e speranza.
Un’ultima cosa.
Questa fiducia nella provvidenza di Dio non è superficiale o facilona; non si
identifica con la fiducia infantile (che tutto alla fine si aggiusterà in un
modo magico). È piuttosto una fiducia che deve mettere in conto anche la croce
e quindi anche un possibile esito fallimentare dal punto di vista umano. Dal
punto di vista umano e storico, Gesù è fallito; il suo progetto si è scontrato
con la Croce; però Gesù ha posto la sua fiducia nel Padre e con questa ha
camminato. Ed in questa fiducia è rimasto anche sulla croce: «Padre, nelle
tue mani affido il mio Spirito» (Lc 23, 46). Dunque, quello che c’è
garantito non è un benessere facile o magico, ma è il sostegno e la protezione
di Dio, come Padre, in qualunque momento della nostra vita; nessuna forza è
capace di strappare la nostra vita all’amore che Dio ha per noi. Allora su
questa base possiamo camminare, lavorare, sperare e pregare, mantenendo un
briciolo di fiducia e l’abbandono nella provvidenza di Dio.
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