sabato 25 settembre 2021

Cercate il regno di Dio

 


ESERCIZI SPIRITUALI

GALEAZZA 23-26 SETTEMBRE 2021
QUINTA MEDITAZIONE


La parte centrale del Vangelo secondo Luca (9, 51-19, 27), quella lunga sezione che racconta il viaggio di Gesù con i suoi discepoli verso Gerusalemme, può essere considerata un cammino di iniziazione al discepolato: c’è il racconto di un itinerario; mentre si cammina verso Gerusalemme, Gesù istruisce i suoi discepoli sulle necessità della vita del credente. Tra queste istruzioni un posto grande ha, secondo S. Luca, l’uso del denaro e dei beni; tanto che alcuni capitoli sono dedicati proprio a questo tema. Il brano che abbiamo ascoltato ne è in qualche modo un esempio: ci sono due fratelli che litigano per una eredità; uno di loro si rivolge a Gesù per chiedere il suo arbitrato ma riceve un rifiuto e un’esortazione ad evitare la cupidigia. L’episodio si capisce facilmente, anzitutto le liti per l’eredità sono fatali e antiche quanto è l’uomo, e nemmeno il legame di parentela che unisce i fratelli è una garanzia per evitarlo, anzi sembra che questo renda le liti ancora più aspre, spesso senza possibilità di accordo. Dicevo: uno dei due fratelli si rivolge a Gesù; perché? Perché Gesù si presenta come un rabbi. In Israele i rabbi sono i maestri della legge, conoscono la legge di Mosè e tutte le spiegazioni e le casistiche che gli esperti hanno raccolto durante i secoli; sono quindi giuristi, possono essere chiamati ad operare come giudici o come avvocati o come arbitri, proprio per la loro professione e conoscenza. Ma Gesù non si colloca nella linea tradizionale dei rabbi e rifiuta decisamente ogni arbitrato. Perché non è questa la missione che lui ha ricevuto dal Padre; egli è qui per annunciare il Regno di Dio, per sottomettere alla sovranità di Dio la vita delle persone; le decisioni giuridiche sui beni materiali non lo interessano. E d’altra parte Gesù ha una famiglia, ma è quella costituita dai discepoli che «ascoltano la Parola di Dio e la mettono in pratica» (Lc 8, 21). Se una vita dovesse riguardare questa famiglia, la vita della comunità, ne sarebbe coinvolto Gesù stesso; ma le liti che riguardano la famiglia del mondo (per motivi mondani), non sono per Lui, le sente come estranee.

Però da quest’episodio Gesù ricava una lezione precisa: «Guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni» (Lc 12, 15). Per vivere sono necessarie molte cose, anche il denaro attraverso cui le cose possono essere acquistate; ma bisogna guardarsi bene dal confondere il senso della vita con i beni necessari per sostenerla. Forse questo è uno degli equivoci più presenti nella nostra società che, dicono gli esperti, è ricca di mezzi ma povera di fini. “Ricca di mezzi”, si capisce: non c’è mai stata nella storia una società umana che avesse a disposizione tanta ricchezza e strumenti per arricchire la vita. E questo va bene. Ma dice Gesù: “Sarebbe un’illusione identificare questa abbondanza dei mezzi con la felicità o anche solo con la pienezza della vita”. L’uomo è un essere che pensa e quindi non riesce a fare niente se non per uno scopo degno dello sforzo che si fa per raggiungerlo, altrimenti la vita dell’uomo rimane inevitabilmente vuota e priva di sapore, di gusto e di senso; e quale può essere il fine, se non consacrare la propria vita a qualche cosa di bello, di grande e di degno? Non voglio demonizzare la ricchezza, ma se uno è ricco deve pure avere qualche cosa al cui servizio mettere questa ricchezza; e deve essere qualche cosa di utile e di buono, altrimenti la ricchezza diventa sterile e la vita dell’uomo ricco diventa una vita inaridita e rinsecchita dai soldi.

Gesù spiega tutto questo con una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un buon raccolto. Egli ragionava tra sé: Che farò, perché non ho dove riporre i miei raccolti? E disse: Farò così: demolirò i miei magazzini e ne costruirò di più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia» (Lc 12, 16-19). Molto spesso le parabole giocano su una svolta improvvisa che capovolge l’aspetto iniziale delle cose. Nel nostro caso il protagonista è dipinto come una persona in gamba e fortunata: il raccolto è tanto buono che i granai non riescono a contenerlo. Cosa c’è di male in questo? Evidentemente nulla, perché non si dice che quell’uomo sia stato disonesto o che abbia accumulato il suo capitale angariando gli operai. Si dice solo che il risultato del suo lavoro è stato ottimo. Ebbene, provate a collocare un uomo così nella nostra società e chiedetevi che valutazione meriti, che voto riceverebbe dall’opinione pubblica? Non sarebbe un voto ottimo? È un bravo imprenditore, ha operato con successo, ha avuto anche fortuna: il bel tempo o la pioggia sui suoi campi al momento opportuno; bravo e fortunato.

«Stolto»: questa è la parola che cambia tutto e che deve risuonare con forza contrastando i nostri giudizi, le attese e le valutazioni. Agli occhi del mondo è un uomo di successo. «Stolto», dice Dio. E naturalmente dobbiamo pensare che il giudizio di Dio sia più vero di quello che daremmo istintivamente noi. «Stolto» non dice disonesto, perché non è questo che il racconto vuole sottolineare; ma stolto significa poco intelligente. E bisognerebbe aggiungere poco furbo. Capite, un uomo che ha fatto molti soldi è considerato poco furbo. Non è paradossale? Non va contro tutti i nostri schemi mentali? Dobbiamo allora tentare di capire perché è data una valutazione di questo genere. E la parabola dà due indicazioni per capire.

 

1). La prima: «Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?» (Lc 12, 20). E possiamo spiegare: i beni materiali possono anche essere molti e preziosi, ma sono sempre beni esterni all’uomo, che in quanto tali non cambiano l’essere, il valore della persona. Se ci si preoccupa solo di questi beni, si finisce per avere molto, ma per essere poco. Il valore di una persona non dipende da quello che ha, ma da quello che è. Una verifica di questa realtà è proprio la morte. Di fronte alla morte, tutto quello che l’uomo possiede è inutile, perché passa a qualcun altro, agli eredi, non rimane al proprietario. Oltre alla morte, rimane solo quello che l’uomo è: la sua bontà o cattiveria, la sua saggezza o stoltezza, la sua mitezza o prepotenza. Cioè, se tu hai fatto buon uso del tuo denaro, il bene che hai fatto ti accompagna per l’eternità, ma solo perché tu sei diventato buono, perché la decisione di fare del bene con il denaro ha plasmato il tuo cuore e lo ha reso bello, della bellezza dell’amore fraterno. È il tuo cuore pulito, generoso e leale che varcherà il limite estremo della morte e che entrerà al cospetto di Dio, non il denaro. Essere o avere è un’alternativa che è ripresa spesso dai filosofi, dagli psicologi e dai predicatori. Naturalmente non si tratta di contrapporre le due realtà, ma di metterle nel rapporto giusto. Non vuole dire: solo l’essere è importante e l’avere non conta nulla. Invece, vuole dire: essere è lo scopo e l’avere è il mezzo e lo strumento. È solo se queste due cose sono collocate al posto giusto che allora la nostra vita diventa un’esistenza matura. Il rischio sempre presente è che l’avere occupi tanto l’attenzione, il desiderio e il progetto dell’uomo, che non rimane il tempo o l’energia per educare o arricchire il cuore per formare la coscienza e maturare la personalità. Allora si è materialmente ricchi, ma spiritualmente meschini; apparentemente belli, ma sostanzialmente vuoti. Un tempo si diceva: l’uomo manichino, che è ricoperto di un vestito bellissimo e fa figura, tanto che ci si ferma per ammirarlo; si valuta il valore del vestito firmato e però ci si ferma lì. Ma questo è un uomo? Sopporteremmo di essere valutati così? Per il valore del vestito che portiamo? Valiamo così poco? Solo una distesa di magazzini di grano? Oppure un portafoglio di carte di credito? Ecco, quello che il Vangelo vuole, è difendere l’umanità dell’uomo, il primato del cuore, della coscienza, della libertà e della ricchezza dei sentimenti; insomma, l’uomo come Dio lo ha pensato e sognato ad immagine e somiglianza di Lui. Forse che i soldi possono dire molto di questa somiglianza con Dio? I soldi ci fanno somigliare a Dio? Di questa somiglianza non ne parla meglio la sincerità e la lealtà? Ma si potrebbe dire: però l’uomo della parabola poteva anche essere sincero, leale e generoso? Di questo il racconto non ne parla, non lo dice, ma non lo nega neanche; ed è vero. Ma la parabola vuole insistere sul rischio che comporta la ricerca dei beni esterni. Siccome l’uomo può fare attenzione ad una cosa sola alla volta, e siccome la sua vita è una sola e il tempo che ha a disposizione è limitato, l’energia che spende per fare i soldi non gli rimane a disposizione per altri scopi. Toccherà a lui cercare con fatica l’armonia che gli permetterà di crescere nel modo giusto: tanto impegno per fare soldi, quanto è necessario per crescere come persona umana e come credente. Perché lo scopo è questo: il mezzo deve essere subordinato e sintonizzato sullo scopo. Il problema dell’uomo della parabola è di avere misurato il valore della vita sulla quantità del grano prodotto dai suoi campi; ne ha ottenuto una quantità immensa, da essere convinto di avere risolto il problema della vita.

 

2). C’è un secondo motivo per cui il protagonista della parabola viene definito stolto. Dice il Vangelo: «Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio» (Lc 12, 21). Il primo contrasto era: beni esterni e crescita interiore dell’uomo personale. Il secondo contrasto è: per sé o davanti a Dio. Dice il Vangelo: Ho un’idea di me stesso e mi spendo per realizzarla. E va bene; ma non basta. Dio ha una certa idea di me ed è a questa che devo rispondere: alla chiamata e vocazione del Signore. Io sono quello che il Signore chiama, quel nome che il Signore mi ha dato. Devo imparare a crescere in questa identità, non in quello che si aspettano gli altri da me, nemmeno in quello che mi aspetterei io da me stesso, ma in quello che Dio si aspetta da me. La vita dell’uomo, quando risponde alla chiamata di Dio, raggiunge la sua pienezza, altrimenti rimane monca. L’uomo della parabola aveva raggiunto la meta che si era prefisso, ma non aveva risposto alle attese di Dio, non ha compiuto quello che era prezioso davanti a Dio, mentre rimane solo quello che è prezioso davanti a Dio. Il discorso del Vangelo si conclude con una lunga esortazione di Gesù alla fiducia in Dio Padre, che è onnipotente e quindi tiene tutto nelle sue mani. È Padre misericordioso e quindi vuole la vita dell’uomo. Allora diventa possibile avere fiducia, anzi diventa, secondo il Vangelo, l’unica strada per trovare pace e serenità: «Non datevi pensiero per la vostra vita, di quello che mangerete; né per il vostro corpo, come lo vestirete. La vita vale più del cibo e il corpo più del vestito» (Lc 12, 22-23). Non state con l’animo in ansia. Proviamo a spiegare questo discorso: l’uomo, come tutte le creature, ha bisogno di altre cose per vivere, e siccome è una creatura complessa ha molte più necessità delle altre creature. Come il giglio dei campi, l’uomo ha bisogno di luce e di calore, di minerali e di acqua; come gli uccelli del cielo, ha bisogno di cibo e di spazio libero in cui muoversi. Ma oltre a tutto questo l’uomo ha bisogno di conoscenza, di affetto, di amore, di salute e di soldi; ha bisogno di essere accettato e perdonato. E si potrebbe continuare a lungo. Da questa condizione nascono spontaneamente l’ansia e l’inquietudine. Io ho bisogno di pane e allora sono in ansia finché non ho trovato il pane; e quando l’ho trovato posso rimanere ancora in ansia perché qualcun altro potrebbe portarmelo via. E così l’inquietudine diventa infinita; quando mi mancano le cose necessarie, sono in ansia per il timore di non raggiungerle; quando le ho sono in ansia per la paura di perderle. Così la vita passa tra un desiderio ansioso e una paura ossessiva. Il desiderio di vivere, si tramuta in ansia e paura dalla quale sembra impossibile liberarsi. Provate a pensare al paradosso della società contemporanea, è, come dicevamo, incomparabilmente più ricca di tutte le forme di società che ci hanno preceduto nei secoli. Ma questa ricchezza si è trasformata in serenità e in sicurezza? Sembra proprio di no. L’uomo di oggi vive impaurito ed incerto come l’uomo di sempre. Dunque, non è la ricchezza che toglie l’ansia, non è dalla ricchezza o dalla forza che scaturisce la sicurezza. Ancora: abbiamo inventato migliaia di macchine per rendere più leggero e veloce il lavoro dell’uomo. Dovremmo quindi vivere con maggiore libertà, invece siamo sempre più indaffarati. Come è stato scritto, con il moltiplicarsi delle nostre macchine diventiamo sempre più stanchi, ansiosi, nervosi e insoddisfatti, perché qualunque cosa abbiamo, vogliamo qualche cosa di più. Insomma la tecnica non sembra averci regalato del tempo, ma sembra avercelo rubato. Naturalmente non è colpa della tecnica; è il nostro cuore che non riesce a trovare l’atteggiamento giusto. Ogni cosa che possediamo diventa uno sprone, un tormento per cercare qualche cosa d’altro, per una cupidigia infinita. C’è il modo di uscire da questa catena? Da questo tormento?

Il Vangelo risponde: «Non cercate che cosa mangerete e berrete, e non state con l’animo in ansia: di tutte queste cose si preoccupa la gente del mondo; ma il Padre vostro sa che ne avete bisogno. Cercate piuttosto il regno di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Lc 12, 29-31). Si tratta di metterci davanti a Dio e di prendere coscienza dell’amore provvedente di Dio verso di noi, e quindi di imparare di affidarci. «Dio veste meravigliosamente i gigli del campo; nutre i corvi che pure non seminano e non mietano». Ora l’uomo è, davanti a Dio, certamente più prezioso dei gigli del campo e dei corvi; e se Dio nella sua provvidenza si prende cura di queste creature che valgono relativamente poco, volete che non si prenda cura dell’uomo che Dio ha chiamato ad essere suo figlio? Naturalmente il Vangelo non vuole dire che dobbiamo imitare i corvi e quindi rinunciare a seminare o a mietere; o che dobbiamo imitare i gigli e quindi attendere il raggio del sole o lo scroscio d’acqua. Dio ci ha dato la testa e le mani perché ci s’impegni a pensare con la testa e a lavorare con le mani. Ma possiamo fare questo senza troppa ansia per il futuro, mantenendo la fiducia in Dio che è Padre e vuole per noi la vita. Potrebbe sembrare un invito alla passività o alla serenità superficiale, ma non è così. Gesù non dice che non dobbiamo fare nulla; dice invece che dobbiamo cercare il regno di Dio. Ora il regno di Dio è l’esercizio concreto della sovranità di Dio sul mondo, quindi dobbiamo cercare di far sì che il mondo, l’uomo e la storia si muovano nella linea dell’obbedienza a Dio, alla sua Parola. Non c’è bisogno di spiegare che questo è un compito immenso, che coinvolge tutti i nostri pensieri ed azioni. L’esistenza dell’uomo di fede è attiva e mai rassegnata, è sempre alla ricerca di un ordine che supera ogni possibile realizzazione mondana. Ma è una ricerca fiduciosa e non ansiosa, perché parte dalla convinzione che la salvezza del mondo non dipende da noi, e che la nostra ricerca è sostenuta e resa efficace dall’amore di Dio. Voglio dire: alla nostra vita c’è una base, un fondamento, che ci è stato regalato gratis e che quindi non ci viene portato via da nessuno. È questo fondamento che noi non possiamo porre, ma che Dio ci regala, la base della nostra fiducia e speranza.

Un’ultima cosa. Questa fiducia nella provvidenza di Dio non è superficiale o facilona; non si identifica con la fiducia infantile (che tutto alla fine si aggiusterà in un modo magico). È piuttosto una fiducia che deve mettere in conto anche la croce e quindi anche un possibile esito fallimentare dal punto di vista umano. Dal punto di vista umano e storico, Gesù è fallito; il suo progetto si è scontrato con la Croce; però Gesù ha posto la sua fiducia nel Padre e con questa ha camminato. Ed in questa fiducia è rimasto anche sulla croce: «Padre, nelle tue mani affido il mio Spirito» (Lc 23, 46). Dunque, quello che c’è garantito non è un benessere facile o magico, ma è il sostegno e la protezione di Dio, come Padre, in qualunque momento della nostra vita; nessuna forza è capace di strappare la nostra vita all’amore che Dio ha per noi. Allora su questa base possiamo camminare, lavorare, sperare e pregare, mantenendo un briciolo di fiducia e l’abbandono nella provvidenza di Dio.

 

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